Ortigara monte di sangue la battaglia che si poteva solo perdere
La
neve che prese a cadere l’8 novembre 1916 rassicurò gli uomini del
Battaglione Sette Comuni. Col maltempo in arrivo, l’offensiva su
Cima Portule non si sarebbe fatta. Intanto,
forse si arriva vivi a Natale, poi si vedrà. Sui
crinali montani tra l’altopiano di Asiago e la Valsugana era tutto
rimandato alla buona stagione dell’anno nuovo. Non potevano sapere,
quei bravi alpini, che sarebbe spuntata l’alba del 10 giugno 1917.
A migliaia sarebbero usciti all’assalto, loro compresi del Sette
Comuni, e l’Ortigara sarebbe diventata l’ennesima cima
insanguinata della Grande Guerra. Un nome che solo a sentirlo ha
fatto tremare per decenni, nel ricordare quanti erano caduti sotto i
colpi di fucili e mitragliatrici, maciullati dai cannoni austriaci,
arsi vivi dai lanciafiamme.
C’era
nebbia domenica 10, alle 15, quando cominciò il primo dei venti
giorni sull’Ortigara e la scarsa visibilità non giovò
all’attacco, perchè ostacolava il tiro di accompagnamento
dell’artiglieria.
Pioveva
pure, un
violentissimo temporale,
quando gli alpini del Monte Baldo e del Bassano conquistarono il
passo dell’Agnella e le trincee di quota 2003, facendo 200
prigionieri e bottino di armi. Non era più tardi delle 18,30. Un’ora
dopo cadeva anche quota 2101, la seconda per altezza, bersagliata
però dai tugnin,
che tenevano ancora saldamente la 2105, cima Ortigara, un tozzo
tronco di cono. E fu comunque una prova di alpinismo puro, che
consentì a piccoli reparti di superare strapiombi sulla Valsugana e
sorprendere il nemico da una direzione inaspettata.
Quello
che ottennero pochi ardimentosi non riuscì invece alle povere masse
grigioverdi all’assalto anche nei giorni successivi, perchè
l’attacco era solo parte di un’offensiva più estesa per
riprendere Cima Portule e ristabilire la linea preesistente alla
Spedizione Punitiva austriaca della primavera 1916. Un progetto
fallimentare, visto che il generalissimo Cadorna poté registrare gli
unici progressi solo in zona Ortigara.
La
scelta di tentare in montagna ondate alla baionetta, sullo stile del
carnaio carsico, fa di questa battaglia un esempio atipico per la
guerra in quota, uno scontro sfuggito di mano ai comandi, che
finirono per alimentare inutili azioni di grandi ranghi, laddove
risultavano più efficaci colpi di mano, subito appoggiati dai
rinforzi, rimasti il più possibile al coperto.
Le perdite, per
quanto ricalcolate da Volpato in 13.205 tra morti, feriti e
prigionieri (non i 25.000 di solito attribuiti al macello
dell’Ortigara), confermano un affollamento eccessivo degli
attaccanti. Un trincerone strappato il primo giorno fece registrare
la pesante contabilità di quattro caduti italiani per metro lineare.
La quota trigonometrica 2105 venne presa a carissimo prezzo il 19 e
persa la notte del 24.
Una
spietata concentrazione di artiglieria isolò i pochi reparti lassù,
liquidati in pochissime ore da rarefatte truppe d’assalto
austriache.
Il 29 giugno lasciammo anche quota 2003 e i venti
giorni di sangue diventarono inutili. Cominciò il processo di
rimozione della battaglia, che sparì dai Bollettino del Comando
Supremo. Al contrario, dal primissimo dopoguerra venne esaltata quale
simbolo doloroso del sacrificio.
Era
un’offensiva inutile, dice Volpato, per un obiettivo che non si
sarebbe mai potuto prendere né sfruttare: la linea del Portule. Gli
imperiali avrebbero bloccato ogni sviluppo ulteriore e comunque
fecero difetto dalla nostra parte la sorpresa tattica, il segreto
dell’azione, la possibilità di scardinare una difesa basata più
su caverne protette che su trincee esposte, per non dire
dell’impossibilità di attaccare a fondo in montagna.
Era
una battaglia che si poteva solo perdere.
Paolo
Volpato, La
verità italiana sull’Ortigara 2014

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