Caratteristiche della condizione schiavile

Le cause
Lo schiavo è una cosa, una res vivente, uno “strumento o animale parlante”. Lo è dal IV millennio a.C., a partire dalle civiltà egizie e sumera. In latino schiavo si dice servus, ma gli storici, per distinguere il feudalesimo dallo schiavismo, usano “schiavo” per l'economia schiavile rivolta al mercato, e “servo” per indicare l'economia di sussistenza basata sul servaggio o servitù della gleba. Finito il feudalesimo, la parola “servo” stava a indicare una qualunque persona libera che prestava un servizio. Nella civiltà romana la condizione di schiavo rientrava in quella più generale dipendenza che il cittadino romano riservava allo straniero, l'uomo alla donna, il padre al figlio. Si diventava schiavi sostanzialmente per due motivi:
sconfitta militare: i prigionieri di guerra, caduti in proprietà dello Stato, venivano venduti al miglior offerente;
indebitamento: chi non poteva pagare i propri debiti diventava proprietà del creditore, dopo il relativo periodo di prigionia, oppure veniva venduto sui mercati di Trastevere.
Ma lo si poteva diventare anche a seguito di un naufragio o di una pena che comportasse la perdita della libertà personale (p.es. l'assassinio o la renitenza alla leva o l'evasione fiscale), a meno che non si accettasse l'esilio. La gente povera spesso finiva schiava anche per reati minimi, se non poteva pagare una pena pecuniaria. E non si devono dimenticare le persone rapite dai pirati o dai briganti per essere poi vendute, né i bambini che venivano abbandonati (perché non riconosciuti dal padre), oppure venduti dalle famiglie povere. Poteva anche darsi il caso di esiliati politici che emigravano a Roma per porsi in servitù, o di quelle tribù nordiche che facevano la stessa cosa, spinte dalla fame o dalla carestia. Da ultimo non si può non considerare che un commercio estero, internazionale, di schiavi esisteva anche prima che i Romani diventassero una grande potenza (p.es. nel mondo greco e mesopotamico). Nessuna filosofia egualitaria dell'antichità schiavistica riuscì mai a scalfire questa diffusa cultura dello sfruttamento del lavoro altrui.
La compravendita
Gli schiavi venivano venduti nelle botteghe, sui mercati o nel Foro, sotto la sorveglianza di appositi magistrati, a tutela dei rilevanti profitti statali. Generalmente stavano su un palco girevole, con al collo un cartello che indicava la nazionalità, le attitudini, le qualità, i difetti. Quelli provenienti d'oltremare erano riconoscibili per un piede tinto di bianco, e i soldati vinti per una coroncina in testa. Schiavi scelti e costosi venivano mostrati in sale chiuse a ingresso controllato. I prezzi variavano a seconda dell'età e delle qualità (intelligenza, cultura, forza fisica ma anche bellezza, buona dentatura, capacità di suonare o cantare, parlare greco) e si aggiravano sui 1.200- 2.500 sesterzi (a fine repubblica un sesterzio equivaleva ad almeno due euro). Anche ai Romani di mezzi modesti piaceva avere uno schiavo al proprio servizio, perché non averne neppure uno era indizio di degradante miseria. Molti ricchi romani possedevano da 10.000 a 20.000 schiavi. I Romani più ricchi potevano anche acquistarli per rivenderli o cederli a grosse imprese in cambio di un affitto. Sotto questo aspetto alcuni arrivarono persino ad “allevarli” Le mansioni Una volta fatto schiavo, i luoghi prevalenti di destinazione dove esercitare il mestiere erano in aree abbastanza separate: campagna, città, mare (i rematori nelle navi militari o mercantili), cave e miniere (soprattutto per l'estrazione dei metalli pregiati). La schiavitù rurale era quella che comprendeva i braccianti, i contadini, gli allevatori. Questi schiavi godevano di condizioni di vita infime. Il loro lavoro era molto faticoso e poco qualificato. Il trasferimento dalla famiglia urbana a quella rustica veniva considerato come una punizione. A capo degli schiavi di campagna era il fattore, assistito dalla moglie. In città invece venivano impiegati per attività artigianali (vasai, decoratori, carpentieri, muratori, lavoratori del cuoio), o industriali (per fabbricare tessuti). Questi schiavi godevano di condizioni di vita migliori e il loro lavoro era più qualificato. Ma vi erano anche quelli dediti alla costruzione di strade e alle opere pubbliche, o quelli che dovevano far girare la ruota del mulino: questi sicuramente svolgevano lavori molto più duri. Le categorie privilegiate di schiavi erano quelle destinate al servizio domestico (cuochi, camerieri, gli addetti alla toeletta dei padroni, alla cura e all'educazione dei loro figli, alla pulizia della casa e delle suppellettili, degli indumenti..., ma anche gli amanuensi e i postini). Più in alto vi erano quelli che aiutavano il padrone nelle attività commerciali e amministrative (tesoriere, contabile, addetto alla tenuta dei libri), oppure gli schiavi intellettuali, quali pedagoghi, medici e chirurghi, bibliotecari. Vi erano anche gli addetti a scuderie e cavalli. Gli schiavisti non svolgevano alcuna attività manuale, e riducevano al minimo tutte quelle che potevano essere svolte da una manodopera schiavile. In genere gli schiavi provenienti dall'oriente ellenistico erano adibiti a funzioni domestiche (anche come maestri dei figli dell'aristocrazia) o artigianali o intellettuali cittadine, perché meno robusti e più acculturati dei loro colleghi italici, germanici e iberici.
I diritti
Lo schiavo, per definizione, non aveva alcun diritto, ma solo responsabilità penali. Non poteva possedere cose personali, cioè se poteva comprare qualcosa non poteva però disporne come fosse di sua proprietà. Se aveva moglie e figli, il suo padrone poteva venderli senza nessun problema. Lo schiavo restava tale anche se per un evento qualunque cessava di avere un padrone. Lo schiavo, di regola, non poteva sposarsi (Catone il Vecchio fu l'unico a permettere, tra i suoi servi, rapporti sessuali a pagamento intascandone il prezzo), non poteva essere difeso dalla legge o ascoltato in un tribunale. Tuttavia, nel corso dell'impero i padroni di schiavi tenderanno a permettere a quest'ultimi la possibilità di una stabile vita di coppia. È altresì noto che i padroni avevano maggiori riguardi per gli schiavi nati in casa. Gli schiavi che ritenevano ingiusto il padrone potevano rifugiarsi in Campidoglio ed esporre le proprie ragioni, ma non si ha notizia di padroni puniti. Allo schiavo veniva concesso asilo se si rifugiava presso un tempio, ma al massimo poteva passare di proprietà da un padrone a un altro. Se un cittadino uccideva uno schiavo altrui, non incorreva a una sanzione penale ma solo amministrativa, cioè pagava una sanzione monetaria corrispondente al valore dello schiavo. Per sua natura lo schiavo non aveva alcun diritto: p.es. la legge Giulia aveva stabilito che non poteva esservi adulterio o stupro se non tra persone libere (molti giovani schiavi venivano usati a scopi sessuali, anche se la legge Scantinia, del 149 a.C., colpiva i rapporti omosessuali con persone di condizione libera). Al massimo la legge Petronia proibiva al padrone di dare lo schiavo in pasto alle belve senza una sentenza del giudice. Il diritto romano non riconosceva agli schiavi neppure un culto religioso proprio, anche se consentiva loro di esercitare alcuni riti secondo i costumi originari. Gli schiavi di città erano sicuramente più liberi di quelli di campagna: potevano frequentare le osterie, i bagni pubblici, il circo... A volte capitava che per esigenze particolari (guerre, ordine pubblico) si accettassero arruolamenti negli eserciti da parte di schiavi e barbari: in tal caso lo schiavo otteneva subito la libertà e il diritto a sposare le vedove dei caduti di guerra. Solo dopo Adriano lo schiavo, coi suoi piccoli risparmi, con le mance, ha diritto di farsi un gruzzolo di denaro con cui affrancarsi, ma soltanto nella tarda età imperiale la legge ordinerà ai padroni di concedere l'affrancamento, dopo aver soddisfatto i loro diritti di proprietario. Gli schiavi, veri e propri “strumenti di produzione”, quando la vecchiaia, gli stenti, le malattie li rendevano improduttivi, venivano abbandonati a se stessi, dato che difficilmente il padrone trovava un compratore. Tuttavia un editto dell'imperatore Claudio toglieva il diritto di proprietà al padrone che aveva abbandonato uno schiavo vecchio e malato (nel 52 d.C. vi era un obbligo condizionale di prestare cure mediche allo schiavo malato). L'imperatore Antonino Pio minacciò pene al padrone che uccideva uno schiavo senza motivo. Vi era poi sempre la possibilità che uno schiavo fosse in grado di riscattarsi diventando liberto: in tal caso la legge Aemilia (115 a.C.) gli concedeva il voto (con limitazioni).
Evoluzione
Nei primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti nel sistema patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto dallo stesso pater familias, aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi erano considerati persone di famiglia, anche se ovviamente senza alcun diritto. All'inizio del II sec. a.C. raramente le famiglie romane possedevano più di uno schiavo, ma verso la fine dello stesso secolo, soprattutto dopo la fine delle guerre puniche, il numero della popolazione servile era talmente aumentato da alterare i rapporti tra schiavo e padrone. Il mercato degli schiavi era ormai divenuto una delle attività commerciali più produttive del Mediterraneo (questo perché i ricchi proprietari terrieri avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera). Il più grande mercato venne organizzato nell'isola di Delo, dove nei tempi più proficui si potevano vendere, mediamente, 10.000 schiavi al giorno. L'estendersi dell'economia schiavistica ebbe conseguenze negative per la popolazione italica, non solo perché frenava lo sviluppo tecnologico, ma anche perché tendeva ad aumentare la disoccupazione. Al tempo dell'imperatore Domiziano poteva sembrare più accettabile la posizione di uno schiavo al servizio di un ricco che non quella di un cittadino libero privo di proprietà. Nel II sec. d.C. famiglie con un unico schiavo non esistevano più: o non ne compravano affatto perché costava troppo mantenerli, oppure ne possedevano molti di più. Due era il numero minimo, ma la media era otto. Il livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità, la quantità e la qualità dei servizi privati, in casa e fuori, erano in proporzione alla quantità e qualità di schiavi posseduti. Il prestigio di un avvocato, p.es., era determinato, presso il suo cliente, dalla scorta di schiavi con cui si presentava in tribunale. Plinio il Giovane (età di Traiano), che si dichiarava uomo di modesta ricchezza, ne possedeva almeno 500, e di questi volle affrancarne almeno 100 nel suo testamento. Il massimo dei riscatti consentiti dalla legge Fufia Caninia, del 2 a.C., era di 1/5 del totale degli schiavi posseduti. Nell'età imperiale Adriano tolse al padrone dello schiavo il diritto di vita e di morte, e Antonino Pio e Costantino considerarono equivalente a un omicidio l'assassinio del servo, e punivano chi uccideva un figlio con le stesse pene per chi uccideva il padre.
Con altre disposizioni si permise allo schiavo di mettere da parte, coi suoi risparmi, una somma che gli servisse per qualche spesa voluttuaria o gli permettesse di riscattarsi, quando non era lo stesso padrone, spontaneamente, a liberarlo.
Provenienza geografica
Durante il periodo della conquista romana dei paesi del Mediterraneo (264-31 a.C.) furono ridotti in schiavitù a Roma e in Italia:
30.000 abitanti di Taranto nel 209
un gran numero di Sardi nel 176
150.000 abitanti dell'Epiro nel 167
50.000 Cartaginesi nel 146
50.000 Corinzi nel 146
intere popolazioni della Spagna tra il 150 e il 100
150.000 Cimbri e Teutoni verso il 102-101
centinaia di migliaia di asiatici dalle guerre di Pompeo nel 66-62: Ponto, Siria, Palestina
un milione di Galli dalle guerre di Cesare nel 58-50 Durante il periodo della pax romana (31 a.C.-192 d.C.)
sotto Augusto proseguono alcune conquiste e affluiscono a Roma sempre nuovi schiavi a basso prezzo,
Tiberio rinuncia a conquistare la Germania, poiché diventa più vantaggioso allevare schiavi,
Vespasiano e Tito distruggono Gerusalemme nel 70 d.C. e portano a Roma decine di migliaia di schiavi ebrei,
Traiano occupa la Dacia e l'Armenia: nuovo arrivo di schiavi in massa (circa 50.000). L'ultima grandiosa tratta e vendita all'incanto di schiavi si ebbe appunto con Traiano (98- 117).
Nel periodo della crisi dell'impero (192-476 d.C.), con l'anarchia militare e i saccheggi, c'è riduzione di nuove popolazioni in schiavitù, ma nel complesso il numero degli schiavi tende a diminuire, non solo perché ha termine l'espansione dell'impero, ma anche perché si cerca di trasformare la schiavitù in colonato o in servaggio, sulla base di un contratto. A Roma, su una popolazione che poteva andare da mezzo milione a 1,5 milione di abitanti, gli schiavi erano da 100.000 (II sec. a.C.) a mezzo milione (II sec. d.C.). Quando la capienza di Roma fu massima, circa 400.000 persone libere di nascita vivevano con l'assistenza della pubblica annona e solo 100.000 capifamiglia erano in grado di provvedere alle necessità della famiglia con rendite proprie. Difficile dire il numero dei liberti, degli stranieri, dei militari, della classe media. Si pensa che nella Roma imperiale almeno l'80% della popolazione provenisse da origine servile più o meno remota. L'ordine senatoriale comprendeva circa 600 famiglie, mentre quello equestre circa 5.000, quindi in tutto le persone più influenti o più ricche che disponevano del maggior numero di schiavi erano circa 20-25.000. La domus di un consolare romano del tempo di Nerone poteva ospitare anche 400 schiavi. Un imperatore poteva disporre anche di 20.000 schiavi.
Forme di riscatto
L'emancipazione dalla condizione schiavile era solita avvenire in tre forme previste dal diritto civile:
manumissio per vindictam: davanti a un magistrato il padrone metteva una mano sulla testa dello schiavo (manumissus), pronunciando una determinata formula giuridica, dopodiché un littore del magistrato toccava lo schiavo su una spalla con una verghetta (vindicta), simbolo di potere, e lo dichiarava libero;
manumissio censu: il padrone, dopo cinque anni, faceva iscrivere lo schiavo come cittadino romano nelle liste dei cittadini, dietro consenso popolare o per suo diretto intervento, e lo schiavo era automaticamente libero. L'iscrizione veniva fatta dal censor, cioè dal funzionario addetto ai ruoli delle imposte e alla registrazione del censo;
manumissio testamento: il padrone nel suo testamento dichiarava libero uno o più schiavi; l'esecuzione testamentaria poteva aver luogo anche prima che il padrone morisse e comportava la successiva iscrizione nelle liste del censo. Col tempo s'imposero forme più semplici: • manumissio inter amicos: il padrone dichiarava in presenza degli amici di voler dare la libertà allo schiavo;
manumissio per mensam: il padrone invitava lo schiavo a mangiare insieme agli ospiti; con la manumissio per convivii adhibitionem il padrone lo liberava semplicemente considerandolo un proprio commensale;
manumissio per epistulam: il padrone comunicava per lettera allo schiavo l'intenzione di liberarlo.
La situazione degli schiavi così liberati venne regolata dalla legge Iunia Norbana del 19 a.C., in base alla quale essi potevano disporre di beni propri, anche se non potevano lasciarli in testamento; sicché i loro beni tornavano all'antico padrone. Tale limitazione verrà tolta dall'imperatore Giustiniano. Dopo la manumissio il padrone (dominus) diventava patronus, cioè protettore del liberto. Il nuovo vincolo comportava l'obbligo reciproco degli alimenti, l'obbligo di prestazioni gratuite di manodopera da parte del liberto e altre cose che, in sostanza, si presentavano come anticamera dei medievali rapporti di servaggio. Lo Stato comunque temeva un'eccessiva liberazione di schiavi, perché sapeva bene ch'essi avrebbero ingrossato la massa della plebe, il cui mantenimento gravava sulla pubblica annona. Di qui la limitazione al 5% del totale posseduto, nonché il divieto di liberare schiavi sotto i 18 anni o il divieto di riscattarsi prima dei 30. D'altra parte gli stessi imperatori impedirono più volte che masse di debitori cadessero in schiavitù per insolvenza.
I Liberti
Uno schiavo affrancato era detto “liberto”. E l'età adatta a riscattarsi si aggirava sui 30 anni. Poteva infatti accadere che quando i cittadini liberi erano impegnati nelle guerre di conquista, gli schiavi dovessero svolgere in patria delle mansioni di una certa responsabilità (gestione di un'azienda, di un'attività economica, di un'abitazione padronale). In tali casi il padrone poteva concedere spontaneamente la condizione di “liberto”, oppure lo schiavo poteva riscattarsi pagando un certo prezzo e continuando a lavorare presso il padrone sulla base di un contratto. D'altra parte i senatori, non potendo fare commerci in senso proprio, avevano necessità di servirsi di liberti, che spesso praticavano l'usura e persino il commercio di schiavi. Il liberto poteva anche svolgere un'attività economica indipendente, ma il padrone esigeva sempre delle corvées sui suoi terreni o nella sua abitazione, oppure pretendeva dei doni in occasione di festività. Generalmente i liberti continuavano ad abitare presso la casa padronale, e venivano ammessi alla distribuzione gratuita di frumento, alimenti vari, denaro. I liberti non avevano gli stessi diritti dei cittadini liberi (p.es. erano esclusi dai diritti politici), ma avevano il diritto di cittadinanza. Tuttavia i loro discendenti, alla terza generazione, diventavano cittadini romani con la pienezza di tutti i diritti. Qui si può ricordare che i cittadini romani non solo potevano esercitare i diritti politici, ma potevano essere condannati a morte unicamente da un'assemblea cittadina e non da un qualunque magistrato, come accadeva invece a chi non era romano. Inoltre non potevano essere sottoposti a tortura fisica e fustigazione. I funzionari e gli amministratori imperiali dovevano essere romani: per gli appartenenti alle classi più elevate dei territori conquistati, la cittadinanza era la sola via per far parte dei gruppi dirigenti. L'ufficio politico dell'imperatore Claudio era composto esclusivamente di schiavi di fiducia, che, dopo la sua morte, furono sostituiti da liberti, molti dei quali si erano arricchiti notevolmente sin dal tempo delle guerre civili sillane. Quando, nel 40 d.C., l'imperatore Claudio propose di dare ad alcuni Galli la possibilità di diventare magistrati e senatori, vi fu in Senato chi sostenne che Roma non aveva bisogno degli stranieri per ricoprire posti di governo. Tuttavia prevalse la consuetudine di affidare anche ai figli dei liberti delle cariche pubbliche o delle magistrature. Augusto arrivò ad autorizzare i matrimoni tra liberi e liberti. Tiberio diede la cittadinanza ai liberti pompieri a condizione che si arruolassero nell'esercito. Claudio la concesse ai liberti che coi loro risparmi avessero armato le navi commerciali. Nerone a quelli che avessero impiegato capitali nell'edilizia e Traiano a quelli che avessero aperto dei forni. Si conoscono rinomati liberti: Antonia Filematio, al servizio degli Antoni nel 13 a.C., capace di fare affari in Egitto; G. Cecilio Isidoro che nell'8 a.C. possedeva enormi latifondi e 4116 schiavi; Roscio, commediante, che ricevette da Silla l'alta onorificenza dell'anello d'oro; Narciso e Pallante furono arbitri di molte carriere militari e politiche
Le punizioni
Posto che la “bontà” verso gli schiavi doveva essere considerata a un sentimento eccezionale, le pene o punizioni erano molte e all'ordine del giorno, da quella più semplice del trasferimento in una famiglia rustica a quella del lavoro forzato in miniera, alle cave, alla macine, al circo, sino alla crocifissione. Di regola bastava la fustigazione (sferza, scudiscio e il terribile flagello, frusta a nodi), ma a volte si procedeva alla rasatura della testa, fino alla tortura vera e propria: l'ustione mediante lamine di metallo incandescenti, la frattura violenta degli stinchi, la mutilazione, l'eculeo (strumento in legno che stirava il corpo sino a spezzarne le giunture). Agli schiavi fuggitivi, calunniatori o ladri si scrivevano in fronte, col marchio infuocato, rispettivamente le lettere FUG (fugitivus), KAL (kalumniator) o FUR (fur=ladro). Tuttavia chi riusciva a sottrarsi alla cattura poteva anche smettere d'essere schiavo, per una consuetudine passata nel diritto. Per gli schiavi ribelli, terroristi, sediziosi vi era la crocifissione, cioè l'inchiodamento a una trave per una lenta agonia, previa flagellazione. Ma molti di questi schiavi finivano anche in pasto alle belve feroci del circo o bruciati vivi. Moltissimi schiavi, per punizione, finivano per fare i gladiatori. La gladiatura fu introdotta nel 264 a.C. e ufficializzata nel 105 a.C.: in essa si realizzava il concetto di coraggio virile. Il primo edificio utilizzato appositamente per questi duelli fu del 53 a.C. Il più famoso è il Colosseo, che aveva 45.000 posti a sedere e 5.000 in piedi. I gladiatori venivano reclutati, di solito, tra i prigionieri di guerra, i disertori e gli incendiari, ma anche tra i cittadini liberi condannati a morte. Era comunque facile passare dall'esercito alla gladiatura, ma in questo caso lo si faceva per guadagnare dei soldi. Contrariamente a quanto si crede, i combattimenti all'ultimo sangue furono molto pochi. Augusto non ne voleva più di due all'anno; Tiberio e Claudio non ne organizzarono neanche uno; Nerone squalificò per dieci anni l'anfiteatro di Pompei. Solo nel IV sec. d.C. i giorni dedicati a queste lotte erano saliti a dieci all'anno.
Le rivolte
La prima significativa rivolta armata di schiavi si ebbe in Sicilia nel 136 a.C. Erano stati importati dalla Siria, dalla Grecia, dalla Cilicia, e mandati a lavorare nei campi e nelle miniere. I primi a insorgere furono gli schiavi di Damofilo, sotto la guida di Euno, di origine siriaca. S'impadronirono della città di Enna. Contemporaneamente insorsero anche gli schiavi di Agrigento, che, sotto la guida dello schiavo Cleone, andarono a ingrossare le schiere di Euno. In tutto i rivoltosi arrivarono a 200.000. Elessero re Euno, il cui regno rimase in carica dal 137 al 132 a.C., poi distrutto dal console romano Rupilio, con la conquista, dopo lungo assedio, delle città di Tauromenio e di Enna. Euno fu ucciso con torture in carcere. Circa 20.000 schiavi furono giustiziati. Poterono resistere ben cinque anni perché rispettavano i contadini, infierendo solo contro i latifondisti. Negli stessi anni (133-130) un'altra grande rivolta di schiavi fu capeggiata in Asia Minore da Aristonico, nella città di Pergamo. Era figlio naturale di Eumene II re di Pergamo. Alla morte del fratellastro Attalo III impugnò il testamento che faceva i Romani eredi del regno e si proclamò re con il nome di Eumene III, organizzando una rivolta degli schiavi e delle classi più povere. Ai Romani occorsero ben tre anni prima di avere la meglio. Aristonico fu inviato a Roma dove fu giustiziato. Altre insurrezioni, tutte ferocemente represse, si ebbero in Italia, nelle città di Sinuessa e di Minturno (qui furono crocifissi 450 schiavi); in Grecia nelle miniere dell'Attica e della Macedonia e nell'isola di Delo, il più grande emporio di schiavi dell'area mediterranea. In Sicilia si ebbe una seconda rivolta nel 104 a.C., nei pressi di Eraclea, con la sollevazione di 80 schiavi, che si fortificarono su una montagna, dove vennero raggiunti da altri schiavi, fino a formare un esercito di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri. Elessero re lo schiavo Salvio, che prese il nome di Trifone. A questi schiavi se ne unirono altri 10.000 raccolti da Atenione nella città di Lilibeo. Insieme fortificarono la città di Triocala. Riuscirono a resistere alle legioni dei pretori Lucullo e Servilio, ma non a quelle del console Aquilio, che nel 101 ebbe la meglio. La più grande rivolta di schiavi fu quella di Spartaco (73-71 a.C.), di cui parleremo estesamente nel capitolo “La crisi della repubblica”. Gli ultimi movimenti di rilievo dei ceti servili, furono quelli dei cosiddetti Bagaudi, in Gallia, che avvennero in più riprese (280- 290, 297-305, 337-363 e poi nel V sec.), praticamente sino al crollo della parte occidentale dell'impero. Non a caso si allearono coi barbari che premevano ai confini.
Quando scoppiò la guerra isaurica (492-97 d.C.), in Asia Minore, e la rivolta dei Mauri in Africa (372-75 d.C.), capeggiati da Firmo, ormai si era alle soglie di un'epoca in cui la schiavitù antica si stava dissolvendo e la rivolta servile diventava una vera rivolta contadina.
Storia Romana l'impero romano dalla Monarchia alla Repubblica. Università degli Studi Cà Foscari di Venezia relatore prof. Francesca Rohr. Partecipante come uditore

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