Caratteristiche della condizione schiavile
Lo
schiavo è una cosa, una res vivente, uno “strumento o animale
parlante”. Lo è dal IV millennio a.C., a partire dalle civiltà
egizie e sumera. In latino schiavo si dice servus, ma gli storici,
per distinguere il feudalesimo dallo schiavismo, usano “schiavo”
per l'economia schiavile rivolta al mercato, e “servo” per
indicare l'economia di sussistenza basata sul servaggio o servitù
della gleba. Finito il feudalesimo, la parola “servo” stava a
indicare una qualunque persona libera che prestava un servizio. Nella
civiltà romana la condizione di schiavo rientrava in quella più
generale dipendenza che il cittadino romano riservava allo straniero,
l'uomo alla donna, il padre al figlio. Si diventava schiavi
sostanzialmente per due motivi:
• sconfitta
militare: i prigionieri di guerra, caduti in proprietà dello Stato,
venivano venduti al miglior offerente;
• indebitamento:
chi non poteva pagare i propri debiti diventava proprietà del
creditore, dopo il relativo periodo di prigionia, oppure veniva
venduto sui mercati di Trastevere.
Ma
lo si poteva diventare anche a seguito di un naufragio o di una pena
che comportasse la perdita della libertà personale (p.es.
l'assassinio o la renitenza alla leva o l'evasione fiscale), a meno
che non si accettasse l'esilio. La gente povera spesso finiva schiava
anche per reati minimi, se non poteva pagare una pena pecuniaria. E
non si devono dimenticare le persone rapite dai pirati o dai briganti
per essere poi vendute, né i bambini che venivano abbandonati
(perché non riconosciuti dal padre), oppure venduti dalle famiglie
povere. Poteva anche darsi il caso di esiliati politici che
emigravano a Roma per porsi in servitù, o di quelle tribù nordiche
che facevano la stessa cosa, spinte dalla fame o dalla carestia. Da
ultimo non si può non considerare che un commercio estero,
internazionale, di schiavi esisteva anche prima che i Romani
diventassero una grande potenza (p.es. nel mondo greco e
mesopotamico). Nessuna filosofia egualitaria dell'antichità
schiavistica riuscì mai a scalfire questa diffusa cultura dello
sfruttamento del lavoro altrui.
La
compravendita
Gli
schiavi venivano venduti nelle botteghe, sui mercati o nel Foro,
sotto la sorveglianza di appositi magistrati, a tutela dei rilevanti
profitti statali. Generalmente stavano su un palco girevole, con al
collo un cartello che indicava la nazionalità, le attitudini, le
qualità, i difetti. Quelli provenienti d'oltremare erano
riconoscibili per un piede tinto di bianco, e i soldati vinti per una
coroncina in testa. Schiavi scelti e costosi venivano mostrati in
sale chiuse a ingresso controllato. I prezzi variavano a seconda
dell'età e delle qualità (intelligenza, cultura, forza fisica ma
anche bellezza, buona dentatura, capacità di suonare o cantare,
parlare greco) e si aggiravano sui 1.200- 2.500 sesterzi (a fine
repubblica un sesterzio equivaleva ad almeno due euro). Anche ai
Romani di mezzi modesti piaceva avere uno schiavo al proprio
servizio, perché non averne neppure uno era indizio di degradante
miseria. Molti ricchi romani possedevano da 10.000 a 20.000 schiavi.
I Romani più ricchi potevano anche acquistarli per rivenderli o
cederli a grosse imprese in cambio di un affitto. Sotto questo
aspetto alcuni arrivarono persino ad “allevarli” Le mansioni Una
volta fatto schiavo, i luoghi prevalenti di destinazione dove
esercitare il mestiere erano in aree abbastanza separate: campagna,
città, mare (i rematori nelle navi militari o mercantili), cave e
miniere (soprattutto per l'estrazione dei metalli pregiati). La
schiavitù rurale era quella che comprendeva i braccianti, i
contadini, gli allevatori. Questi schiavi godevano di condizioni di
vita infime. Il loro lavoro era molto faticoso e poco qualificato. Il
trasferimento dalla famiglia urbana a quella rustica veniva
considerato come una punizione. A capo degli schiavi di campagna era
il fattore, assistito dalla moglie. In città invece venivano
impiegati per attività artigianali (vasai, decoratori, carpentieri,
muratori, lavoratori del cuoio), o industriali (per fabbricare
tessuti). Questi schiavi godevano di condizioni di vita migliori e il
loro lavoro era più qualificato. Ma vi erano anche quelli dediti
alla costruzione di strade e alle opere pubbliche, o quelli che
dovevano far girare la ruota del mulino: questi sicuramente
svolgevano lavori molto più duri. Le categorie privilegiate di
schiavi erano quelle destinate al servizio domestico (cuochi,
camerieri, gli addetti alla toeletta dei padroni, alla cura e
all'educazione dei loro figli, alla pulizia della casa e delle
suppellettili, degli indumenti..., ma anche gli amanuensi e i
postini). Più in alto vi erano quelli che aiutavano il padrone nelle
attività commerciali e amministrative (tesoriere, contabile, addetto
alla tenuta dei libri), oppure gli schiavi intellettuali, quali
pedagoghi, medici e chirurghi, bibliotecari. Vi erano anche gli
addetti a scuderie e cavalli. Gli schiavisti non svolgevano alcuna
attività manuale, e riducevano al minimo tutte quelle che potevano
essere svolte da una manodopera schiavile. In genere gli schiavi
provenienti dall'oriente ellenistico erano adibiti a funzioni
domestiche (anche come maestri dei figli dell'aristocrazia) o
artigianali o intellettuali cittadine, perché meno robusti e più
acculturati dei loro colleghi italici, germanici e iberici.
I
diritti
Lo
schiavo, per definizione, non aveva alcun diritto, ma solo
responsabilità penali. Non poteva possedere cose personali, cioè se
poteva comprare qualcosa non poteva però disporne come fosse di sua
proprietà. Se aveva moglie e figli, il suo padrone poteva venderli
senza nessun problema. Lo schiavo restava tale anche se per un evento
qualunque cessava di avere un padrone. Lo schiavo, di regola, non
poteva sposarsi (Catone il Vecchio fu l'unico a permettere, tra i
suoi servi, rapporti sessuali a pagamento intascandone il prezzo),
non poteva essere difeso dalla legge o ascoltato in un tribunale.
Tuttavia, nel corso dell'impero i padroni di schiavi tenderanno a
permettere a quest'ultimi la possibilità di una stabile vita di
coppia. È altresì noto che i padroni avevano maggiori riguardi per
gli schiavi nati in casa. Gli schiavi che ritenevano ingiusto il
padrone potevano rifugiarsi in Campidoglio ed esporre le proprie
ragioni, ma non si ha notizia di padroni puniti. Allo schiavo veniva
concesso asilo se si rifugiava presso un tempio, ma al massimo poteva
passare di proprietà da un padrone a un altro. Se un cittadino
uccideva uno schiavo altrui, non incorreva a una sanzione penale ma
solo amministrativa, cioè pagava una sanzione monetaria
corrispondente al valore dello schiavo. Per sua natura lo schiavo non
aveva alcun diritto: p.es. la legge Giulia aveva stabilito che non
poteva esservi adulterio o stupro se non tra persone libere (molti
giovani schiavi venivano usati a scopi sessuali, anche se la legge
Scantinia, del 149 a.C., colpiva i rapporti omosessuali con persone
di condizione libera). Al massimo la legge Petronia proibiva al
padrone di dare lo schiavo in pasto alle belve senza una sentenza del
giudice. Il diritto romano non riconosceva agli schiavi neppure un
culto religioso proprio, anche se consentiva loro di esercitare
alcuni riti secondo i costumi originari. Gli schiavi di città erano
sicuramente più liberi di quelli di campagna: potevano frequentare
le osterie, i bagni pubblici, il circo... A volte capitava che per
esigenze particolari (guerre, ordine pubblico) si accettassero
arruolamenti negli eserciti da parte di schiavi e barbari: in tal
caso lo schiavo otteneva subito la libertà e il diritto a sposare le
vedove dei caduti di guerra. Solo dopo Adriano lo schiavo, coi suoi
piccoli risparmi, con le mance, ha diritto di farsi un gruzzolo di
denaro con cui affrancarsi, ma soltanto nella tarda età imperiale la
legge ordinerà ai padroni di concedere l'affrancamento, dopo aver
soddisfatto i loro diritti di proprietario. Gli schiavi, veri e
propri “strumenti di produzione”, quando la vecchiaia, gli
stenti, le malattie li rendevano improduttivi, venivano abbandonati a
se stessi, dato che difficilmente il padrone trovava un compratore.
Tuttavia un editto dell'imperatore Claudio toglieva il diritto di
proprietà al padrone che aveva abbandonato uno schiavo vecchio e
malato (nel 52 d.C. vi era un obbligo condizionale di prestare cure
mediche allo schiavo malato). L'imperatore Antonino Pio minacciò
pene al padrone che uccideva uno schiavo senza motivo. Vi era poi
sempre la possibilità che uno schiavo fosse in grado di riscattarsi
diventando liberto: in tal caso la legge Aemilia (115 a.C.) gli
concedeva il voto (con limitazioni).
Evoluzione
Nei
primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti
nel sistema patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto
dallo stesso pater familias, aiutato sia dai figli che dagli schiavi.
Gli schiavi erano considerati persone di famiglia, anche se
ovviamente senza alcun diritto. All'inizio del II sec. a.C. raramente
le famiglie romane possedevano più di uno schiavo, ma verso la fine
dello stesso secolo, soprattutto dopo la fine delle guerre puniche,
il numero della popolazione servile era talmente aumentato da
alterare i rapporti tra schiavo e padrone. Il mercato degli schiavi
era ormai divenuto una delle attività commerciali più produttive
del Mediterraneo (questo perché i ricchi proprietari terrieri
avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera). Il più
grande mercato venne organizzato nell'isola di Delo, dove nei tempi
più proficui si potevano vendere, mediamente, 10.000 schiavi al
giorno. L'estendersi dell'economia schiavistica ebbe conseguenze
negative per la popolazione italica, non solo perché frenava lo
sviluppo tecnologico, ma anche perché tendeva ad aumentare la
disoccupazione. Al tempo dell'imperatore Domiziano poteva sembrare
più accettabile la posizione di uno schiavo al servizio di un ricco
che non quella di un cittadino libero privo di proprietà. Nel II
sec. d.C. famiglie con un unico schiavo non esistevano più: o non ne
compravano affatto perché costava troppo mantenerli, oppure ne
possedevano molti di più. Due era il numero minimo, ma la media era
otto. Il livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità,
la quantità e la qualità dei servizi privati, in casa e fuori,
erano in proporzione alla quantità e qualità di schiavi posseduti.
Il prestigio di un avvocato, p.es., era determinato, presso il suo
cliente, dalla scorta di schiavi con cui si presentava in tribunale.
Plinio il Giovane (età di Traiano), che si dichiarava uomo di
modesta ricchezza, ne possedeva almeno 500, e di questi volle
affrancarne almeno 100 nel suo testamento. Il massimo dei riscatti
consentiti dalla legge Fufia Caninia, del 2 a.C., era di 1/5 del
totale degli schiavi posseduti. Nell'età imperiale Adriano tolse al
padrone dello schiavo il diritto di vita e di morte, e Antonino Pio e
Costantino considerarono equivalente a un omicidio l'assassinio del
servo, e punivano chi uccideva un figlio con le stesse pene per chi
uccideva il padre.
Con
altre disposizioni si permise allo schiavo di mettere da parte, coi
suoi risparmi, una somma che gli servisse per qualche spesa
voluttuaria o gli permettesse di riscattarsi, quando non era lo
stesso padrone, spontaneamente, a liberarlo.
Provenienza
geografica
Durante
il periodo della conquista romana dei paesi del Mediterraneo (264-31
a.C.) furono ridotti in schiavitù a Roma e in Italia:
• 30.000
abitanti di Taranto nel 209
• un
gran numero di Sardi nel 176
• 150.000
abitanti dell'Epiro nel 167
• 50.000
Cartaginesi nel 146
• 50.000
Corinzi nel 146
• intere
popolazioni della Spagna tra il 150 e il 100
• 150.000
Cimbri e Teutoni verso il 102-101
• centinaia
di migliaia di asiatici dalle guerre di Pompeo nel 66-62: Ponto,
Siria, Palestina
• un
milione di Galli dalle guerre di Cesare nel 58-50 Durante il periodo
della pax romana (31 a.C.-192 d.C.)
• sotto
Augusto proseguono alcune conquiste e affluiscono a Roma sempre nuovi
schiavi a basso prezzo,
• Tiberio
rinuncia a conquistare la Germania, poiché diventa più vantaggioso
allevare schiavi,
• Vespasiano
e Tito distruggono Gerusalemme nel 70 d.C. e portano a Roma decine di
migliaia di schiavi ebrei,
• Traiano
occupa la Dacia e l'Armenia: nuovo arrivo di schiavi in massa (circa
50.000). L'ultima grandiosa tratta e vendita all'incanto di schiavi
si ebbe appunto con Traiano (98- 117).
Nel
periodo della crisi dell'impero (192-476 d.C.), con l'anarchia
militare e i saccheggi, c'è riduzione di nuove popolazioni in
schiavitù, ma nel complesso il numero degli schiavi tende a
diminuire, non solo perché ha termine l'espansione dell'impero, ma
anche perché si cerca di trasformare la schiavitù in colonato o in
servaggio, sulla base di un contratto. A Roma, su una popolazione che
poteva andare da mezzo milione a 1,5 milione di abitanti, gli schiavi
erano da 100.000 (II sec. a.C.) a mezzo milione (II sec. d.C.).
Quando la capienza di Roma fu massima, circa 400.000 persone libere
di nascita vivevano con l'assistenza della pubblica annona e solo
100.000 capifamiglia erano in grado di provvedere alle necessità
della famiglia con rendite proprie. Difficile dire il numero dei
liberti, degli stranieri, dei militari, della classe media. Si pensa
che nella Roma imperiale almeno l'80% della popolazione provenisse da
origine servile più o meno remota. L'ordine senatoriale comprendeva
circa 600 famiglie, mentre quello equestre circa 5.000, quindi in
tutto le persone più influenti o più ricche che disponevano del
maggior numero di schiavi erano circa 20-25.000. La domus di un
consolare romano del tempo di Nerone poteva ospitare anche 400
schiavi. Un imperatore poteva disporre anche di 20.000 schiavi.
Forme
di riscatto
L'emancipazione
dalla condizione schiavile era solita avvenire in tre forme previste
dal diritto civile:
• manumissio
per vindictam: davanti a un magistrato il padrone metteva una mano
sulla testa dello schiavo (manumissus), pronunciando una determinata
formula giuridica, dopodiché un littore del magistrato toccava lo
schiavo su una spalla con una verghetta (vindicta), simbolo di
potere, e lo dichiarava libero;
• manumissio
censu: il padrone, dopo cinque anni, faceva iscrivere lo schiavo come
cittadino romano nelle liste dei cittadini, dietro consenso popolare
o per suo diretto intervento, e lo schiavo era automaticamente
libero. L'iscrizione veniva fatta dal censor, cioè dal funzionario
addetto ai ruoli delle imposte e alla registrazione del censo;
• manumissio
testamento: il padrone nel suo testamento dichiarava libero uno o più
schiavi; l'esecuzione testamentaria poteva aver luogo anche prima che
il padrone morisse e comportava la successiva iscrizione nelle liste
del censo. Col tempo s'imposero forme più semplici: • manumissio
inter amicos: il padrone dichiarava in presenza degli amici di voler
dare la libertà allo schiavo;
• manumissio
per mensam: il padrone invitava lo schiavo a mangiare insieme agli
ospiti; con la manumissio per convivii adhibitionem il padrone lo
liberava semplicemente considerandolo un proprio commensale;
• manumissio
per epistulam: il padrone comunicava per lettera allo schiavo
l'intenzione di liberarlo.
La
situazione degli schiavi così liberati venne regolata dalla legge
Iunia Norbana del 19 a.C., in base alla quale essi potevano disporre
di beni propri, anche se non potevano lasciarli in testamento; sicché
i loro beni tornavano all'antico padrone. Tale limitazione verrà
tolta dall'imperatore Giustiniano. Dopo la manumissio il padrone
(dominus) diventava patronus, cioè protettore del liberto. Il nuovo
vincolo comportava l'obbligo reciproco degli alimenti, l'obbligo di
prestazioni gratuite di manodopera da parte del liberto e altre cose
che, in sostanza, si presentavano come anticamera dei medievali
rapporti di servaggio. Lo Stato comunque temeva un'eccessiva
liberazione di schiavi, perché sapeva bene ch'essi avrebbero
ingrossato la massa della plebe, il cui mantenimento gravava sulla
pubblica annona. Di qui la limitazione al 5% del totale posseduto,
nonché il divieto di liberare schiavi sotto i 18 anni o il divieto
di riscattarsi prima dei 30. D'altra parte gli stessi imperatori
impedirono più volte che masse di debitori cadessero in schiavitù
per insolvenza.
I
Liberti
Uno
schiavo affrancato era detto “liberto”. E l'età adatta a
riscattarsi si aggirava sui 30 anni. Poteva infatti accadere che
quando i cittadini liberi erano impegnati nelle guerre di conquista,
gli schiavi dovessero svolgere in patria delle mansioni di una certa
responsabilità (gestione di un'azienda, di un'attività economica,
di un'abitazione padronale). In tali casi il padrone poteva concedere
spontaneamente la condizione di “liberto”, oppure lo schiavo
poteva riscattarsi pagando un certo prezzo e continuando a lavorare
presso il padrone sulla base di un contratto. D'altra parte i
senatori, non potendo fare commerci in senso proprio, avevano
necessità di servirsi di liberti, che spesso praticavano l'usura e
persino il commercio di schiavi. Il liberto poteva anche svolgere
un'attività economica indipendente, ma il padrone esigeva sempre
delle corvées sui suoi terreni o nella sua abitazione, oppure
pretendeva dei doni in occasione di festività. Generalmente i
liberti continuavano ad abitare presso la casa padronale, e venivano
ammessi alla distribuzione gratuita di frumento, alimenti vari,
denaro. I liberti non avevano gli stessi diritti dei cittadini liberi
(p.es. erano esclusi dai diritti politici), ma avevano il diritto di
cittadinanza. Tuttavia i loro discendenti, alla terza generazione,
diventavano cittadini romani con la pienezza di tutti i diritti. Qui
si può ricordare che i cittadini romani non solo potevano esercitare
i diritti politici, ma potevano essere condannati a morte unicamente
da un'assemblea cittadina e non da un qualunque magistrato, come
accadeva invece a chi non era romano. Inoltre non potevano essere
sottoposti a tortura fisica e fustigazione. I funzionari e gli
amministratori imperiali dovevano essere romani: per gli appartenenti
alle classi più elevate dei territori conquistati, la cittadinanza
era la sola via per far parte dei gruppi dirigenti. L'ufficio
politico dell'imperatore Claudio era composto esclusivamente di
schiavi di fiducia, che, dopo la sua morte, furono sostituiti da
liberti, molti dei quali si erano arricchiti notevolmente sin dal
tempo delle guerre civili sillane. Quando, nel 40 d.C., l'imperatore
Claudio propose di dare ad alcuni Galli la possibilità di diventare
magistrati e senatori, vi fu in Senato chi sostenne che Roma non
aveva bisogno degli stranieri per ricoprire posti di governo.
Tuttavia prevalse la consuetudine di affidare anche ai figli dei
liberti delle cariche pubbliche o delle magistrature. Augusto arrivò
ad autorizzare i matrimoni tra liberi e liberti. Tiberio diede la
cittadinanza ai liberti pompieri a condizione che si arruolassero
nell'esercito. Claudio la concesse ai liberti che coi loro risparmi
avessero armato le navi commerciali. Nerone a quelli che avessero
impiegato capitali nell'edilizia e Traiano a quelli che avessero
aperto dei forni. Si conoscono rinomati liberti: Antonia Filematio,
al servizio degli Antoni nel 13 a.C., capace di fare affari in
Egitto; G. Cecilio Isidoro che nell'8 a.C. possedeva enormi latifondi
e 4116 schiavi; Roscio, commediante, che ricevette da Silla l'alta
onorificenza dell'anello d'oro; Narciso e Pallante furono arbitri di
molte carriere militari e politiche
Le
punizioni
Posto
che la “bontà” verso gli schiavi doveva essere considerata a un
sentimento eccezionale, le pene o punizioni erano molte e all'ordine
del giorno, da quella più semplice del trasferimento in una famiglia
rustica a quella del lavoro forzato in miniera, alle cave, alla
macine, al circo, sino alla crocifissione. Di regola bastava la
fustigazione (sferza, scudiscio e il terribile flagello, frusta a
nodi), ma a volte si procedeva alla rasatura della testa, fino alla
tortura vera e propria: l'ustione mediante lamine di metallo
incandescenti, la frattura violenta degli stinchi, la mutilazione,
l'eculeo (strumento in legno che stirava il corpo sino a spezzarne le
giunture). Agli schiavi fuggitivi, calunniatori o ladri si scrivevano
in fronte, col marchio infuocato, rispettivamente le lettere FUG
(fugitivus), KAL (kalumniator) o FUR (fur=ladro). Tuttavia chi
riusciva a sottrarsi alla cattura poteva anche smettere d'essere
schiavo, per una consuetudine passata nel diritto. Per gli schiavi
ribelli, terroristi, sediziosi vi era la crocifissione, cioè
l'inchiodamento a una trave per una lenta agonia, previa
flagellazione. Ma molti di questi schiavi finivano anche in pasto
alle belve feroci del circo o bruciati vivi. Moltissimi schiavi, per
punizione, finivano per fare i gladiatori. La gladiatura fu
introdotta nel 264 a.C. e ufficializzata nel 105 a.C.: in essa si
realizzava il concetto di coraggio virile. Il primo edificio
utilizzato appositamente per questi duelli fu del 53 a.C. Il più
famoso è il Colosseo, che aveva 45.000 posti a sedere e 5.000 in
piedi. I gladiatori venivano reclutati, di solito, tra i prigionieri
di guerra, i disertori e gli incendiari, ma anche tra i cittadini
liberi condannati a morte. Era comunque facile passare dall'esercito
alla gladiatura, ma in questo caso lo si faceva per guadagnare dei
soldi. Contrariamente a quanto si crede, i combattimenti all'ultimo
sangue furono molto pochi. Augusto non ne voleva più di due
all'anno; Tiberio e Claudio non ne organizzarono neanche uno; Nerone
squalificò per dieci anni l'anfiteatro di Pompei. Solo nel IV sec.
d.C. i giorni dedicati a queste lotte erano saliti a dieci all'anno.
Le
rivolte
La
prima significativa rivolta armata di schiavi si ebbe in Sicilia nel
136 a.C. Erano stati importati dalla Siria, dalla Grecia, dalla
Cilicia, e mandati a lavorare nei campi e nelle miniere. I primi a
insorgere furono gli schiavi di Damofilo, sotto la guida di Euno, di
origine siriaca. S'impadronirono della città di Enna.
Contemporaneamente insorsero anche gli schiavi di Agrigento, che,
sotto la guida dello schiavo Cleone, andarono a ingrossare le schiere
di Euno. In tutto i rivoltosi arrivarono a 200.000. Elessero re Euno,
il cui regno rimase in carica dal 137 al 132 a.C., poi distrutto dal
console romano Rupilio, con la conquista, dopo lungo assedio, delle
città di Tauromenio e di Enna. Euno fu ucciso con torture in
carcere. Circa 20.000 schiavi furono giustiziati. Poterono resistere
ben cinque anni perché rispettavano i contadini, infierendo solo
contro i latifondisti. Negli stessi anni (133-130) un'altra grande
rivolta di schiavi fu capeggiata in Asia Minore da Aristonico, nella
città di Pergamo. Era figlio naturale di Eumene II re di Pergamo.
Alla morte del fratellastro Attalo III impugnò il testamento che
faceva i Romani eredi del regno e si proclamò re con il nome di
Eumene III, organizzando una rivolta degli schiavi e delle classi più
povere. Ai Romani occorsero ben tre anni prima di avere la meglio.
Aristonico fu inviato a Roma dove fu giustiziato. Altre insurrezioni,
tutte ferocemente represse, si ebbero in Italia, nelle città di
Sinuessa e di Minturno (qui furono crocifissi 450 schiavi); in Grecia
nelle miniere dell'Attica e della Macedonia e nell'isola di Delo, il
più grande emporio di schiavi dell'area mediterranea. In Sicilia si
ebbe una seconda rivolta nel 104 a.C., nei pressi di Eraclea, con la
sollevazione di 80 schiavi, che si fortificarono su una montagna,
dove vennero raggiunti da altri schiavi, fino a formare un esercito
di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri. Elessero re lo schiavo Salvio, che
prese il nome di Trifone. A questi schiavi se ne unirono altri 10.000
raccolti da Atenione nella città di Lilibeo. Insieme fortificarono
la città di Triocala. Riuscirono a resistere alle legioni dei
pretori Lucullo e Servilio, ma non a quelle del console Aquilio, che
nel 101 ebbe la meglio. La più grande rivolta di schiavi fu quella
di Spartaco (73-71 a.C.), di cui parleremo estesamente nel capitolo
“La crisi della repubblica”. Gli ultimi movimenti di rilievo dei
ceti servili, furono quelli dei cosiddetti Bagaudi, in Gallia, che
avvennero in più riprese (280- 290, 297-305, 337-363 e poi nel V
sec.), praticamente sino al crollo della parte occidentale
dell'impero. Non a caso si allearono coi barbari che premevano ai
confini.
Quando
scoppiò la guerra isaurica (492-97 d.C.), in Asia Minore, e la
rivolta dei Mauri in Africa (372-75 d.C.), capeggiati da Firmo, ormai
si era alle soglie di un'epoca in cui la schiavitù antica si stava
dissolvendo e la rivolta servile diventava una vera rivolta
contadina.
Storia
Romana l'impero romano dalla Monarchia alla Repubblica. Università
degli Studi Cà Foscari di Venezia relatore prof. Francesca Rohr.
Partecipante come uditore
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