Lettera di un soldato alla madre
Ho
voluto raccontare, sotto forma di lettera destinata alla madre, la
storia di un soldato qualunque al fronte. La battaglia che si sta
svolgendo è quella di Caporetto, combattuta durante la Prima Guerra
Mondiale. Credo che questa esperienza mi abbia invitato a riflettere,
ma anche a provare emozioni fortissime, che ora galoppano dentro di
me. L’amore verso i familiari, l’uguaglianza, la libertà, il
ripudio della guerra, la paura, il contrasto tra vita e morte, …
non sono sentimenti che si provano o si dimostrano quotidianamente,
specialmente ai giorni nostri, in questo mondo che sfreccia a gran
velocità in motocicletta, mentre a me sembra di rincorrerlo ancora a
piedi nudi.
Caporetto,
3 novembre 1917
Carissima
madre, come state?
Qui
la situazione è terribile, non si può vivere e ogni giorno le bombe
sono boati che sgretolano un’intera parte del mondo. La guerra è
spietata sotto ogni aspetto: molti miei compagni rimpiangono giorno e
notte di essersi allontanati dalle proprie famiglie per abbandonarsi
alla presunta morte. Io però non mi arrendo, spero ancora di farcela
e di uscire vivo da questo inferno.
Voi
non potete nemmeno immaginare quanto io soffra ogni ora per quello
che vedo e sento.
Ogni
mattina mi alzo prestissimo al suono delle fucilate, tra i defunti
della trincea e le persone morenti che esalano gli ultimi respiri
pregando il buon Dio nell’attesa di trovare la pace. Quando arriva
il mio turno provo un dolore e una tristezza infinita, quasi come un
fuoco che brucia ogni speranza. Quasi per miracolo, riesco a
resistere per qualche tempo. Questi casi sono i più disperati: devi
uccidere senza guardare in faccia alcuno, non importa chi ti troverai
davanti perché dovrai ugualmente sparare, e farlo quasi con fierezza
o passione; dovrai continuare, senza poterti opporre agli ordini,
anche se avrai la polvere negli occhi e le lacrime nel cuore. E in
quei momenti sai che stai commettendo del male, ma non puoi fermarti,
anche se sei consapevole che chi sta al di là di quel confine è
giovane come te e non è colpa sua se indossa una divisa di un altro
colore o alza una bandiera diversa dalla tua.
C’è
invece chi muore di fame e di stenti, anche perché il cibo è scarso
e quel poco che possiamo mettere sotto i denti è rancido. I più
deboli muoiono per colpa del freddo che ci tormenta dalla sera al
mattino. Le coperte, infatti, sono poche e chi riesce a procurarsele
è così avido da non volerle condividere con nessuno.
Alla
fine di una settimana abbiamo conquistato o perso solo pochi metri,
che ai miei occhi sembrano solo allagati dal caldo sangue innocente
di chi ha lottato fino alla fine.
Sono
stufo, mia carissima e preziosissima madre, di tutto quello che sta
succedendo; qui si sta verificando l’impossibile: morti a destra,
morti a sinistra, morti dietro ai miei lenti passi scoraggiati.
Ognuno di noi sa che non può in alcun modo tornare indietro e
recuperare ciò che è ormai perduto per sempre: la vita di un
amico, di un fratello lontano che ora non può più abbracciare.
Basta,
basta, basta! Non ne posso più, ho il cuore freddo come una pietra e
le lacrime calde che parlano da sole: ho ucciso. Non credevo che
sarei mai stato capace di spezzare la vita di un uomo così
velocemente, senza permettere di dare ad entrambi un senso all’orrore
della guerra.
Chi
non prova a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e detta solo
leggi dalla propria scrivania, dicendo di combattere sempre e
comunque, non sa che cosa noi abbiamo visto, udito, provato, e non
potrà mai, dico mai, rendersene conto.
Solamente
ora, ahimè, capisco che a noi qui non è rimasto più niente, solo i
boati nelle orecchie, il freddo sulle gambe, il respiro
dell’ingiustizia nella mente e il peso di vite umane che grava sul
cuore, e guardando come incantato il mondo intorno a me, per la prima
volta nella mia vita, ho paura.
Un
saluto e un abbraccio,
Alessandro
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