Nelle trincee insanguinate del carso, parte I
Era
l'11 ottobre 1915 ed io mi trovavo, assieme ai miei commilitoni, in
prima linea nella zona di Bosco Cappuccio. Ricordo che quel giorno
cadeva di domenica. Verso le ore 16, dopo aver consumato il rancio,
arrivò nella nostra trincea il comandante del plotone il quale,
indicandoci un albero che si trovava nelle vicinanze, disse:
"Ragazzi, chi di voi vuole salire su quel pino? Vedete? A causa
dello spostamento d'aria provocato dallo sparo di una bombarda, tra i
suoi rami s'è impigliata una nostra mantellina militare. Bisogna
subito toglierla di là perchè serve come bersaglio e punto di
riferimento al nemico". Alla richiesta dell'ufficiale nessuno di
noi soldati rispose e tutti rimanemmo immobili, consci del forte
rischio che avrebbe corso chi avesse accettato. Il comandante del
plotone allora propose: "Facciamo le bruschette (cioè il
sorteggio) e a chi tocca tocca". Così fu deciso e ognuno di noi
cominciò a tirar fuori dal pugno dell'ufficiale uno dei fuscelli di
varia lunghezza che egli stringeva, ma quando toccò al soldato
Antonio Pianura da S. Andrea Barbarano di S. Biagio di Callalta,
questi disse: "Ci vado io, signor tenente!". L'offerta
naturalmente fu subito accettata e così questo mio coraggioso
commilitone fu sollevato oltre il bordo della trincea ed ebbe inizio
la sua pericolosa impresa. Egli raggiunse velocemente l'albero e
cominciò, lesto come un gatto, ad arrampicarsi sul tronco della
pianta, finchè arrivò vicino ai rami che trattenevano la
mantellina. Allungata la mano, diede un forte strattone alla
mantellina e riuscì a liberarla. Velocissimo discese allora
dall'albero e raggiunse la trincea, portando con sè l'indumento
recuperato.
Fortunatamente
il nemico non aveva sparato nemmeno un colpo durante lo svolgersi di
quella temeraria azione, forse perchè non se n'era nemmeno accorto,
tanta era stata la rapidità d'esecuzione.
Poteva
ben rallegrarsi il mio caro compagno d'armi, Antonio Pianura, d'esser
riuscito a portare a termine, senza rimetterci la pelle, l'ingrato
compito che si era voluto assumere. E poteva essere ben fiero del suo
coraggio, che gli avrebbe sicuramente fatto meritare un encomio
solenne.
Ma il destino, che quel giorno era sembrato così
favorevole nei suoi confronti, era già segnato per lui.
Verso
le 23 infatti, quando tutti noi eravamo immersi nel sonno, una bomba
barattolo penetrò nella nostra trincea ed esplose con grande
fragore, ferendo, in qualche caso anche piuttosto seriamente, undici
uomini.
Fra i colpiti vi fu pure il commilitone Antonio Pianura,
che venne colpito gravemente alla gamba e precisamente alla caviglia.
Fu una notte terribile! Dalle labbra dei feriti e in particolare da
quelle del povero Antonio, che era il più grave, uscivano grida di
dolore e implorazioni di soccorso. "Aiuto! Mamma mia, muoio!".
Questa invocazione fu ripetuta a lungo dal mio sfortunato compagno,
finchè non giunse all'infermeria di Sdraussina.
Da lprima egli fu
poi trasportato a Romans d'Isonzo dove purtroppo quattro giorni dopo,
il 15 ottobre 1915, morì in conseguenza delle ferite riportate,
probabilmente per tetano.
C'era
chiaro di luna la notte in cui era esplosa quella bomba e perciò gli
austro-ungarici avrebbero potuto colpirci benissimo durante il
trasporto dei feriti all'infermeria, ma fortunatamente, sentendo quel
grido disperato del mio povero compagno d'armi, provarono un po' di
compassione e non spararono nemmeno un colpo di fucile dalle loro
trincee.
Anch'io quella notte fui ferito dallo scoppio della bomba
e venni inviato all'ospedale di Brescia. Successivamente fui
trasferito a quello di Ivrea.
Appena guarito, ripartii per il
fronte, ritornando nelle aspre trincee carsiche.
Eravamo partiti
mesi del 1916 e venni assegnato al 47mo Fanteria, 10a Compagnia
(Brigata Ferrara), facente parte dell'11mo Corpo d'Armata, 22a
Divisione, 3a Armata (comandata dal Duca d'Aosta) e operante nella
zona di San Martino e San Michele del Carso.
Tornai
così ad affrontare la dura vita di trincea dove, oltre ad essere
esposti continuamente al pericolo di essere colpiti dal nemico, si
era alle prese quotidianamente con ogni sorta di difficoltà e si
dovevano sopportare innumerevoli disagi.
Costretti
a vivere per lunghi periodi in angusti cunicoli scavati nel terreno,
a stretto contatto di gomito l'uno contro l'altro, è logico che le
nostre condizioni igieniche lasciassero a desiderare.
Mi
ricordo, ad esempio, che la maggior parte di noi soldati era
"perseguitata" dai pidocchi. Io, per liberarmene, almeno in
parte, avevo trovato un sistema abbastanza efficace: tutti quelli che
riuscivo a catturare, li mettevo infatti sopra qualche masso roccioso
ben soleggiato. Sotto il calore del sole (eravamo già ormai ad
aprile inoltrato), quei fastidiosi insetti, abituati a vivere
all'ombra, morivano inesorabilmente.
Verso la metà di aprile,
mentre mi trovavo in seconda linea nella zona di Monte Cappuccio, in
una splendida giornata di sole vidi alzarsi da dietro la collina di
Medea, dov'era situata la piattaforma di vedetta, il nostro "Draken
Ballon" che, come di consueto, si apprestava a compiere
l'osservazione delle linee nemiche. Era passato pochissimo tempo da
quando il pallone aerostatico si era levato da terra, quando lo vidi
improvvisamente scoppiare.
Le
persone che si trovavano a bordo, tra le quali - mi fu detto - c'era
anche un ufficiale nipote del generale Cadorna, perirono tutte.
Dalle
informazioni che in seguito riuscii ad avere, non risulta però che
l'aerostato fosse stato colpito dal nemico e quindi doveva essere
scoppiato per causa interne, probabilmente per un difetto di
costruzione o di funzionamento.
Università
degli studi Cà Foscari Venezia - Facoltà di Storia - docente prof.
Acciarino Damiano - partecipante in qualità di uditore
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