La ricchezza di donare. Cosa significa offrire la vita
Cosa
ci faccio con quello che ho? Mi lamento perché è poco, non mi
piace, non è giusto, non è bello? Oppure provo a prendere tutto e
farne dono così com’è, così come sono?
È
molto difficile riuscire a parlare di generosità. C’è qualcosa
che stride dentro, che fa male. Se ne parlo davvero, se ne parlo con
tutto il corpo e il pensiero e la capacità che ho. Generosità,
altruismo, compassione, amore. Se lascio che la mia mente se ne
imbeva, se lascio che la mente viva davvero quelle parole, che si
allarghi il cuore tanto da sentire che quasi esplode, tanto quasi da
sentire che la cassa toracica non basta a contenerlo, è difficile
parlare di quelle parole. Perché posso nettamente percepire tutti i
rischi della retorica, della superficialità, degli inganni che mi
abitano.
Guardo
i vestiti, le case, le strade, le macchine, gli agi che nutrono i
nostri pensieri, e leggo nella tessitura della maglietta che indosso
– poliammide 84%, elastan 16% – mappe di storie, gli incroci di
politiche nazionali, sovranazionali, il fumo delle fabbriche, le
persone che lo respirano, il commercio, l’energia che brucia
petrolio e libera veleni, masse di gente che lavora, si sposta,
compra, contratta, crea… Ma perché qui è pieno di negozi e
altrove no? Altrove, dove non ci sono strade, dove l’unico pensiero
è come trovare qualcosa da mangiare, dove la vita di un bambino per
un giorno costerebbe molto meno di quanto costa qui la manica di una
maglietta. Di che generosità si può parlare? Di che umanità, di
quale amore?
La
televisione accesa parla (poco) dei rischi che corre il pianeta:
Johannesburg, 2002. Dicono che tra qualche decennio non ci sarà più
acqua per dissetare gran parte della popolazione mondiale. Ho finito
di mangiare e sto lavando i piatti, come milioni di persone. L’acqua
leva via il detersivo dai piatti, profumato, sgrassante,
igienizzante. L’acqua scorre dal rubinetto e sciacqua i miei
piatti. Scorre da milioni di rubinetti a sciacquare miliardi di
piatti. Ed è acqua potabile. E non ricordo più di quanti milioni di
persone parlavano alla televisione, quanti milioni di persone è
previsto che muoiano per mancanza di acqua nei prossimi decenni. La
mente non ha catturato nulla, quell’informazione è scivolata via
come il detersivo dai piatti, come l’acqua potabile è andata a
riempire le fogne. Chiudo il rubinetto nauseata. Ma so che è un
gesto insignificante. Che domani sarò di nuovo qui a lavare i miei
piatti con acqua potabile, so che non mi posso più di tanto
sottrarre. Che fa male, ma è così, e posso fare poco. Posso
ricordarlo e ricordarmene, fare in modo che il male di cui siamo
“innocentemente” complici non venga rimosso. Posso far sì che
tante domande, anche se non hanno immediata risposta, rimangano
domande, continuino a cercare.
Comincerò
allora col dire che parlare di generosità, di compassione, di amore,
è un lusso. Che per chi, come me, vive oggi in Italia, parlare di
certe cose è comunque parlarne dal punto di vista di un privilegio,
di mille privilegi. Posso scegliere cosa mangiare a pranzo, usare
luce, telefono, televisori, computer, letti per dormire, libri da
leggere, vestiti, mezzi per muovermi, per comunicare. Ci sono nata in
un paese tra i più ricchi del mondo. E questi privilegi non vengono
dal cielo, sono il frutto di scelte di vita, di pensiero, scelte
politiche, economiche, che hanno fatto i nostri padri e madri, nonni
e nonne, i nostri avi, che noi continuiamo a fare. Scelte che
guardano al profitto, al benessere economico, alla qualità della
vita. E non c’è niente di sbagliato, se non che guardano alla
vita, al benessere di pochi. Se non che spesso il fine giustifica i
mezzi. Se non che spesso i “mezzi” sono la cecità verso il
dolore di altri. E bisogna saperlo, ricordarcelo, che siamo figli e
figlie di logiche economiche, le cui radici affondano nell’egoismo.
Piccolo e grande che sia, personale, sociale, nazionale,
internazionale che sia. Egoismo che corre dietro all’avere: avere
soldi, avere amore, avere potere, successo, bellezza, avere ragione.
Bene. Abbiamo. Siamo ragionevolmente “fortunati”. Abbiamo la
fortuna di vivere nel XXI secolo, in uno dei pochi paesi dove non si
muore tutti di fame, di guerra, dove i diritti umani tutto sommato
vengono rispettati. Il problema è: che ne facciamo? Che ne facciamo
di tanta ricchezza da non sapere neppure dove buttare i rifiuti che
produciamo? Che ne facciamo di tutti questi privilegi? Cosa ne faccio
io?
Uso
acqua potabile per lavare panni e piatti, mentre altri su questo
pianeta non ne hanno per bere. La mia vita è sostenuta da ogni
parte. Cosa ci faccio? Cosa ci faccio di questa vita, della fortuna
di viverla? Posso tenerla per me. Tutto mi dice che posso tenerla e
usarla per me, per continuare ad avere soldi, successo, amori. Ma
posso fare anche altro? Posso restituirla quell’acqua?
Qualcosa
mi dice di no, qualcosa mi dice che quell’acqua è andata via e non
ho il potere di riprenderla e portarla in Africa, offrirla a uno di
quei bambini con la pancia gonfia che vedo in televisione. È per
questo che è così difficile parlare veramente di altruismo, di
amore. Perché d’improvviso quelle parole scappano dalle mani e
volano via verso l’astrattezza, la bellezza, lontano da me. Perché
posso parlarne tranquillamente dimenticando da che luogo, che tempo
ne parlo, dimenticando chi sono e il potere che ho, quello che posso
davvero, e non posso più niente.
C’è
un’altra fortuna di cui Nichiren Daishonin spesso parla, e di cui
in molti godiamo. La fortuna di aver incontrato il Sutra del Loto e,
soprattutto, di «poter incontrare e recitare la sua essenza, i
cinque caratteri di Nam-myoho-renge-kyo» (da La tartaruga e il legno
di sandalo, Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 6, p. 234).
È
la fortuna di poter guardare e sentire la vita con gli occhi della
nostra Buddità, ascoltare e imparare come la vita funziona, come si
muove. La fortuna di poter liberare la nostra mente e la nostra
esistenza dal karma creato nel passato. La fortuna di poter ottenere
benefici visibili e invisibili. La fortuna di poter essere a nostro
agio in ogni circostanza. Cosa ne facciamo? Cosa ne stiamo facendo di
tutta questa fortuna?
«Nessuno
di voi che vi dichiarate miei discepoli deve essere codardo –
scrive Nichiren nel Comportamento del Budda (Gli scritti di Nichiren
Daishonin, vol. 4, p. 43) – Non preoccupatevi per i genitori, le
mogli e i figli, non temete per le vostre terre. Fin dall’infinito
passato avete sacrificato la vostra vita un numero di volte superiore
alle particelle di polvere della terra per salvare i genitori, i
figli o le proprietà, ma non una sola volta avete dato la vostra
vita per il Sutra del Loto. Forse qualche volta avete cominciato a
praticare il Sutra del Loto ma, incontrando qualche ostacolo, avete
smesso. Questo atteggiamento è come bollire acqua solo per versarla
nell’acqua fredda o come cercare di accendere il fuoco e
rinunciarvi dopo alcuni tentativi. Ognuno di voi deve essere convinto
che sacrificare la vita per il Sutra del Loto è come scambiare sassi
con oro o immondizia con riso».
Nichiren
non solo ci ricorda la fortuna di essere vivi, qui e ora, la fortuna
di poter recitare Nam-myoho-renge-kyo. Ci esorta nel contempo,
continuamente, a dedicare la nostra vita, tutto ciò che possediamo,
al Sutra del Loto. Ma cosa vuol dire?
«Nel
venerare tutte le divinità e i Budda si è soliti far precedere la
parola nam ai loro nomi – si legge ne L’offerta del riso (Gli
scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 285). Ma qual è il
significato di nam? Questa parola deriva dal sanscrito: è tradotta
kuei-ming in cinese e kimyo in giapponese e significa offrire la
propria vita al Budda. Alcuni hanno moglie, figli, servi,
possedimenti, oro, argento o altri tesori, a seconda della loro
condizione. Altri non hanno proprio niente. In ogni caso, che uno
possieda delle ricchezze o meno, la vita stessa è sempre il più
prezioso dei tesori. Questo è il motivo per cui i santi e i saggi
del passato offrirono la loro vita al Budda, e diventarono essi
stessi Budda».
Offrire
la propria vita al Budda, offrire la propria vita al Sutra del Loto.
Sembrano frasi così lontane dalla vita di tutti i giorni, dalle
corse in macchina, dall’acqua che scorre nel lavandino, dal
pensiero di quell’egoismo, fatto sistema, nel quale e grazie al
quale viviamo, nel quale e grazie al quale muoiono tante altre
persone, tante altre soffrono.
Eppure,
poco dopo, nello stesso testo si legge: «Il vero sentiero della vita
sta nelle cose di questo mondo. Nel sutra Konkomyo si legge: “Avere
una profonda conoscenza di questo mondo è di per sé Buddismo”. Il
Sutra del Nirvana afferma: “Qualunque sia la fonte, tutte le
scritture e gli insegnamenti sono essenzialmente la rivelazione della
verità buddista. Non sono insegnamenti non-buddisti”. Al
contrario, nel sesto volume del Sutra del Loto si legge: “Nessuna
cosa che riguardi la vita o il lavoro è in qualche modo diversa
dalla realtà fondamentale”».
«Il
vero sentiero della vita sta nelle cose di questo mondo», scrive
Nichiren. Non sta solo nei bei pensieri, nei bei propositi, nell’idea
astratta di generosità, o di amore per gli altri. Sta nel modo in
cui lavoro, amo, parlo, guadagno. Sta nel modo in cui questa vita la
vivo, la uso, nel modo in cui ne faccio ricchezza da donare.
C’è
chi è ricco e chi no. Chi ha amore e chi no. Chi ha la possibilità
di curarsi e chi no. In genere, viene da associare la parola
ricchezza alla parola avere. Sono ricca se ho, sono povera se non ho.
E non c’è limite. Vorrei poter avere tutto: soldi, bellezza,
amore, salute, successo. Più ne ho, più ne vorrei. Più ho, più mi
scervello per come avere. Ci vivo in una società così, che insegue
ricchezze all’infinito, in un vortice di desideri senza limite.
Pensate alle lotte per la terra, per le armi, per i beni, alle lotte,
oggi, quasi per possedere i cieli. Provate a pensare a perché è
così difficile cambiare il corso della storia e iniziare a usare
energia “pulita”, invece che “sporca”. Pensate a quanti
interessi, quanto potere, quanto egoismo c’è in gioco. Quanto la
logica del profitto, dell’avere a tutti i costi, decide di noi e
non solo di noi. Anche nelle piccole cose.
Praticando
il Buddismo, però, può iniziare a insinuarsi una piccola crepa nel
complesso schema dei pensieri, delle azioni che intraprendo per
possedere, per conquistare, avere. Comincia a nascere la coscienza
che tutto è temporaneo, mutevole, che ricchezza, salute, bellezza,
beni, non sono impermanenti, non sono eterni. Mentre la vita sì.
Mentre i segni che lasciano le mie azioni, i miei pensieri, le mie
parole sì. Creano karma. Vanno a costruire pezzetti di un disegno
infinitamente grande che è la vita: la mia, della mia famiglia,
della società in cui vivo, del pianeta terra. Inizio a comprendere
che, quando a tutti i costi mi sforzo per ottenere qualcosa, per
accrescere la mia ricchezza, il mio avere beni, sto lottando per
qualcosa che oggi ho e domani posso non avere. Mentre le azioni che
compio, il modo in cui ho lottato, rimangono impresse nella mia vita
per sempre. Come una ruga dell’anima. Come il segno di
un’espressione. Se lotto con egoismo, il mio egoismo rimane. Se è
l’avidità a guidarmi, l’avidità mi rimane addosso, anche dopo
aver vinto, anche se quello che ho vinto scompare. Rimane non solo
dentro di me, ma anche intorno, tra le persone che frequento, nella
testa di mio figlio che impara la vita guardandomi, rimane nella
società in cui vivo e che contribuisco a creare. Allora comincio a
farmi più attenta, attentissima, non solo alle cose, ma soprattutto
al “modo” in cui vivo le cose, le conquisto, le possiedo.
Ecco,
dedicare la propria vita al Budda, dedicare la propria vita al Sutra
del Loto può essere un modo. Può essere un modo di vivere dedicando
la propria vita alla “Vita”, farne un dono. Così, quella crepa
che si apre nel modo consueto di pensare alla ricchezza mi porta a
pensarci in maniera più larga, più grande.
Non
è più solo il qui e ora a interessarmi, non più solo questa vita,
questo tempo. Il tempo e lo spazio si allargano, e posso intravedere
come un’azione e, soprattutto, il modo in cui la compio disegnano
il futuro. Posso intuire, e poi sperimentare, come il gesto di donare
me arricchisca la mia vita e quella degli altri. Come in un gioco di
specchi, tutto quanto riesco a tirare fuori dal mio essere può
andare da me agli altri, di nuovo a me, in un circuito senza fine.
Posso davvero scambiare «sassi con oro o immondizia con riso». Se
mi libero dalla logica dell’avere a tutti i costi, e inizio
l’impresa di donarmi, posso creare ricchezza e condividerla,
all’infinito. E più ne ho più ne posso dare. Più ne do, più ne
posso creare.
Cosa
ci faccio allora di quello che ho? Mi lamento perché è poco, non mi
piace, non è giusto. Non è bello? O provo a prendere tutto e farne
dono, così com’è, così come sono?
Tokusho
Doji e Musho Doji erano due ragazzi che vivevano al tempo di
Shakyamuni. Mentre giocavano col fango nella periferia di Rajagriha
videro Shakyamuni che chiedeva l’elemosina, e non avendo niente
altro che quel fango tra le mani impastarono una torta con terra e
acqua e gliela misero nella ciotola. Il loro desiderio di donare
qualcosa a Shakyamuni non si fermò alla realtà delle cose. Quel
desiderio visse, con il potere che aveva. Tokusho, come Shakyamuni
sorridendo gli predisse, rinacque dopo circa cento anni come re
Ashoka, e Musho come sua moglie, o suo fratello. Fu un re famoso,
dapprima spietato, poi, una volta convertito al Buddismo, governò
con saggezza e generosità su vastissime terre.
Nichiren
racconta la loro storia, tratta dal sutra Zo-agon, per spiegare
quanto conta lo spirito con cui si offre ciò che si ha al Budda e al
Sutra del Loto, quanta ricchezza produce. E il Budda non è solo
Shakyamuni, il Budda è ognuno di noi, il Budda è ogni essere umano.
Non si tratta di uno scambio commerciale: dare per avere. Si tratta
di imparare a fare tesoro di tutto ciò che possediamo. Si tratta di
rendere preziosa la nostra vita facendone dono.
Ho
una casa, una famiglia, un lavoro. Ogni mattina mi sveglio, mi
preparo e vado a lavorare. Posso farlo in vari modi. Volentieri e
meno volentieri, con cura e meno cura. Posso pensare che sto
lavorando per guadagnare soldi, comprare una macchina, un libro, una
maglietta, o per pagare tasse e bollette. Non è che sia male, è che
alla lunga un pensiero così non mi fa tanto felice. Anzi, tante
mattine arrivo a svegliarmi pensando che sono costretta a lavorare,
che è una schiavitù, che non mi piace, che questo lavoro non lo
faccio per scelta, ma per dovere. Posso arrivare a odiarlo il mio
lavoro, il mio capo, le situazioni antipatiche che ogni mattina devo
affrontare. E così divento povera, povera dentro, arida, sprecata.
Chiusa in un muro di insoddisfazione che mi porta a vivere pensando
di essere infelice perché vorrei sempre altro da quello che ho. Ma
cosa ho? Cosa ho da offrire? Ho anche un marito, o una moglie. Sono
anni che stiamo insieme e non so più perché. Sì, ci sono i figli,
la casa che stiamo pagando insieme, le abitudini, le vacanze. Ma mi
manca qualcosa. Manca passione, complicità, gioia. Lui, o lei, non
mi parla più di tanto, non gli brillano gli occhi come una volta. Mi
arrabbio perché non mi capisce, non capisce cosa voglio, cosa
soffro. Non comprende. Tanti sforzi, tanti anni per avere solo
questo.
Di
nuovo povera, di nuovo misera, di nuovo insoddisfatta. Di nuovo
pronta a essere infelice per quello che non ho, per quel qualcosa
che, non so da dove cominciare, ma vorrei. Bene, cominciamo a dare.
Cominciamo a fare torte di fango e farne dono. Cominciamo a cambiarla
dentro questa logica che dice: sono felice se ho, sono infelice se
non ho. Almeno a provarci, e vedere se è vero che offrire la propria
vita dà una gioia, una vita diversa. Cosa posso dare a mio marito, a
mia moglie, ai colleghi di lavoro, a quel mio “capo” tanto
scontroso e antipatico? Un sorriso? Un pensiero? Una preghiera? Una
parola? Cominciamo a dare quello che vorremmo. Vorrei comprensione:
darò comprensione. Vorrei calma: non mi arrabbierò. Vorrei fiducia:
mi fiderò. Vorrei qualche sorriso ogni tanto: farò brillare i miei
occhi. Voglio che la mia vita abbia un senso: darò senso al mio
stare qui. Al mio incontrare la vita di altri, ascoltarli, guardarli,
capirli, sostenere la loro felicità, la loro ricerca di senso.
Vorrei
un mondo più giusto, bene. La logica del profitto può cambiare da
qui, da qui dentro di me e contagiare l’aria, le persone che amo o
che odio, le persone che incontro, il futuro. Può cambiare il mondo
imparare a pensare in modo diverso e far dono di quel pensiero, farne
un tesoro che circoli insieme al denaro. Perché un pensiero diverso
può far belli anche i soldi. Anche il desiderio di avere, anche il
potere si fa bello se diventa potere di dare di più. Potere di
decidere per il meglio, potere di offrire qualcosa non solo a poche,
ma a tante persone. Proviamoci. Proviamoci a far sì che anche
l’acqua che scorre nel nostro lavandino abbia un senso. Starò
attenta a non sprecarne, ma potrà avere un senso se, sostenendo la
mia vita, quell’acqua mi aiuterà a fare progetti grandi tanto da
sostenere la vita di altri. Con quello che ho, con le mie capacità,
i miei dubbi, i miei limiti, i miei perché, le mie parole che
circolano e vanno in giro a chiedere risposte. A far sì che non sia
tutto così scontato e impossibile da cambiare, da migliorare. A far
sì che non si possa non pensarci. A ricordare che se una fortuna,
due, mille, ce le ho, posso usarle, posso farle fruttare. Posso
provare a dare tutto quello che ho, preghiere, parole, azioni, soldi,
esperienza, tempo, emozioni, per cambiare le cose, per cambiarle
quelle logiche economiche che decidono della mia fortuna ignorando,
calpestando la sfortuna, il dolore, la morte di altri. Posso
arrivarci in qualche modo a ridare l’acqua che spreco a quel
bambino che non ne ha per bere. Posso impiegare meglio i miei soldi,
provare a guadagnarne di più per adottarlo, adottarne dieci. O
disseminare il mondo di parole, pensieri, azioni che non permettano
più di dimenticarsene, che aiutino il genere umano a trovare un
sistema migliore, per il quale non ci debbano essere più bambini da
sfamare, bambini che soffrono la sete mentre altri bambini, in altri
posti, usano acqua potabile per giocare alla guerra con pistole di
plastica. Posso insegnare, ovunque io sono, la ricchezza di donare.
Di
Manuela Vigorita BS n.94 2002 settembre/ottobre

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