Di qui non si passa
Ai
primi chiarori del giorno subentrò una relativa quiete. Ne
approfittai per appisolarmi un po'. Ma il mio riposo durò poco.
Arrivò ancora il tenente Petrini, chiamò il caporale Alvini e dieci
di noi e disse:
– Prendete
ciascuno un rotolo di filo spinato "coda di porco" che sono
ammucchiati vicino al comando della compagnia, e stendeteli davanti
alla nostra linea fino a laggiù in fondo.
E
c'indicò un'ampia zona compresa tra la nostra linea ed un filare di
alberi sbrindellati, distante forse un centinaio di metri circa.
– Badate
che davanti a voi c'è soltanto il nemico che tenta di avanzare,
trattenuto per ora dai tiri di sbarramento della artiglieria. Perciò
fate molta attenzione.
Afferrammo
i rotoli di filo spinato ed uscimmo allo scoperto. L'artiglieria
nemica tirava maledettamente con granate dirompenti e con proiettili
a shrapnell. Ma su quella terra di nessuno tiravano indifferentemente
sia l'artiglieria austriaca, che la nostra. Sicché venimmo subito a
trovarci tra due fuochi. Ad ogni sibilo vicino ci buttavamo ventre a
terra cercando di sparire il più possibile tra le pieghe del
terreno.
Riuscimmo
tuttavia a stendere la maggior parte dei rotoli di filo spinato,
distanziandoli a scaglioni nella fascia di terreno che ci era stata
indicata.
[...]
Restai
in attesa di un momento più propizio e poi saltai su e corsi verso
la nostra linea. Ma il fuoco riprese d'intensità e gli scoppi mi
erano vicini. Mi buttai a terra. Il sibilo delle schegge mi fischiava
sinistramente nelle orecchie. Ancora una corsa e poi giù per terra,
e così fino a raggiungere il posto di comando della compagnia.
– Signor
tenente – gli dissi appena gli fui dinanzi – bisogna avvertire la
nostra artiglieria che allunghi il tiro, altrimenti non possiamo
finire il nostro lavoro.
-
Vi
è rimasto molto da fare?
No,
non tanto.
– Allora
torna pure indietro.
– Signor
sì
Corsi
ancora di là dalla nostra linea. Il fuoco era sempre infernale.
– Dova
vai, sei pazzo? – mi gridò qualcuno alle mie spalle.
Mi
fermai, gettandomi a terra dietro un tronco d'albero, e gridai con
quanto fiato avevo in gola:
– Caporale,
ehi caporale!
– Non
mi sentiva. Feci ancora un balzo avanti.
– Ehi
caporale! Venite via tutti. Il tenente ha ordinato di tornare.
Finalmente
mi fece cenno d'aver capito. Allora mi girai e presi a correre verso
la nostra linea. Quando fui a circa una quindicina di passi da questa
sentii il sibilo di un proiettile di artiglieria di piccolo calibro
che s'avvicinava. Ero troppo esperto ormai per non capire che poteva
essere quello buono per spacciarmi. Mi buttai a terra nello stesso
istante in cui avvertivo l'impatto del proiettile sul terreno e il
simultaneo scoppio a poco più di un metro da me. Restai stordito per
qualche istante. Ero ferito? Non osavo muovermi. Poi alzai la testa e
guardai davanti a me. Dal fossato di fronte, dove erano appostati
alcuni compagni mi stavano osservando con occhi sbarrati. – Sei
ferito alle gambe? Prova ad alzarti – mi disse uno. Mi sollevai
adagio sulle ginocchia e risposi:
– No,
non sono ferito alle gambe.
I
compagni continuavano a guardarmi con aria perplessa.
– Non
senti male a nessuna parte? Neanche alla faccia?
Portai
le mani al viso. Sentii che si bagnavano.
Dio
mio devo essere sfigurato – pensai – perciò mi guardano a quel
modo. Le ritrassi lentamente e le portai davanti agli occhi. Erano
sporche di fango.
– No,
non ho nulla! – gridai felice della scoperta.
Feci
di corsa i pochi metri che mi separavano e saltai nel fossato in
mezzo ai miei compagni, a tempo per ripararmi dallo scoppio di
un'altra granata.
Rientrarono
tutti ma non il caporale Alvini. Nel primo balzo verso la nostra
linea dopo pochi passi dall'albero, ai piedi del quale era rimasto al
riparo, fu colpito a morte da una scheggia di granata. Ora giaceva
laggiù in fondo, raggomitolato su se stesso, e sembrava un
mucchietto di stracci abbandonati.
Per
due giorni e due notti ancora gli assalti del nemico si susseguirono
pressoché ininterrotti, ma furono sempre contenuti e respinti. Non
si dormiva, naturalmente, ma in compenso ci veniva distribuito
regolarmente il rancio, accompagnato quasi sempre da generi di
conforto.
Una
volta mi sentii dare uno scossone. Aprii gli occhi. Era il sergente
Bellotti.
– Madonna
bona, ma tu dormivi? Era un'ora che ti vedevo senza muoverti, ma
credevo fossi morto. Svegliati, non senti che sparatoria? Gli
austriaci vengono avanti! Alzo zero, fuoco! Fuoco a volontà!
Come
un automa caricai il fucile e sparai. E così non so per quanto
tempo, fino a che mi accorsi che la canna era arroventata. Allora
presi il fucile di un caduto e continuai a sparare.
-
Fuoco
a volontà! Puntare prima di sparare! Alzare la testa guardare avanti
e mirare giusto!
Sparare,
sparare, caricare e sparare. Mirare giusto e poi sparare. Sparare e
uccidere, questo è importante. Che cosa succederà se gli austriaci
riusciranno a prendere la nostra posizione? Ci sarà un corpo a
corpo? Rimarrò colpito da una pallottola di fucile? O mi
squarceranno il petto con la baionetta? O sarò dilaniato da una
bomba a mano?
Due
o tre granate esplosero all'improvviso alla mia sinistra. Il tratto
di linea occupato dal mio plotone era stato preso in pieno. Si
levarono lamenti e grida strazianti. Più della metà del plotone era
stato messo fuori combattimento. Noi superstiti continuammo a
sparare, ma per quanto mi sforzassi non mi riuscì di vedere gli
austriaci al di qua della loro linea. Ancora una volta il loro
attacco era fallito.
Nella
sosta che subentrò, mi girai a guardare alcuni prigionieri che
venivano scortati verso le retrovie da un sottufficiale, il quale
ogni tanto, per farli correre, sparava con la sua pistola al di sopra
delle loro teste.
Notai
così che alle nostre spalle, a circa una cinquantina di metri, c'era
una casa colonica semidistrutta sulla cui facciata smozzicata
campeggiava, a grandi caratteri neri, questa scritta: di qui non si
passa
Pubblicato
sul numero di ottobre
2008 de
L’Alpino.
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