12 dicembre 1917

Sono al fuoco da più di due mesi. Ho perso la cognizione del tempo. Non ricordo più nemmeno il giorno in cui vi ho lasciato. Le condizioni qui non sono umane; questa mattina ho visto un povero soldato morto e trasportato di fuori in attesa di seppellirlo… Ogni giorno con i nostri stessi occhi tristi e stanchi dalle notti passate in bianco, siamo testimoni di questo dolore, della sofferenza dei nostri compagni. Con molta fatica siamo riusciti a scavare la trincea e a circondarla con il filo spinato. Fin dall’ alba si sentono suoni acuti, rimbombanti, forti che sento anche la notte. Delle volte mi è capitato che, mentre stavo dormendo, mi svegliavo 
di soprassalto, credendo che avessero sparato o lanciato qualcosa. Come ho già detto, le condizioni di vita, sono molto dure: spesso siamo costretti a camminare nelle trincee con l’acqua che arriva fin sopra la vita. Il clima è rigido, con la neve che si fa sempre più fitta, sono poche le volte che ho visto la luce del sole. Ora dirò che viviamo costantemente nella paura che un pallottola nemica ci possa trapassare il cranio o che i gas ci distruggano i polmoni. Tutti i giorni si va un po’ qua un po’ là nelle diverse partite a lavorare chi nelle trincee, chi nel bosco a tagliare piante per fortificare le trincee che distavano dal nostro quartiere circa un chilometro e dalla linea nemica anche mille passi circa. I pidocchi ci tormentano. Di giorno non si ha tempo d’ammazzarli e di notte non si può vederli. Io però ho una camicia di riserva e, la notte, la faccio bollire nella gamella, sul piccolo fornello di campo che ho vicino. Una sera mi trovavo in trincea a lavorare. Giravano aeroplani, prima passò uno nostro, che fu accompagnato da una quarantina di cannonate nemiche. Poi uno Germanico, e quindi uno Russo. Questo già ci spiò dal di sopra, e una mezz’ ora dopo, udimmo un colpo accompagnato subito dal fischio della palla che veniva nella nostra direzione. Io ed il mio compagno ci gettammo per terra essendo quasi scoperti. Era tempo. La palla scoppiò due metri circa sopra le nostre teste, e i resti caddero facendo un buco nella terra due passi avanti a noi. Se eravamo in piedi per noi due era finita. Là presso stavano dei soldati di fanteria a lavorare. Io sono stato ferito ad una spalla e gli altri nella coscia. Subito dopo ci siamo rifugiati in un reparto assai fortificato dove si trovava una mitragliatrice. E là abbiamo aspettato l’arrivo di un po’ di calma. Nonostante ciò, quattro giorni dopo, sono diventato Caporale maggiore del 21° Reggimento d’artiglieria e questo mi rende più responsabile nei confronti dei miei compagni. Quanto vorrei poter essere adesso vicino ai miei genitori come quando ero bambino, ma questo è solo un sogno, un desiderio forse realizzabile, perché questa notte, “la grande notte”, sarà quella decisiva: dovrò guidare i miei in prima linea, contro quel temuto piombo nemico che di solito non lascia scampo a nessuno… Se potessi consolare i miei cari direi loro di non pensare a me perché io non penso a niente: mangio e bevo e la mia vita l’ho messa in mano a Dio e lui deciderà, ci penserà.
Soldato Ettore Inzani 


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