Il Decalogo del vecio can
Mentre
aumenta l’interesse per il tragico periodo riguardante, la prima
parte del secolo scorso, sempre più spesso riemergono dai bauli,
documenti o preziosi cimeli che riportano ad episodi ormai rimossi o
perlomeno attutiti dal trascorrere del tempo. E’ anche cosa usuale
che testimonianze ormai divenute storiche, siano affidate a chi,
nelle speranze dei donatori, siano in grado di tramandare o di
conservarle. Probabilmente è grazie a questo motivo che siamo venuti
in possesso dopo la scomparsa della moglie, d’alcuni testi di
proprietà del Gen. Eligio Morero che riguardavano il primo conflitto
mondiale. Tra le pagine di un testo, tra i tanti pubblicati nel primo
dopoguerra, espressione di un forte desiderio di divulgare le vicende
della guerra italiana, è spuntato un foglio, ingiallito e reso
pesante dal lungo oblio. E’ così riemerso un documento certamente
minore ma suggestivo dell’epopea degli Alpini nel primo conflitto
mondiale, visto poi che numerose citazioni della sua esistenza sono
sparse tra la memorialistiche del Corpo di montagna e negli studi
specifici in materia. Nel documento con la scrittura elegante e
inclinata del tempo, si stigmatizzavano in maniera spesso goliardica,
le doti che doveva avere l’Alpino ideale. E’ in pratica un
curioso vademecum a cui tutti i firmatari dovevano poi “strettamente”
uniformarsi, esso divenne noto come il “Decalogo del vécio can”.
Era
una summa varia e divertente, sicuramente contraria in molti articoli
a qualsiasi norma di comportamento militare, ma da cui traspariva lo
spirito comune della gente di montagna, pratico e assolutamente poco
formale. Chi materialmente si occupò di mettere per iscritto le
massime, unanimemente stabilite, fu l’eclettico avvocato Angelo
Manaresi, come riportato in un inedito scritto dell’allora Capitano
Morero, nella baracca del Comando del battaglione “Feltre”
aggrappata a 2500 metri di quota. La redazione del singolare
documento, il luogo e le circostanze, vengono da tutti gli autori
fatti risalire ad uno dei brevi turni di riposo che il Reparto
effettuò a fondovalle, anche se testimonianze discordi non ne
chiariscono il momento. Per alcuni, dopo la presa di Monte Cima nella
primavera del 1916, per altri nell’autunno dello stesso anno,
posteriormente quindi, all’episodio che rese celebre il reparto. Il
documento certamente originale, redatto su carta intestata del 7°
Reggimento Alpini, ha vergato in ultima pagina la dicitura “…Cauriol
notte sul 22-7-917” e, pur in parte ormai illeggibili, sono
riportate le firme di tutti gli ufficiali promotori, e quindi
difficilmente potrebbe essere una copia redatta in un momento
successivo. Il “Feltre” era dunque reduce dalle furibonde mischie
in trincea e sulle crode, di un fronte aspro e al limite delle
sopportazioni umane e recente protagonista dell’impresa che,
insieme alla conquista del Monte Nero, l’Ortigara, alla Guerra
bianca d’Adamello ebbe allora vasto eco : la presa del Cauriol.
Strategicamente
basilare nello schieramento austriaco il Cauriol, della catena del
Lagorai sbarrava l’accesso alla Val di Fiemme di Cavalese e
Predazzo, e dalla sua cima era quindi possibile controllarne
agevolmente i centri, le rotabili e la ferrovia che portava a Trento.
Uno sfondamento in quel settore avrebbe potuto significare
l’irruzione nella valle dell’Adige poco a sud di Bolzano con
conseguenze inimmaginabili per le sorti dell’intera guerra. Al
battaglione “Monte Rosa” e alle tre compagnie del btg “Feltre”
come supporto, fu affidato nell’estate del 1916 il compito di
occuparne l’aguzza vetta dove, e da diverso tempo, gli
Austro-ungarici si erano trincerati potenziandone le già notevoli
difese naturali. Il Cauriol è, infatti, un’aspra piramide
rocciosa, alta 2494 metri, composta di una fascia di boscaglia che si
dirada rapidamente su di una roccia prima strapiombante poi alternata
da terrazzamenti sino ad una cima aguzza e incombente. La prima
impressione che ne ebbero gli Alpini osservandone la vetta da debita
distanza, non fu certo delle migliori, visto che il Ten. Manaresi,
narrò che molti si chiesero se fosse possibile anche solo scalarla
alpinisticamente…
Il
battaglione Feltre che aveva gia’ vittoriosamente combattuto in
Valsugana, dal 1886 arruolava Alpini provenienti dal Cadore e dalle
vicine valli del feltrino, uomini ben decisi dunque, a frapporre il
maggior spazio possibile tra gli austriaci e le proprie famiglie. Non
mancavano tra loro i veterani della campagna di Libia tra cui il
Comandante stesso, il promettente Capitano 28enne, Gabriele Nasci.
Ufficiale stimatissimo e feltrino d’adozione, Nasci era
praticamente idolatrato dai propri uomini e diverrà noto come valido
Comandante prima nella sanguinosa guerra d’Albania e poi
dell’intero Corpo d’Armata Alpino in quella gigantesca tagliola
che divenne il fronte russo nel 1943.
Il
24 agosto del 1916 proveniente dalle fitte sterpaglie del Col del
Latte, gia’ fatto bersaglio dei colpi dell’artiglieria austriaca,
il battaglione” Feltre” attraversò il bosco e discese verso
campo Laghetti, da qui seguendo la linea di massima pendenza si avviò
verso l’aspra cima del Cauriol. Un plotone fu inviato come
diversivo ad est verso campo Cupola per disorientare l’avversario
che dall’alto dominava accessi e retrovie. Iniziata la salita tra
il folto degli alberi, gli Alpini, raggiunsero alle ore14 il margine
estremo del bosco in vista del trincerone avversario che fasciava la
base della roccia a quota 2100. Nasci inviò inutilmente delle
pattuglie verso destra per stabilire un collegamento con il
Btg.”Monte Rosa”che lanciato anch’esso verso la cima, trovò e
molto più in basso, la via sbarrata da un’enorme parete verticale
non indicata dalle mappe ufficiali che notoriamente riportavano “più
errori che segni”. Altre due squadre furono spinte in avanti per la
necessaria esplorazione del terreno e con il nemmeno tanto velato
compito di “saggiare” la consistenza del nemico. Avvenuto il
primo contatto e dopo varie scaramucce, gli alpini riuscirono ad
irrompere in alcune postazioni che gli avversari sgombrarono
rapidamente, ma verso le 17.30, oltre 200 Austriaci scesero dalle
trincee superiori. Prima respingono gli italiani e poi tentano di
accerchiare le 4 squadre che grazie al rinforzo di un plotone si
disimpegnano ma non senza lasciare il primo caduto nella discesa
verso il bosco. Durante la notte, che il “Feltre” trascorre
all’addiaccio e sotto i colpi provenienti anche dalle pareti
sovrastanti, rientra anche il plotone che era stato lasciato sul Col
del Latte ora occupato dal “Val Cismon”. Il mattino seguente il
battaglione al completo si dispiegava sul costone per l’assalto e
nonostante una nebbia insistente è bersagliato con accuratezza dai
piccoli calibri di Cima Cupola e forcella Sagole. Alle ore16 viene
impartito l’ordine di avanzare, aprono il fuoco dalle retrovie i
medi calibri, che non riescono pero’ ad inquadrare con efficacia la
prima linea avversaria, validissimo invece l’appoggio dei 4
cannoncini della 5° batteria da montagna posizionati più a ridosso
degli Alpini. Alle 17 dal bosco il “Feltre” si lancia
all’assalto.
Dopo
alterne vicende e violenti corpo a corpo la prima linea di difesa
austriaca arretra e viene occupata al calare della notte del 25.
Viene raggiunta così anche la selletta a quota 2343 del Cauriol,
tagliando così qualsiasi via d’accesso e rifornimento al presidio
austriaco della cima. Si scoprì poi, che esso era composto da una
compagnia ben equipaggiata con mitragliatrici, lanciabombe e
sapientemente difesa nei punti nevralgici, da tenaci fasce di
reticolato. Se diventò impossibile per gli austriaci, il tornare in
possesso della selletta e ricollegarsi così ai propri reparti, fu
ugualmente arduo qualsiasi tentativo del “Feltre” di scalare la
cima visto il diluvio d’esplosivi e sassi scagliati dalla
soprastante cima 2404. Il plotone esploratori proseguì ugualmente
l’ascesa, raggiungendo a mezzanotte le postazioni imperiali e
l’intatto doppio ordine di reticolati coronanti la vetta. Nel
difficile disimpegno vi lascia 2 caduti e arretra di 150 metri
cercando di improvvisare dei ripari coi sassi, mentre l’intero
reparto più in basso si trincera nelle posizioni occupate. Si tentò
ancora varie volte lungo la notte e con l’aiuto delle bombe a mano
di forzare le difese ma ogni tentativo veniva immediatamente
rintuzzato. Isolati sotto la cima e allo scoperto, gli alpini furono
bersagliati per l’intera notte del 25 dalle soprastanti postazioni
austriache e fu per tutti una notte infernale. Il bilancio della
seconda giornata fu di 29 feriti, di cui 4 Ufficiali e 6 Alpini
morti, ma la situazione, se possibile, peggiorò ulteriormente con la
prima luce del 26. Si aggiunsero, infatti, il cadenzato fuoco
d’artiglieria che da Cima Cupola li colpiva ormai quasi alle spalle
e alcune mitragliatrici che battevano incessantemente l’ala
sinistra del reparto. Nel frattempo il Comando di Gruppo si aspettava
che l’azione contro la vetta fosse ripresa alle ore 7, ma visto che
la cima era avvolta nella nebbia si dovette giocoforza rinunciare.
Per l’artiglieria di medio calibro di Forcella magna e i 102 di Val
Vanoi era infatti impossibile riuscire a colpire le difese nemiche e
aprirne dei varchi. Per l’intera giornata del 26 il reparto dovette
dunque resistere in quella scomoda posizione attaccato più volte
dagli Jager lungo un cordone morenico con chiaro scopo di liberare il
presidio della cima da dove invece, piovevano barilotti esplosivi e
bombe a mano provocando un continuo stillicidio di dolorose perdite
tra cui gran parte degli ufficiali. Numerosi gli episodi fermati
nella memoria dei sopravvissuti: dal ciclopico Ten. Caimi che pur
ferito ritornò ai reticolati per riportare indietro l’attendente
trascinandolo per i capelli al sergente Balliana che pregava di non
avvertire il proprio fratello, anch’egli del Feltre, della perdita
delle mani.
Nella
tragica mattina seguente quella del 27 agosto, la situazione era
chiaramente senza uscita. La scomoda immobilità della giornata
precedente, era da sola costata 43 Alpini tra morti e feriti. O si
riusciva ad arrivare alla cima o il Battaglione ridotto ormai ad un
centinaio di uomini, doveva rientrare sulle posizioni di partenza
rendendo vano il sacrificio di tanti. Il pomeriggio, un disertore si
consegnò ad una nostra vedetta dimostrando almeno, che attraverso i
reticolati ora si poteva passare. Furono distribuite le munizioni
tolte ai feriti e ai caduti, segnalate le nuove posizioni alla
batteria, stabiliti i percorsi e piantati nuovi chiodi per la
scalata, poi Nasci alle 18 dette il segnale d’assalto.
S’intensificò il fuoco rabbioso e precisissimo dei soli cannoncini
della 5° che tirando da ormai poche centinaia di metri, facendo
staccare dalla vetta molti macigni, pericolosi per gli alpini
sottostanti ma oltremodo provvidenziali, visto che schiacciavano o
strappavano intere matasse di filo spinato. Gli italiani iniziarono
ad arrampicarsi sulla roccia incombente e, arrivati ai primi
reticolati, ne allargarono i varchi, con le mani e il calcio dei
fucili. Con la rabbia dei disperati, in feroci corpo a corpo,
scacciarono da una postazione all’altra i difensori che sparavano
ormai a bruciapelo, entrambi i contendenti sapevano che arretrare
avrebbe sicuramente significato enormi perdite. Caddero in molti,
anche Giovanni Scòpel, colpito 5 volte, alpino animoso e ben
conosciuto nel reparto anche perché aveva il coraggio di
arrampicarsi più lento quando i colpi gli cadevano molto vicino per
dare l’illusione al cecchino di avere l’alzo sbagliato. ll
fratello Siro cadde anch’esso, solo qualche mese dopo, a difesa
delle pendici del Grappa, e a pochi metri di distanza, della casa di
famiglia. Alle 19.50 superato l’ultima cengia, due plotoni di
Alpini a baionetta innestata irrompono nella trincea che circonda la
cima dove il combattimento si spezzetta in una lotta furibonda. A
pochi metri dalla cima cade il decimo alpino della giornata, il
Sottotenente Carteri della 65° compagnia colpito da una palla alla
testa. Gli assaliti, in un ultimo disperato tentativo cercano di
scaraventare degli Alpini nelle forre sottostanti, ed è il fatto che
determina l’atroce fine di molti degli ultimi difensori. La vetta è
ormai presa, giungono a valle le staffette, preannunciate
dall’esultanza degli Alpini.
Oltre
a copioso materiale bellico cadono nelle mani degli italiani 17
imperiali rastrellati lungo le pendici, ma ben maggiore e
l’importanza di aver conquistato la vetta. Piu’ in basso con
Alpini divenuti dominanti, gli austriaci arretrano, abbandonando
posizioni limitrofe e sottostanti e sgomberano le piazzole
d’artiglieria di fondo valle. Dalla cima, splendido osservatorio,
gli Alpini vedono gli incendi dei depositi e alla sera magicamente
illuminarsi nella valle, le prime luci di Predazzo. Intanto le
salmerie del reparto, una compagnia di fanteria e 60 artiglieri
provenienti da Capriolo, si fanno sotto la montagna aprendovi un
precario sentiero lungo i pendii. Giunti al bosco vennero loro
incontro i feriti leggeri che aspettavano di essere evacuati e che
invece vollero di persona scaricare i muli e portare ai compagni
sulla cima appena conquistata, cibo, caffé, munizioni , ceste di
frutta fresca, sciarpe, biglietti. Strategicamente, pur con il
reparto esausto dopo la terribile prova, Nasci avrebbe potuto
continuare a valle oltre la forcella Sadole trasformando un
importante successo in un trionfo, ma la necessità di allestire una
pur improvvisata linea di difesa e il timore di dover arretrare da
una posizione costata tante perdite fu invece prioritaria per il
comando. Fu probabilmente un errore, anche perche’ solo con i
rincalzi si sarebbe potuto creare grave scompiglio nelle seconde
linee austriache, verso cime e valli che costarono in seguito la
sanguinosa distruzione dei migliori reparti. Si preferì, ancora una
volta aggrapparsi ad una linea in cresta, proseguendo poi di vetta in
vetta in un sanguinoso alternarsi di successi parziali, giudicando
ininfluente ogni infiltrazione lungo le valli senza il preventivo e
saldo, possesso delle cime. Questo prudente giudizio, fu presto
smentito a Caporetto dall’irruzione, proprio a fondovalle,
dell’Alpenkorps tedesco e da una serie concatenata di eventi, che
misero in bilico l’esito dell’intera guerra e con essa l’unita’
stessa del Paese. Il rammarico dei protagonisti per l’occasione
mancata del Cauriol, traspare anche nei pur allineati testi editi
all’epoca del regime, ma le decisioni prese erano in realtà lo
specchio di una mentalità comune a tutti i livelli dei Comandi
Italiani e destinato tra l’altro a perdurare.
L’importanza
della quota non era in ogni caso sfuggita ai comandi austriaci che,
pur investiti da quel colpo imprevisto, avevano fatto affluire truppe
fresche per una reazione immediata e accanita. Gli attacchi furono
violentissimi, già quattro nella prima mattina da parte di un
battaglione bosniaco che con abili e decisi assalti mise a dura prova
le difese della cima appena abbozzate. Nei giorni successivi tutte le
artiglierie austriache del settore girarono le proprie bocche da
fuoco verso il Cauriol, e come azione di supporto ai continui assalti
si aggiunsero anche le devastanti salve dei 305 dai proiettili di 3
quintali di peso, che condussero rapidamente alla tragica conta
finale di 300 tra morti e feriti nell’intera azione.
Solo
il 1 settembre, quaranta giorni dopo, il Feltre ormai dissanguato
abbandonò la cima, lasciandovi una sezione di mitragliatrici Fiat a
supporto degli “anziani” richiamati del ”Val Brenta”. Questi,
sottoposti al piu’ duro assalto che la vicenda ricordi, furono in
pochi giorni letteralmente decimati, e ridiscesero dalla cima dopo un
strenua resistenza solamente in 30. Fu la volta poi del ”Monte
Rosa” come ricordato dal piemontese, Salvator Gotta che a
fondovalle incontrò con emozione gli Alpini della propria terra
avviati verso l’insanguinata vetta ”morituri per destinazione”.
Ritirandosi a quota 1700, il ”Feltre”, ancora sotto la minaccia
del fuoco nemico a solo un’ora di cammino dalla cima, si attendò
due giorni e attese l’arrivo dei rimpiazzi dal Cadore, per colmare
i paurosi vuoti. Ritornò rapidamente sulla vetta, anche quando era
sepolta da 7 metri di neve, alternandosi con il “Val Cismon” per
più di 15 mesi e respingendo ogni assalto, sino al drammatico
abbandono del 4 novembre 1917 diretto e per primo, ad un’epica
difesa 40 chilometri più indietro: il massiccio del Grappa. Gli
Alpini del ”Feltre” si ritirarono allora carichi d’angoscia,
giunti infatti al vecchio confine, ogni passo che facevano era terra
feltrina che veniva abbandonata al nemico, sfilando nei propri paesi,
dove anziani, mogli e figli si riversarono drammaticamente nelle
strade, si assistette a dolorose scene di dignita’ e di strazio. In
quell’occasione l’ormai Maggiore Nasci, stabilito l’ultimo
campo a Seren, diede pericolosamente la possibilità ai tanti
residenti di raggiungere le proprie case per una notte, e per
moltissimi sarà l’ultima, augurandosi di ritrovarli tutti
all’adunata del mattino. L’indomani il “Feltre” in ritirata
ma a ranghi completi, salì alla montagna di casa, il Grappa, per la
difesa disperata dell’ultima trincea, prima della sottostante
pianura veneta e della totale catastrofe. Ne ridiscese annichilito un
mese dopo senza aver ceduto di un metro ma lasciando sul campo i 4/5
della forza, e dopo aver impiegato nei feroci combattimenti
cucinieri, portalettere, tutto il personale sanitario e anche il
cappellano.
Rapidamente
sul devastato e ormai lontano Cauriol, ritornò invece il silenzio e
i caprioli che gli dettero il nome, pian piano franarono le
postazioni e il tempo colmò i coni delle esplosioni e la memoria
degli uomini di altri tragici avvenimenti.
A
valle coloro che “arrivarono ai confini della vita per poi farvi
ritorno” ne tramandarono a lungo le vicende nelle veglie in Cadore
o nelle miniere della Slesia, dove un paese a tutt’oggi
irriconoscente, li spinse ad emigrare. Raramente il racconto del
valore e di quel sacrificio fu messo per iscritto dai protagonisti,
in un dopoguerra confuso, offesi dal clamore dei soliti imboscati
d’italica furbizia, molti preferirono il silenzio dignitoso e la
dura ricostruzione dei borghi bruciati. Tra i pochi libri pubblicati,
prima del bagno di cieca retorica fascista, resta insuperato Paolo
Monelli con il celebre “Le scarpe al sole” forse lo specchio piu’
reale e umano non solo dell’impresa del Cauriol ma dell’intera
guerra in montagna e delle umili figure che la combatterono. Gli
Ufficiali reduci del primo conflitto, e molti figli degli Alpini del
Cauriol ebbero ancora il tempo di mettere “le scarpe al sole” in
una sciagurata guerra, nel fango dell’Albania, sulle Alpi francesi
o nell’immensa steppa russa. Tra i pochi superstiti di quelle
avventate campagne militari ancora Nasci e Morero, che stanchi reduci
di 4 conflitti, si spensero dimenticati nel dopoguerra. Poi, nel 1986
anche gli ultimi due testimoni diretti del Cauriol, Alpini di leva
del feltrino, raggiunsero i propri compagni.
Sono
nel cimitero dei Vanoi, tra i più toccanti dell’intero fronte,
vennero sepolti in 800, Italiani, austriaci e 2 tedeschi, a ricordo
dell’aspra lotta per mantenere la posizione ed estesasi in seguito
alle cime limitrofe del Cardinal e della Busa Alta. Molti di quelli
sfuggiti al metodico massacro caddero vittime delle malattie o più
spesso delle gigantesche valanghe in un terribile inverno di nevicate
record. L’ultimo caduto, un ignoto italiano, dai ghiaioni del
Cauriol trovò finalmente pace sui terrazzamenti erbosi di Vanoi solo
nel 1929. Gran parte di queste salme furono poi traslate nei
giganteschi mausolei celebrativi del dopoguerra fascista ma la
raccolta sulla montagna, come altrove, non è in realtà mai
terminata. Prossimo il 90° anniversario, certamente più delle
pagine scritte, delle lapidi o d’alcune tracce delle imponenti
opere di difese, sono ancora le rocce frantumate della cima a
testimoniare meglio l’estrema violenza di quei mesi. Anche una
mesta canzone Alpina ricorda a tutt’oggi le vicende accadute sul
Cauriol, e certamente in modo più reale e sofferto delle celebrative
copertine del Beltrame che la illustrarono allora ad un paese
distratto e lontano. Nei numerosi testi e studi, non solo nel
dopoguerra, si trattò così l’accaduto, con riferimenti epici o
marcando il carattere tipicamente alpino della manovra. Essa infatti
era, quando ben interpretata, molto diversa dagli inutili assalti che
nelle pianure coinvolgevano enormi ondate di combattenti, assai poco
dotati di quella convinzione e singola autonomia d’azione
indispensabile nella guerra in montagna. L’azione del Cauriol viene
infatti ricordata sia per l’impeto e il valore di ogni singolo, che
non permisero agli avversari altra possibilità che la fuga ma
sopratutto per la perizia e la rapidità di esecuzione, la vetta
venne infatti presa con limitate perdite e in poco meno di due ore.
Anni
dopo, prima della campagna in Africa Orientale o dalle tragiche
esperienze sul fronte Greco-albanese, a memoria di quel valore, il
“Feltre” adornò definitivamente il suo distintivo di reparto con
il profilo roccioso del Cauriol. Pur sopravvissuto alla falcidia dei
reparti alpini del moderno “modello di difesa”, pochi mesi fa, il
“Feltre” ha dovuto trasferirsi a Belluno dopo oltre 100 anni di
“radicamento” nella città di Feltre, pur ormai in gran parte
composto da professionisti provenienti da lontane regioni. Alla
cerimonia ufficiale d’addio i moltissimi Alpini feltrini d’ogni
età ma con il comune orgoglio delle origini, hanno polemicamente
evitato di indossare il tradizionale cappello con la penna nera.
Attualmente inquadrati nella brigata “Julia” gli Alpini del
Battaglione Feltre, sono custodi delle tradizioni dell’intero 7°
Reggimento Alpini, della sua bandiera con ben 13 decorazioni e delle
oltre 1100 individuali, in ricordo di guerre da cui 4457 di loro non
tornarono.
Tra
partite a dama e serate goliardiche in una baracca appesa a 2500
metri di quota il sodalizio “dei Veci can” fece ben presto
proseliti. Inizialmente aperto ai vecchi ufficiali del reparto venne
ben presto allargato creando un’apposita sottosezione di ”bocia”
e tra tutti lo era indiscutibilmente M.O. Vittorio Montiglio che pur
non dimostrandoli, aveva poco più di 14 anni. Allo scoppio della
guerra europea era infatti in maniera rocambolesca fuggito dal Cile
per arruolarsi prima nella territoriale e poi dopo le sue insistenze
negli Alpini, il tutto dopo aver piu’ volte falsificato i
documenti. Ferito e pluridecorato divenne l’anno seguente,
addirittura Tenente degli arditi del “Feltre”. Dopo aver preso il
brevetto di pilota, partecipò nel dopoguerra all’impresa Fiumana e
dopo aver così vissuto, morì a soli 26 anni in un banale incidente
automobilistico. Tra i primi 20 firmatari, molti altri alpini
divenuti poi testimoni illustri o caduti in valorosi episodi, spesso
ricordati dalle Medaglie d’Oro. E’ il caso degli Irridenti : i
trentini, Pernici, Tonini, e Garbari il quale ormai circondato e
memore di Cesare Battisti, preferì togliersi la vita per non cadere
prigioniero. Il triestino Guido Corsi poeta e letterato, la cui madre
per ritorsione al suo arruolamento fu deportata in Austria, e caduto
anch’esso sul Valderoa del Grappa nell’estrema difesa del ’17
in ore d’esaltazione eroica o di tacita rassegnazione. Altri ancora
come il già citato Ten. Angelo Manaresi che diverrà poi Deputato
del Regno, valente narratore e vignettista, e che ricoprì tra le due
guerre la carica di Presidente nazionale del X° Reggimento, quello
degli Alpini in congedo. Il 9 volte decorato, e dal 1931 custode del
decalogo, Eligio Morero, farmacista di un piccolo paesino piemontese,
Bricherasio, e che prestato agli alpini fu tra i primi ad alzare la
bandiera a Trento il 3 novembre 1918. Il Gen. Morero, primo
presidente del sodalizio, fraterno amico del nonno Col. Ubaldo
Ingravalle e ”santolo” della madre di chi scrive, venne decorato
della medaglia di bronzo per la sua decisa azione sul Cauriol. Il già
ricordato Capitano Nasci, il cui padre Cesare tra l’altro fu uno
dei fondatori del Corpo degli Alpini, o dello sportivo milanese Ten.
M.O. Caimi. Questi, energico Comandante del plotone esploratori,
aveva selezionato i suoi uomini tra i peggiori elementi del reparto,
tra cui molti contrabbandieri i quali ironicamente spesso gli
ricordavano che “se femo la guerra per slargar il confin, noi
perdemo el mestier !”. Cadde poi combattendo, come sempre da
impetuoso, in piedi sulle trincee di cima Valderoa, alla testa dei
pochi esploratori superstiti. Non potevano mancare dopo il Cauriol e
arruolati quali membri d’onore, anche due artiglieri Moro e
Buonsembiante della batteria da 65, che coadiuvarono così abilmente
l’azione del Cauriol e un altro testimone della spietatezza della
guerra alle alte quote, il futuro cattedratico di geologia Eugenio
Tissi. Questi, anche esperto di scavi minerari, divenne il fautore
della mina del Castelletto sulle Tofane dove con 35 tonnellate di
gelatina disintegrò il presidio austriaco della vetta e ne cambio’
per sempre l’aspetto. Divenne poi disgraziatamente molto più noto,
quando ormai ottantenne, con una sciagurata perizia dette il via
libera all’invaso del Vajont. Completavano l’assetto del
sodalizio il gigantesco cappellano del Feltre don Agostini, noto per
le sue” interazioni vivaci” ma in perenne polemica con Caimi a
causa dei suoi anedotti piccanti e per alcuni disegni attaccati nella
mensa di “…libero soggetto”. Poi il notaio rogante, il
volontario bresciano Tullio Bonardi, ormai distaccato al comando
delle salmerie, e quindi considerato a tutti gli effetti “imboscato”
con gli inevitabili sfottò del caso. E altri ancora : Nino
Reverberi, Barilli, Korner, il bancario Bosio, il Cap. Pedrazzi che
aderendo ai dettami del decalogo, composto di 15 articoli, e non 13
come ovunque riportato, fu così costretto a farsi crescere la barba.
Pur essendo vietate ufficialmente associazioni o gruppi, non mancò
di far visita alle serate della corporazione anche l’addetto al
Comando di raggruppamento Castellini e lo stesso Comandante dell’11°
gruppo Gen. Satta era informato delle insolite adunate.
Schede
– Prima Guerra Mondiale – UNPOPVE -
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