Il Decalogo del vecio can

Mentre aumenta l’interesse per il tragico periodo riguardante, la prima parte del secolo scorso, sempre più spesso riemergono dai bauli, documenti o preziosi cimeli che riportano ad episodi ormai rimossi o perlomeno attutiti dal trascorrere del tempo. E’ anche cosa usuale che testimonianze ormai divenute storiche, siano affidate a chi, nelle speranze dei donatori, siano in grado di tramandare o di conservarle. Probabilmente è grazie a questo motivo che siamo venuti in possesso dopo la scomparsa della moglie, d’alcuni testi di proprietà del Gen. Eligio Morero che riguardavano il primo conflitto mondiale. Tra le pagine di un testo, tra i tanti pubblicati nel primo dopoguerra, espressione di un forte desiderio di divulgare le vicende della guerra italiana, è spuntato un foglio, ingiallito e reso pesante dal lungo oblio. E’ così riemerso un documento certamente minore ma suggestivo dell’epopea degli Alpini nel primo conflitto mondiale, visto poi che numerose citazioni della sua esistenza sono sparse tra la memorialistiche del Corpo di montagna e negli studi specifici in materia. Nel documento con la scrittura elegante e inclinata del tempo, si stigmatizzavano in maniera spesso goliardica, le doti che doveva avere l’Alpino ideale. E’ in pratica un curioso vademecum a cui tutti i firmatari dovevano poi “strettamente” uniformarsi, esso divenne noto come il “Decalogo del vécio can”.
Era una summa varia e divertente, sicuramente contraria in molti articoli a qualsiasi norma di comportamento militare, ma da cui traspariva lo spirito comune della gente di montagna, pratico e assolutamente poco formale. Chi materialmente si occupò di mettere per iscritto le massime, unanimemente stabilite, fu l’eclettico avvocato Angelo Manaresi, come riportato in un inedito scritto dell’allora Capitano Morero, nella baracca del Comando del battaglione “Feltre” aggrappata a 2500 metri di quota. La redazione del singolare documento, il luogo e le circostanze, vengono da tutti gli autori fatti risalire ad uno dei brevi turni di riposo che il Reparto effettuò a fondovalle, anche se testimonianze discordi non ne chiariscono il momento. Per alcuni, dopo la presa di Monte Cima nella primavera del 1916, per altri nell’autunno dello stesso anno, posteriormente quindi, all’episodio che rese celebre il reparto. Il documento certamente originale, redatto su carta intestata del 7° Reggimento Alpini, ha vergato in ultima pagina la dicitura “…Cauriol notte sul 22-7-917” e, pur in parte ormai illeggibili, sono riportate le firme di tutti gli ufficiali promotori, e quindi difficilmente potrebbe essere una copia redatta in un momento successivo. Il “Feltre” era dunque reduce dalle furibonde mischie in trincea e sulle crode, di un fronte aspro e al limite delle sopportazioni umane e recente protagonista dell’impresa che, insieme alla conquista del Monte Nero, l’Ortigara, alla Guerra bianca d’Adamello ebbe allora vasto eco : la presa del Cauriol.
Strategicamente basilare nello schieramento austriaco il Cauriol, della catena del Lagorai sbarrava l’accesso alla Val di Fiemme di Cavalese e Predazzo, e dalla sua cima era quindi possibile controllarne agevolmente i centri, le rotabili e la ferrovia che portava a Trento. Uno sfondamento in quel settore avrebbe potuto significare l’irruzione nella valle dell’Adige poco a sud di Bolzano con conseguenze inimmaginabili per le sorti dell’intera guerra. Al battaglione “Monte Rosa” e alle tre compagnie del btg “Feltre” come supporto, fu affidato nell’estate del 1916 il compito di occuparne l’aguzza vetta dove, e da diverso tempo, gli Austro-ungarici si erano trincerati potenziandone le già notevoli difese naturali. Il Cauriol è, infatti, un’aspra piramide rocciosa, alta 2494 metri, composta di una fascia di boscaglia che si dirada rapidamente su di una roccia prima strapiombante poi alternata da terrazzamenti sino ad una cima aguzza e incombente. La prima impressione che ne ebbero gli Alpini osservandone la vetta da debita distanza, non fu certo delle migliori, visto che il Ten. Manaresi, narrò che molti si chiesero se fosse possibile anche solo scalarla alpinisticamente…
Il battaglione Feltre che aveva gia’ vittoriosamente combattuto in Valsugana, dal 1886 arruolava Alpini provenienti dal Cadore e dalle vicine valli del feltrino, uomini ben decisi dunque, a frapporre il maggior spazio possibile tra gli austriaci e le proprie famiglie. Non mancavano tra loro i veterani della campagna di Libia tra cui il Comandante stesso, il promettente Capitano 28enne, Gabriele Nasci. Ufficiale stimatissimo e feltrino d’adozione, Nasci era praticamente idolatrato dai propri uomini e diverrà noto come valido Comandante prima nella sanguinosa guerra d’Albania e poi dell’intero Corpo d’Armata Alpino in quella gigantesca tagliola che divenne il fronte russo nel 1943.
Il 24 agosto del 1916 proveniente dalle fitte sterpaglie del Col del Latte, gia’ fatto bersaglio dei colpi dell’artiglieria austriaca, il battaglione” Feltre” attraversò il bosco e discese verso campo Laghetti, da qui seguendo la linea di massima pendenza si avviò verso l’aspra cima del Cauriol. Un plotone fu inviato come diversivo ad est verso campo Cupola per disorientare l’avversario che dall’alto dominava accessi e retrovie. Iniziata la salita tra il folto degli alberi, gli Alpini, raggiunsero alle ore14 il margine estremo del bosco in vista del trincerone avversario che fasciava la base della roccia a quota 2100. Nasci inviò inutilmente delle pattuglie verso destra per stabilire un collegamento con il Btg.”Monte Rosa”che lanciato anch’esso verso la cima, trovò e molto più in basso, la via sbarrata da un’enorme parete verticale non indicata dalle mappe ufficiali che notoriamente riportavano “più errori che segni”. Altre due squadre furono spinte in avanti per la necessaria esplorazione del terreno e con il nemmeno tanto velato compito di “saggiare” la consistenza del nemico. Avvenuto il primo contatto e dopo varie scaramucce, gli alpini riuscirono ad irrompere in alcune postazioni che gli avversari sgombrarono rapidamente, ma verso le 17.30, oltre 200 Austriaci scesero dalle trincee superiori. Prima respingono gli italiani e poi tentano di accerchiare le 4 squadre che grazie al rinforzo di un plotone si disimpegnano ma non senza lasciare il primo caduto nella discesa verso il bosco. Durante la notte, che il “Feltre” trascorre all’addiaccio e sotto i colpi provenienti anche dalle pareti sovrastanti, rientra anche il plotone che era stato lasciato sul Col del Latte ora occupato dal “Val Cismon”. Il mattino seguente il battaglione al completo si dispiegava sul costone per l’assalto e nonostante una nebbia insistente è bersagliato con accuratezza dai piccoli calibri di Cima Cupola e forcella Sagole. Alle ore16 viene impartito l’ordine di avanzare, aprono il fuoco dalle retrovie i medi calibri, che non riescono pero’ ad inquadrare con efficacia la prima linea avversaria, validissimo invece l’appoggio dei 4 cannoncini della 5° batteria da montagna posizionati più a ridosso degli Alpini. Alle 17 dal bosco il “Feltre” si lancia all’assalto.
Dopo alterne vicende e violenti corpo a corpo la prima linea di difesa austriaca arretra e viene occupata al calare della notte del 25. Viene raggiunta così anche la selletta a quota 2343 del Cauriol, tagliando così qualsiasi via d’accesso e rifornimento al presidio austriaco della cima. Si scoprì poi, che esso era composto da una compagnia ben equipaggiata con mitragliatrici, lanciabombe e sapientemente difesa nei punti nevralgici, da tenaci fasce di reticolato. Se diventò impossibile per gli austriaci, il tornare in possesso della selletta e ricollegarsi così ai propri reparti, fu ugualmente arduo qualsiasi tentativo del “Feltre” di scalare la cima visto il diluvio d’esplosivi e sassi scagliati dalla soprastante cima 2404. Il plotone esploratori proseguì ugualmente l’ascesa, raggiungendo a mezzanotte le postazioni imperiali e l’intatto doppio ordine di reticolati coronanti la vetta. Nel difficile disimpegno vi lascia 2 caduti e arretra di 150 metri cercando di improvvisare dei ripari coi sassi, mentre l’intero reparto più in basso si trincera nelle posizioni occupate. Si tentò ancora varie volte lungo la notte e con l’aiuto delle bombe a mano di forzare le difese ma ogni tentativo veniva immediatamente rintuzzato. Isolati sotto la cima e allo scoperto, gli alpini furono bersagliati per l’intera notte del 25 dalle soprastanti postazioni austriache e fu per tutti una notte infernale. Il bilancio della seconda giornata fu di 29 feriti, di cui 4 Ufficiali e 6 Alpini morti, ma la situazione, se possibile, peggiorò ulteriormente con la prima luce del 26. Si aggiunsero, infatti, il cadenzato fuoco d’artiglieria che da Cima Cupola li colpiva ormai quasi alle spalle e alcune mitragliatrici che battevano incessantemente l’ala sinistra del reparto. Nel frattempo il Comando di Gruppo si aspettava che l’azione contro la vetta fosse ripresa alle ore 7, ma visto che la cima era avvolta nella nebbia si dovette giocoforza rinunciare. Per l’artiglieria di medio calibro di Forcella magna e i 102 di Val Vanoi era infatti impossibile riuscire a colpire le difese nemiche e aprirne dei varchi. Per l’intera giornata del 26 il reparto dovette dunque resistere in quella scomoda posizione attaccato più volte dagli Jager lungo un cordone morenico con chiaro scopo di liberare il presidio della cima da dove invece, piovevano barilotti esplosivi e bombe a mano provocando un continuo stillicidio di dolorose perdite tra cui gran parte degli ufficiali. Numerosi gli episodi fermati nella memoria dei sopravvissuti: dal ciclopico Ten. Caimi che pur ferito ritornò ai reticolati per riportare indietro l’attendente trascinandolo per i capelli al sergente Balliana che pregava di non avvertire il proprio fratello, anch’egli del Feltre, della perdita delle mani.
Nella tragica mattina seguente quella del 27 agosto, la situazione era chiaramente senza uscita. La scomoda immobilità della giornata precedente, era da sola costata 43 Alpini tra morti e feriti. O si riusciva ad arrivare alla cima o il Battaglione ridotto ormai ad un centinaio di uomini, doveva rientrare sulle posizioni di partenza rendendo vano il sacrificio di tanti. Il pomeriggio, un disertore si consegnò ad una nostra vedetta dimostrando almeno, che attraverso i reticolati ora si poteva passare. Furono distribuite le munizioni tolte ai feriti e ai caduti, segnalate le nuove posizioni alla batteria, stabiliti i percorsi e piantati nuovi chiodi per la scalata, poi Nasci alle 18 dette il segnale d’assalto. S’intensificò il fuoco rabbioso e precisissimo dei soli cannoncini della 5° che tirando da ormai poche centinaia di metri, facendo staccare dalla vetta molti macigni, pericolosi per gli alpini sottostanti ma oltremodo provvidenziali, visto che schiacciavano o strappavano intere matasse di filo spinato. Gli italiani iniziarono ad arrampicarsi sulla roccia incombente e, arrivati ai primi reticolati, ne allargarono i varchi, con le mani e il calcio dei fucili. Con la rabbia dei disperati, in feroci corpo a corpo, scacciarono da una postazione all’altra i difensori che sparavano ormai a bruciapelo, entrambi i contendenti sapevano che arretrare avrebbe sicuramente significato enormi perdite. Caddero in molti, anche Giovanni Scòpel, colpito 5 volte, alpino animoso e ben conosciuto nel reparto anche perché aveva il coraggio di arrampicarsi più lento quando i colpi gli cadevano molto vicino per dare l’illusione al cecchino di avere l’alzo sbagliato. ll fratello Siro cadde anch’esso, solo qualche mese dopo, a difesa delle pendici del Grappa, e a pochi metri di distanza, della casa di famiglia. Alle 19.50 superato l’ultima cengia, due plotoni di Alpini a baionetta innestata irrompono nella trincea che circonda la cima dove il combattimento si spezzetta in una lotta furibonda. A pochi metri dalla cima cade il decimo alpino della giornata, il Sottotenente Carteri della 65° compagnia colpito da una palla alla testa. Gli assaliti, in un ultimo disperato tentativo cercano di scaraventare degli Alpini nelle forre sottostanti, ed è il fatto che determina l’atroce fine di molti degli ultimi difensori. La vetta è ormai presa, giungono a valle le staffette, preannunciate dall’esultanza degli Alpini.
Oltre a copioso materiale bellico cadono nelle mani degli italiani 17 imperiali rastrellati lungo le pendici, ma ben maggiore e l’importanza di aver conquistato la vetta. Piu’ in basso con Alpini divenuti dominanti, gli austriaci arretrano, abbandonando posizioni limitrofe e sottostanti e sgomberano le piazzole d’artiglieria di fondo valle. Dalla cima, splendido osservatorio, gli Alpini vedono gli incendi dei depositi e alla sera magicamente illuminarsi nella valle, le prime luci di Predazzo. Intanto le salmerie del reparto, una compagnia di fanteria e 60 artiglieri provenienti da Capriolo, si fanno sotto la montagna aprendovi un precario sentiero lungo i pendii. Giunti al bosco vennero loro incontro i feriti leggeri che aspettavano di essere evacuati e che invece vollero di persona scaricare i muli e portare ai compagni sulla cima appena conquistata, cibo, caffé, munizioni , ceste di frutta fresca, sciarpe, biglietti. Strategicamente, pur con il reparto esausto dopo la terribile prova, Nasci avrebbe potuto continuare a valle oltre la forcella Sadole trasformando un importante successo in un trionfo, ma la necessità di allestire una pur improvvisata linea di difesa e il timore di dover arretrare da una posizione costata tante perdite fu invece prioritaria per il comando. Fu probabilmente un errore, anche perche’ solo con i rincalzi si sarebbe potuto creare grave scompiglio nelle seconde linee austriache, verso cime e valli che costarono in seguito la sanguinosa distruzione dei migliori reparti. Si preferì, ancora una volta aggrapparsi ad una linea in cresta, proseguendo poi di vetta in vetta in un sanguinoso alternarsi di successi parziali, giudicando ininfluente ogni infiltrazione lungo le valli senza il preventivo e saldo, possesso delle cime. Questo prudente giudizio, fu presto smentito a Caporetto dall’irruzione, proprio a fondovalle, dell’Alpenkorps tedesco e da una serie concatenata di eventi, che misero in bilico l’esito dell’intera guerra e con essa l’unita’ stessa del Paese. Il rammarico dei protagonisti per l’occasione mancata del Cauriol, traspare anche nei pur allineati testi editi all’epoca del regime, ma le decisioni prese erano in realtà lo specchio di una mentalità comune a tutti i livelli dei Comandi Italiani e destinato tra l’altro a perdurare.
L’importanza della quota non era in ogni caso sfuggita ai comandi austriaci che, pur investiti da quel colpo imprevisto, avevano fatto affluire truppe fresche per una reazione immediata e accanita. Gli attacchi furono violentissimi, già quattro nella prima mattina da parte di un battaglione bosniaco che con abili e decisi assalti mise a dura prova le difese della cima appena abbozzate. Nei giorni successivi tutte le artiglierie austriache del settore girarono le proprie bocche da fuoco verso il Cauriol, e come azione di supporto ai continui assalti si aggiunsero anche le devastanti salve dei 305 dai proiettili di 3 quintali di peso, che condussero rapidamente alla tragica conta finale di 300 tra morti e feriti nell’intera azione.
Solo il 1 settembre, quaranta giorni dopo, il Feltre ormai dissanguato abbandonò la cima, lasciandovi una sezione di mitragliatrici Fiat a supporto degli “anziani” richiamati del ”Val Brenta”. Questi, sottoposti al piu’ duro assalto che la vicenda ricordi, furono in pochi giorni letteralmente decimati, e ridiscesero dalla cima dopo un strenua resistenza solamente in 30. Fu la volta poi del ”Monte Rosa” come ricordato dal piemontese, Salvator Gotta che a fondovalle incontrò con emozione gli Alpini della propria terra avviati verso l’insanguinata vetta ”morituri per destinazione”. Ritirandosi a quota 1700, il ”Feltre”, ancora sotto la minaccia del fuoco nemico a solo un’ora di cammino dalla cima, si attendò due giorni e attese l’arrivo dei rimpiazzi dal Cadore, per colmare i paurosi vuoti. Ritornò rapidamente sulla vetta, anche quando era sepolta da 7 metri di neve, alternandosi con il “Val Cismon” per più di 15 mesi e respingendo ogni assalto, sino al drammatico abbandono del 4 novembre 1917 diretto e per primo, ad un’epica difesa 40 chilometri più indietro: il massiccio del Grappa. Gli Alpini del ”Feltre” si ritirarono allora carichi d’angoscia, giunti infatti al vecchio confine, ogni passo che facevano era terra feltrina che veniva abbandonata al nemico, sfilando nei propri paesi, dove anziani, mogli e figli si riversarono drammaticamente nelle strade, si assistette a dolorose scene di dignita’ e di strazio. In quell’occasione l’ormai Maggiore Nasci, stabilito l’ultimo campo a Seren, diede pericolosamente la possibilità ai tanti residenti di raggiungere le proprie case per una notte, e per moltissimi sarà l’ultima, augurandosi di ritrovarli tutti all’adunata del mattino. L’indomani il “Feltre” in ritirata ma a ranghi completi, salì alla montagna di casa, il Grappa, per la difesa disperata dell’ultima trincea, prima della sottostante pianura veneta e della totale catastrofe. Ne ridiscese annichilito un mese dopo senza aver ceduto di un metro ma lasciando sul campo i 4/5 della forza, e dopo aver impiegato nei feroci combattimenti cucinieri, portalettere, tutto il personale sanitario e anche il cappellano.
Rapidamente sul devastato e ormai lontano Cauriol, ritornò invece il silenzio e i caprioli che gli dettero il nome, pian piano franarono le postazioni e il tempo colmò i coni delle esplosioni e la memoria degli uomini di altri tragici avvenimenti.
A valle coloro che “arrivarono ai confini della vita per poi farvi ritorno” ne tramandarono a lungo le vicende nelle veglie in Cadore o nelle miniere della Slesia, dove un paese a tutt’oggi irriconoscente, li spinse ad emigrare. Raramente il racconto del valore e di quel sacrificio fu messo per iscritto dai protagonisti, in un dopoguerra confuso, offesi dal clamore dei soliti imboscati d’italica furbizia, molti preferirono il silenzio dignitoso e la dura ricostruzione dei borghi bruciati. Tra i pochi libri pubblicati, prima del bagno di cieca retorica fascista, resta insuperato Paolo Monelli con il celebre “Le scarpe al sole” forse lo specchio piu’ reale e umano non solo dell’impresa del Cauriol ma dell’intera guerra in montagna e delle umili figure che la combatterono. Gli Ufficiali reduci del primo conflitto, e molti figli degli Alpini del Cauriol ebbero ancora il tempo di mettere “le scarpe al sole” in una sciagurata guerra, nel fango dell’Albania, sulle Alpi francesi o nell’immensa steppa russa. Tra i pochi superstiti di quelle avventate campagne militari ancora Nasci e Morero, che stanchi reduci di 4 conflitti, si spensero dimenticati nel dopoguerra. Poi, nel 1986 anche gli ultimi due testimoni diretti del Cauriol, Alpini di leva del feltrino, raggiunsero i propri compagni.
Sono nel cimitero dei Vanoi, tra i più toccanti dell’intero fronte, vennero sepolti in 800, Italiani, austriaci e 2 tedeschi, a ricordo dell’aspra lotta per mantenere la posizione ed estesasi in seguito alle cime limitrofe del Cardinal e della Busa Alta. Molti di quelli sfuggiti al metodico massacro caddero vittime delle malattie o più spesso delle gigantesche valanghe in un terribile inverno di nevicate record. L’ultimo caduto, un ignoto italiano, dai ghiaioni del Cauriol trovò finalmente pace sui terrazzamenti erbosi di Vanoi solo nel 1929. Gran parte di queste salme furono poi traslate nei giganteschi mausolei celebrativi del dopoguerra fascista ma la raccolta sulla montagna, come altrove, non è in realtà mai terminata. Prossimo il 90° anniversario, certamente più delle pagine scritte, delle lapidi o d’alcune tracce delle imponenti opere di difese, sono ancora le rocce frantumate della cima a testimoniare meglio l’estrema violenza di quei mesi. Anche una mesta canzone Alpina ricorda a tutt’oggi le vicende accadute sul Cauriol, e certamente in modo più reale e sofferto delle celebrative copertine del Beltrame che la illustrarono allora ad un paese distratto e lontano. Nei numerosi testi e studi, non solo nel dopoguerra, si trattò così l’accaduto, con riferimenti epici o marcando il carattere tipicamente alpino della manovra. Essa infatti era, quando ben interpretata, molto diversa dagli inutili assalti che nelle pianure coinvolgevano enormi ondate di combattenti, assai poco dotati di quella convinzione e singola autonomia d’azione indispensabile nella guerra in montagna. L’azione del Cauriol viene infatti ricordata sia per l’impeto e il valore di ogni singolo, che non permisero agli avversari altra possibilità che la fuga ma sopratutto per la perizia e la rapidità di esecuzione, la vetta venne infatti presa con limitate perdite e in poco meno di due ore.
Anni dopo, prima della campagna in Africa Orientale o dalle tragiche esperienze sul fronte Greco-albanese, a memoria di quel valore, il “Feltre” adornò definitivamente il suo distintivo di reparto con il profilo roccioso del Cauriol. Pur sopravvissuto alla falcidia dei reparti alpini del moderno “modello di difesa”, pochi mesi fa, il “Feltre” ha dovuto trasferirsi a Belluno dopo oltre 100 anni di “radicamento” nella città di Feltre, pur ormai in gran parte composto da professionisti provenienti da lontane regioni. Alla cerimonia ufficiale d’addio i moltissimi Alpini feltrini d’ogni età ma con il comune orgoglio delle origini, hanno polemicamente evitato di indossare il tradizionale cappello con la penna nera. Attualmente inquadrati nella brigata “Julia” gli Alpini del Battaglione Feltre, sono custodi delle tradizioni dell’intero 7° Reggimento Alpini, della sua bandiera con ben 13 decorazioni e delle oltre 1100 individuali, in ricordo di guerre da cui 4457 di loro non tornarono.
Tra partite a dama e serate goliardiche in una baracca appesa a 2500 metri di quota il sodalizio “dei Veci can” fece ben presto proseliti. Inizialmente aperto ai vecchi ufficiali del reparto venne ben presto allargato creando un’apposita sottosezione di ”bocia” e tra tutti lo era indiscutibilmente M.O. Vittorio Montiglio che pur non dimostrandoli, aveva poco più di 14 anni. Allo scoppio della guerra europea era infatti in maniera rocambolesca fuggito dal Cile per arruolarsi prima nella territoriale e poi dopo le sue insistenze negli Alpini, il tutto dopo aver piu’ volte falsificato i documenti. Ferito e pluridecorato divenne l’anno seguente, addirittura Tenente degli arditi del “Feltre”. Dopo aver preso il brevetto di pilota, partecipò nel dopoguerra all’impresa Fiumana e dopo aver così vissuto, morì a soli 26 anni in un banale incidente automobilistico. Tra i primi 20 firmatari, molti altri alpini divenuti poi testimoni illustri o caduti in valorosi episodi, spesso ricordati dalle Medaglie d’Oro. E’ il caso degli Irridenti : i trentini, Pernici, Tonini, e Garbari il quale ormai circondato e memore di Cesare Battisti, preferì togliersi la vita per non cadere prigioniero. Il triestino Guido Corsi poeta e letterato, la cui madre per ritorsione al suo arruolamento fu deportata in Austria, e caduto anch’esso sul Valderoa del Grappa nell’estrema difesa del ’17 in ore d’esaltazione eroica o di tacita rassegnazione. Altri ancora come il già citato Ten. Angelo Manaresi che diverrà poi Deputato del Regno, valente narratore e vignettista, e che ricoprì tra le due guerre la carica di Presidente nazionale del X° Reggimento, quello degli Alpini in congedo. Il 9 volte decorato, e dal 1931 custode del decalogo, Eligio Morero, farmacista di un piccolo paesino piemontese, Bricherasio, e che prestato agli alpini fu tra i primi ad alzare la bandiera a Trento il 3 novembre 1918. Il Gen. Morero, primo presidente del sodalizio, fraterno amico del nonno Col. Ubaldo Ingravalle e ”santolo” della madre di chi scrive, venne decorato della medaglia di bronzo per la sua decisa azione sul Cauriol. Il già ricordato Capitano Nasci, il cui padre Cesare tra l’altro fu uno dei fondatori del Corpo degli Alpini, o dello sportivo milanese Ten. M.O. Caimi. Questi, energico Comandante del plotone esploratori, aveva selezionato i suoi uomini tra i peggiori elementi del reparto, tra cui molti contrabbandieri i quali ironicamente spesso gli ricordavano che “se femo la guerra per slargar il confin, noi perdemo el mestier !”. Cadde poi combattendo, come sempre da impetuoso, in piedi sulle trincee di cima Valderoa, alla testa dei pochi esploratori superstiti. Non potevano mancare dopo il Cauriol e arruolati quali membri d’onore, anche due artiglieri Moro e Buonsembiante della batteria da 65, che coadiuvarono così abilmente l’azione del Cauriol e un altro testimone della spietatezza della guerra alle alte quote, il futuro cattedratico di geologia Eugenio Tissi. Questi, anche esperto di scavi minerari, divenne il fautore della mina del Castelletto sulle Tofane dove con 35 tonnellate di gelatina disintegrò il presidio austriaco della vetta e ne cambio’ per sempre l’aspetto. Divenne poi disgraziatamente molto più noto, quando ormai ottantenne, con una sciagurata perizia dette il via libera all’invaso del Vajont. Completavano l’assetto del sodalizio il gigantesco cappellano del Feltre don Agostini, noto per le sue” interazioni vivaci” ma in perenne polemica con Caimi a causa dei suoi anedotti piccanti e per alcuni disegni attaccati nella mensa di “…libero soggetto”. Poi il notaio rogante, il volontario bresciano Tullio Bonardi, ormai distaccato al comando delle salmerie, e quindi considerato a tutti gli effetti “imboscato” con gli inevitabili sfottò del caso. E altri ancora : Nino Reverberi, Barilli, Korner, il bancario Bosio, il Cap. Pedrazzi che aderendo ai dettami del decalogo, composto di 15 articoli, e non 13 come ovunque riportato, fu così costretto a farsi crescere la barba. Pur essendo vietate ufficialmente associazioni o gruppi, non mancò di far visita alle serate della corporazione anche l’addetto al Comando di raggruppamento Castellini e lo stesso Comandante dell’11° gruppo Gen. Satta era informato delle insolite adunate.
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