L’esistenza quotidiana del soldato in trincea nella Grande Guerra
Scesi
dal treno a Monfalcone, appunta Giani nel suo taccuino, i soldati
sono costretti a giornate intere di marcia, attraversando i paesi del
Friuli, per raggiungere i fronti o spostarsi da una zona ad un’altra.
Lo zaino pesante rende il passo grave e provoca un dolore
insopportabile alla schiena, molti, non reggendo più la fatica e con
le piaghe sulle spalle, seminano per strada gli oggetti superflui in
esso contenuti per alleggerirne il peso e continuare il cammino. Il
suolo si riempie così di camicie, spazzole, libri, oggetti non
indispensabili in guerra, ma che hanno un valore affettivo per chi li
possiede ed è costretto a gettarli via. Quando la truppa si ferma
per riposare all’ombra, nei pressi di una fontana, la sete pare
insaziabile, le scarpe premono sulle piaghe dei piedi gonfi e le
gocce di sudore rigano il volto. Non c’è tregua per i soldati, che
terminata la marcia cominciano a scavare trincee. La stanchezza
fisica comincia a farsi sentire, dal momento che gli sforzi bellici
richiesti sono sempre più onerosi e neanche la notte è possibile
riposare, perché gli attacchi nemici si fanno più frequenti o
perché si procede alla costruzione di nuovi reticolati.
All’esaurimento
fisico si accompagna una sfiducia generale nelle sorti della guerra,
che sembra non finire mai e l’esposizione a questo logorio
permanente fa crollare ogni certezza nei soldati. Ciò che più li
disorienta, li sconvolge e li aliena, facendoli sentire
irrimediabilmente lontani da quella che era la loro vita precedente,
è la violenza della guerra che vivono ogni giorno. Questa violenza
si concretizza sia con le nuove tipologie di armi sempre più
sofisticate, in grado di annientare il nemico e infliggergli ferite
mortali, sia nelle condizioni stesse dei soldati, che in trincea
perdono la loro dignità. Vivere in trincea significa trascorrere il
tempo immersi nel fango, spesso dormendo sul terreno perché non ci
sono ricoveri, convivendo con i ratti e i cadaveri putrefatti dei
compagni per i quali non si trova una sepoltura degna.
Quando
il ricovero di Giani viene completamente distrutto da una bomba, lo
scrittore, assieme al fratello, si allontana in cerca di pietre per
rinforzarlo e si accorge che accidentalmente sta camminando sopra a
degli escrementi. La trincea dove vivono, mangiano e si muovono
diventa un letamaio e gli uomini assumono atteggiamenti bestiali,
perché, per il timore di venire colpiti, preferiscono non
allontanarsi ed evacuano accanto al loro ricovero: «da per tutto si
pesta nella merda, che sprigiona un puzzo insopportabile. Non ci sono
latrine, ognuno evacua all’aperto, quanto più può vicino al suo o
al ricovero degli altri; la fretta, per la paura d’esser colpiti,
elimina ogni altro riguardo.
Per
ricostruire le condizioni nelle quali versano i soldati al fronte è
utile fare riferimento
anche al romanzo Ritorneranno di Stuparich. Qui il motivo bellico
vienesviluppato dall’autore con grande abilità e
capacità artistica, attraverso un asciutto realismo, al fine di
riprodurre con obiettività la vita militare nei suoi più diversi
aspetti. Costituiscono un esempio di questo realismo moltissimi
episodi nei quali lo scrittore non rinuncia a descrivere nemmeno i
particolari più macabri e brutali della guerra. Marco, uno dei
fratelli Vidali, camminando, seguito dalla sua compagnia, durante
un’azione bellica, vorrebbe accasciarsi a terra per lo sfinimento,
ma si ritrova invece ad affondare i piedi nei cadaveri putrefatti dei
suoi compagni: «Ma dopo qualche passo, i piedi invece che nel fango,
affondavano nei cadaveri putrefatti; e allora per il ribrezzo, si
sarebbe voluto correre via, superare al più presto quel tratto»89
In quel preciso momento il soldato si sente diviso tra due
sentimenti: il desiderio di fuggire da quell’inferno e lo
schiacciante imperativo di non poter abbandonare la posizione per
nessuna ragione, altrimenti si cade vittime del fuoco nemico.
Nelle
scene di battaglia spiccano dei particolari veramente raccapriccianti
che evidenziano la tragicità degli eventi bellici, accompagnati
dalla costante presenza della morte. Dopo il furore dell’assalto,
l’autore, attraverso gli occhi di Marco, ci descrive una terra
straziata, quasi partecipasse anch’essa al dolore dei soldati,
raggiungendo il culmine della sofferenza. Terminato l’assalto,
anche il cielo sembra preannunciare una tregua con il sorgere del
sole, e in questo tripudio di azzurro si perdono gli occhi di Marco,
ritrovando un po’ di serenità. Questo quadretto di pace viene
subito interrotto, ancora una volta, dalla presenza della morte: la
trincea, il luogo di riparo dei soldati, ospita
ora i cadaveri dei compagni e dei nemici rimasti uccisi durante
l’azione, diventando una fossa comune: «La trincea era piena di
cadaveri che bisognava scavalcare, italiani e austriaci mescolati
insieme: nemici che intrecciavano le gambe fra di loro, che giacevano
capo presso capo; mani gialle, rattrappite, che si afferravano a
spalle avversarie, come per un ultimo disperato soccorso». In questo
passo Stuparich raggiunge un’intensità altissima, mostrando come
la morte operi indistintamente tra i belligeranti, al punto che non
esistono più schieramenti e i corpi si mescolano assieme, cercando
l’uno l’aiuto dell’altro.
Accanto
al resoconto degli avvenimenti bellici, Stuparich pone, a volte per
contrasto, a volte invece creando delle somiglianze, la descrizione
di elementi naturali. La natura gioca infatti una parte importante
nel romanzo, perché contribuisce a delineare un’atmosfera cupa, o
a rasserenare gli animi dei soldati, poiché incarna la vita e
infonde speranza. Questo risulta chiarissimo nel seguente passo, nel
quale Marco, osservando il campo di battaglia, scorge un cespo
d’erba:
«D’improvviso
trasalì: sotto i cavalli di Frisia rugginosi gli parve di vedere un
che di tenero, di sorprendente. Dovette battere le palpebre per
convincersi che non sognava, che la sua non era un’illusa emozione.
Sì, veramente, dal fango della terra, sotto l’orrido filo spinato,
spuntava un tenero verde, un cespo d’erba, brillante nella
pioggia».
Il
giovane triestino contempla il paesaggio con rassegnazione, senza più
speranza, perché ormai il campo di battaglia è diventato una
trincea di morti, ma la natura, viva e brillante, cattura la sua
attenzione suscitando un’emozione incredibile.
I
traumi psichici provocati dal contatto con questa atroce realtà e la
fatica fisica irrimediabile, indeboliscono i soldati tanto da non
avere neppure più la forza di mangiare: «Quegli uomini neppure
mangiavano più: le gavette, abbandonate ai loro piedi, erano ancor
piene della pasta distribuita poche ore prima, le pagnotte non erano
state toccate».93 L’unica cosa che dà loro
sollievo è accasciarsi al suolo e chiudere gli occhi per riposare,
affastellati uno vicino all’altro, con la testa china; essi tentano
di abbandonarsi al sonno invano, poiché la loro mente produce
incessantemente delle immagini spaventose. Questi individui, immersi
nella melma, agli occhi di Marco non appaiono più uomini, «ma bruta
materia impastata di fango». L’uomo in guerra perde ogni sembianza
umana e su questo concetto Stuparich ritorna più volte, sia in
questo romanzo,
sia nel diario Guerra del ’15, facendo uso di diverse espressioni
per indicare sempre
l’abbruttimento che subiscono i soldati. Lo
scrittore ricorre a definizioni del tipo «morti che respirassero»,
«come fantasmi», «povere e fragili ombre» per sottolineare lo
stato di decadenza nel quale versano gli uomini in guerra, soldati,
tenenti o ufficiali che siano, tutti quanti assumono un aspetto
fragile, inconsistente, privato delle fattezze umane e vinto dalla
morte, verso il quale Stuparich spesso mostra un sentimento di pietà.
In
tutto il romanzo si susseguono delle descrizioni molto realistiche
riguardo alle condizioni in cui versano i soldati, che, stremati
dalla fatica, circondati dalla sporcizia e profondamente segnati
dalla sofferenza patita, scendono anche nei dettagli più minuziosi:
«Giacevano,
ora, stremati; le uniformi grigioverdi, ridotte a panni mostruosi,
intrise di mota e impastate d’argilla. Pochi avevano le facce
scoperte; ma quei pochi davano, per tutti, l’impressione delle
sofferenze patite: sembravano morti che respirassero, con le occhiaie
livide e ammaccate, le guance esangui sotto i peli della barba
incolta e sudicia, le bocche aperte. Si capiva che più in là nello
sforzo non sarebbero potuti andare. Tutta la linea pareva giunta
all’esaurimento».
Lo
stile del romanzo, normalmente prosastico, in questi brani raggiunge
un tono molto più energico e reattivo attraverso momenti di cruda
intensità. Per esprimere il carattere drammatico della guerra,
Stuparich cede ad accenti di sbigottimento e a volte di rabbia,
facendo ricorso pure a termini più gergali, che meglio rendono la
verosimiglianza.
L’inestinguibile
sete che puntualmente sopraggiunge. I soldati della brigata Sassari,
guidata dal tenente Lussu, dopo pochi minuti di bombardamento e dopo
aver terminato le scorte di cognac, corrono verso un crepaccio
ricoperto di neve, per poterla mangiare e quindi saziare la loro
sete: «Pochi minuti di bombardamento erano bastati per inaridirci la
bocca, la lingua e la gola, e farci desiderare, follemente, una
goccia che ci dissetasse».100 Escono dal loro posto per prendere un
pugno di neve, sotto le bombe dei nemici, non curandosi della propria
incolumità, tanto è forte l’inaridimento della gola.
Il
vero dramma della guerra, per Lussu, consiste nell’assalto, perciò
nella descrizione di questa azione bellica, attraverso i gesti e le
parole dei personaggi, egli cerca di mettere in luce la più grave
delle conseguenze di questo conflitto: l’annullamento dell’umanità.
L’esposizione prolungata alla violenza comporta dei traumi psichici
non indifferenti nei soldati, i quali passano dall’essere uomini
dotati di ragione e coscienza, all’essere automi che ripetono
sempre gli stessi gesti e le stesse frasi, privati dell’intelligenza
propria dell’essere umano. Bloccati in questa condizione, perdono
la loro identità e si confondono nella massa indistinta
dell’esercito.
Lussu
coglie molto bene questo fenomeno, che evidenzia anche attraverso lo
stile, con la ripetizione di alcune espressioni che rivelano un senso
di smarrimento, tipico di una mente offuscata, annebbiata. Nel bel
mezzo di un assalto, si levano le grida del generale Leone, che per
spronare i suoi uomini, ripete all’impazzata l’ordine «Avanti!»,
producendo un effetto martellante. Similmente, il capitano Bravini,
colpito durante l’assalto, non cessa di gridare «Savoia» per
tutto il tempo dell’azione. Queste frasi che si ripetono
meccanicamente, accentuano l’effetto di stordimento che colpisce
tutti i soldati, incluso l’ufficiale protagonista, il quale, in
mezzo al marasma generale, si dimentica per un attimo di impugnare la
pistola: «Io non avevo la pistola in pugno, ma il bastone da
montagna. Non mi venne in mente d’impugnare la
pistola».L’annebbiamento mentale del protagonista-narratore
risulta ancora più evidente qualche attimo dopo, quando egli scorge
davanti a sé un soldato nemico che lo fissa, ma rimane fermo, come
paralizzato senza fare niente. Il torpore mentale si rivela perciò
anche attraverso i gesti insensati di soldati e ufficiali, che
appaiono privati delle loro facoltà umane, come accade al capitano
dell’undicesima compagnia in uno degli episodi più esemplari. Qui,
infatti, Lussu, attraverso gli atteggiamenti del comandante,
esemplifica al meglio la perdita di coscienza dell’individuo, che
non è più in grado di svolgere le azioni più basilari della vita
militare:
«―
Vili! ― gridava, ― venite avanti, se avete coraggio! Venite!
Venite! […] La mia attenzione fu attirata principalmente dal
capitano della 11ª. […] Era l’elmetto che, con il braccio teso,
egli puntava come una pistola. Ed era la pistola, che scambiandola
per l’elmetto, si sforzava di mettersi in testa. Quanto più i suoi
sforzi riuscivano vani, tanto più si esasperava e gridava. Batteva
la pistola sulla testa, con colpi violenti, e il sangue colava sulla
faccia»
E.
LUSSU, Un anno sull’Altipiano, cit., p. 42.
S.
SALVESTRONI, Emilio Lussu scrittore, p.77.
E.
LUSSU, Un anno sull’Altipiano, cit., p 108.
S.
SALVESTRONI, Emilio Lussu scrittore, cit., p.78
l
comportamento del capitano sembra rasentare quasi la pazzia, egli è
rimasto talmente traumatizzato da ciò che ha vissuto che non è più
capace di distinguere l’elmo dalla pistola. La guerra segna l’uomo
nel profondo, mortificando la dignità umana e questo è ciò che
l’autore cerca di denunciare. La disperazione arriva a un punto
tale che la gioia più grande della guerra è ricevere all’ultimo
momento l’ordine di sospendere un combattimento: «si può essere
coraggiosi finché si vuole, ma fa piacere. Sono questi, lealmente, i
più bei momenti della guerra»
Lussu
crede fermamente nell’uomo e nella vita, la sua visione del mondo
infatti, si basa sull’ideale di umanità, il quale, però, viene
continuamente negato nella tragica realtà della guerra, a tal punto
che egli ne rimane fortemente colpito. Il vero trauma che l’autore
vive nella Grande Guerra è la perdita delle caratteristiche proprie
dell’uomo, determinata dall’arbitrio dei generali o dalla
debolezza interiore.
La
fiducia di Lussu in un ideale di umanità è costantemente
testimoniata nell’opera dal suo atteggiamento di rifiuto verso ogni
tipo di abbandono; egli cerca sempre di rimanere vigile e cosciente,
rifiutando di bere cognac, l’alcolico prediletto al fronte, e non
smettendo mai di pensare. L’esercito italiano deve fronteggiare le
problematiche della diserzione e dell’indisciplina, atteggiamenti
che emergono maggiormente nei momenti di forte tensione o in quelli
di più elevato sforzo fisico, quando i soldati, superata la soglia
della sopportazione, reagiscono con un rifiuto della guerra, venendo
meno al dovere di combattere; proprio questo fenomeno racconta Lussu
nell’episodio dell’aspirante Perini, che giovanissimo
e malaticcio, non avendo mai preso parte a nessun combattimento, si
dà alla fuga nel bel mezzo di un bombardamento, abbandonando i suoi
sottoposti. Gli alti comandi non tengono in considerazione nei loro
piani il morale delle truppe e condannano quindi questi
comportamenti, rispondendo in maniera violenta: quando Perini scappa,
il maggiore grida all’ufficiale protagonista «Tira una fucilata a
quel vigliacco!»; il fuggitivo in questo caso riesce a cavarsela
solo grazie all’ufficiale, che non avendo il coraggio di eseguire
l’ordine, distoglie l’attenzione del maggiore offrendogli del
cognac, essendo egli a conoscenza di questa sua debolezza.
La
quotidianità del soldato si caratterizza specialmente per la
presenza ossessionante della morte, che perseguita gli uomini in
trincea in ogni momento e in ogni azione bellica; in ogni istante si
può essere colti dalla morte, come si è detto, perciò non si è
mai sufficientemente sicuri di trovarsi fuori pericolo e al tempo
stesso, per opposizione, si sviluppa un forte attaccamento alla vita.
L’incontro
più significativo con la morte, per Lussu, non avviene in prima
linea in trincea, ma con la morte del suo più caro amico, il tenente
Avellini, che, feritosi molto gravemente durante un attacco, giace in
un letto dell’ospedale da campo vicino a Croce di Sant’Antonio. È
lo stesso Avellini a esprimere la volontà di vedere Emilio nel
momento in cui si rende conto che le sue condizioni sono disperate e
gli rimane poco tempo da vivere. Questo è forse l’unico capitolo
in tutto il romanzo, nel quale l’autore dedica ampio spazio alle
emozioni e mostra la fragilità di due uomini soli, provati dalla
sofferenza della guerra: non si parla di assalti, non si accenna alla
trincea, l’intero capitolo è costruito sull’ultima conversazione
tra i due, suscitando quasi la commozione nel lettore.
L’impatto
iniziale è piuttosto traumatico, perché la persona che Lussu si
trova di fronte è un’altra rispetto a come se la ricordava: l’uomo
forte e pieno di vita che era prima, adesso appare sfinito, disteso
su un letto con le labbra bianche e pallido come un cadavere, anche
il minimo sforzo lo fa soffrire e il suo volto mostra contrazioni di
dolore ad ogni parola che emette faticosamente. Egli ha chiamato il
suo compagno, perché possa esaudire il suo ultimo desiderio: leggere
una lettera, a lui indirizzata, scritta dalla donna di cui è
innamorato. Lussu viene interrotto più volte nella lettura dalle
lacrime irrefrenabili dell’amico, per l’intensa emozione
suscitata dall’ascolto di quelle dolci parole di donna, che fanno
quasi sembrare «la morte bella» e rivela la sua ultima volontà:
«Io desidero che vada tu, in persona. Dille che il mio ultimo
pensiero è stato per lei. Che io non ho pensato che a lei…Dille
che io muoio felice».
Con
la morte di Avellini e il ferimento del tenente Ottolenghi, le due
personalità più vicine all’ufficiale sardo, nell’animo del
protagonista si fanno spazio la tristezza e la solitudine al punto
che egli afferma: «Vi sono dei momenti, in cui la vita pesa più
dell’attesa della morte».
Possiamo
comunque dire, che generalmente, lo scrittore sardo parla della morte
in trincea come di qualcosa di normale, perché è un avvenimento che
i soldati mettono in conto, in quanto li può cogliere in qualsiasi
momento, senza preavviso. Ciò che invece veramente spaventa è «la
certezza della morte inevitabile», che occupa la mente degli uomini,
negli istanti che precedono un assalto, oscurandone la coscienza.
Anche
in Stuparich, il pensiero della morte emerge ossessivamente, per lo
più, nei momenti di attesa prima di un attacco. Egli fin dai primi
giorni si è reso conto che in guerra prima di tutto si muore: si
combatte, si può vincere o perdere, ma ciò che fin da subito balza
agli occhi è la facilità di incontrare la morte. Lo scrittore ne
discute tante volte con Carlo, tranquillamente, senza paura e con
molta calma, quasi rassegnandosi, ma di fronte a essa non si è mai
preparati quanto si crede: «Ma si ha un bel parlarne spesso, un
credersi preparati per sempre; no, alla morte bisogna riprepararsi
ogni volta. E così, nell’imminenza dell’assalto, ci ripenso, e i
sentimenti che provo sono nuovi, come se la mote mi stesse davanti
per la prima volta». Nei passi in cui Stuparich fa riferimento alla
morte, spesso troviamo anche un appello a Dio, al quale l’uomo
fragile e indifeso si rivolge in quegli istanti che pensa possano
essere gli ultimi. L’animo dello scrittore diventa così il luogo
d’incontro con il divino; la religiosità è un aspetto peculiare
di Stuparich, che difficilmente si riscontra nelle testimonianze di
altri autori e contribuisce a dare un tono pacato e sommesso al
diario, privo di ogni accento accusatorio, proprio perché prevale
sempre la speranza che non «sia stato vano tanto.
Fonti
storiche sulla Prima Guerra Mondiale – Unità di apprendimento
interdisciplinare Università popolare di Mestre

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