Gorizia nella Grande Guerra (1915-16)
Quando
l’Italia si getta nella mischia della Grande Guerra, il 24 maggio
1915, delle 3 città “irredente” (ossia con popolazione a
stragrande maggioranza italiana, ma ancora ricadenti sotto l’Impero
Austro-Ungarico) Gorizia è,
insieme, la più piccola e la più vicina al nostro
confine. Trento dista
infatti 52 km dalle linee italiane e Trieste 45.
Gorizia, solo 14. Adagiata al di là della riva destra del fiume
Isonzo,
la città è però protetta sul versante sinistro del fiume da una
solida linea difensiva austriaca. Questa ha nei monti Sabotino a
nord-ovest della città, Calvario (Podgora,
in sloveno) al centro e San
Michele a
sud-ovest i suoi 3 baluardi ultra-fortificati. Le pendici di questi
monti, disboscate per non offrire alcun riparo agli attaccanti
italiani, sono piene di reticolati. Di questi 3 rilievi, solo il più
a Nord, il Sabotino, coi suoi 609 mt. d’altezza, può definirsi
montagna. Il Podgora e il S.Michele (tra i 200 e i 300 mt.) sono di
fatto colline. Si pensa siano per questo più accessibili, ma è un
errore che costerà migliaia di morti al VI° Corpo d'Armata del
generale Capello.
Così, sbollita l’iniziale euforia per un conflitto ritenuto a
torto breve e poco dispendioso, per tutto il 1915 l’esercito
italiano ammasserà cadaveri sui reticolati del Podgora senza
ottenere sostanziali rettifiche territoriali.
Ininterrottamente
per tutti i 3 anni e mezzo di guerra, Gorizia pagherà il dazio di
essere una città permanentemente in trincea. Perché, al contrario
di altre località investite dalla linea del fronte, quest'ultima non
le scivola sopra una sola volta, togliendola a una nazione e
inglobandola in un'altra, e chi s'è visto s'è visto. No. Qui il
fronte passa in modo non pacifico, né tantomeno rapido, e
soprattutto non si sposta poi lontano per andare a far danni altrove.
Qui passa e ripassa. Due, tre volte... E' Gorizia stessa, in
sostanza, ad essere sempre in prima linea, sia che si trovi occupata
dagli austriaci che dagli italiani. La città subisce così, di volta
in volta, i cannoneggiamenti di chi in quel momento non ha in mano la
città, ma l’assedia dall’esterno (artiglierie italiane prima,
austriache dall’agosto del 1916, di nuovo italiane dopo Caporetto).
Ma andiamo per ordine.
1915:
il 1° anno di guerra
Il
10 giugno 1915, a 2 settimane dalla nostra entrata in guerra, inizia
la prima di tante inutili e dispendiose “spallate” al sistema
difensivo austriaco: la I°
battaglia dell’Isonzo.
Il 35° reggimento fanteria "Pistoia",
l’11° e il 12° subiscono gravi perdite senza riuscire a superare
i reticolati. Dal 5 luglio ci provano la brigata "Re"
ed unità di finanzieri e carabinieri (II°
battaglia dell’Isonzo).
Stavolta lo sfondamento riesce in alcuni punti, ma un immediato
contrattacco austro-ungarico riporta gli italiani sulle posizioni di
partenza. Dal 18 al 27 ottobre (III°
battaglia dell’Isonzo)
sono le brigate "Pistoia"
e "Casale"
ad essere lanciate, ancora senza successo, all'assalto del Podgora.
Giorno 31, dopo una disperata battaglia all’arma bianca e a costo
di gravissime perdite, la "Casale"
conquista alcune linee nemiche che stavolta, nonostante il clima
rigido impedisca ulteriori avanzate, riesce a mantenere. I lenti
progressi italiani sono sin qui costati 10.300 tra morti e feriti.
Con la IV°
battaglia dell'Isonzo (11
novembre) sempre la "Casale" espugna
altre posizioni austriache, ma la cima del Podgora (quota 240),
rimane ancora in loro mani.
1916:
la presa del Sabotino e del Podgora
Arriva
il 1916. A marzo (V°
battaglia dell’Isonzo),
altre migliaia di fanti italiani vanno ad accatastarsi, cadaveri,
lungo le pendici del monte. L’ottusa tattica del generale Cadorna,
che altro non prevede se non inutili e sanguinosi attacchi frontali
contro nemici che godono di posizioni più elevate, armamenti
migliori e di una solida protezione difensiva, oltre al forte
malcontento fra le truppe, inizia ora a destare forti perplessità
anche in seno sia al governo italiano che fra gli stati maggiori dei
paesi alleati. Tuttavia, Cadorna resta ancora in sella e gode di un
inaspettato regalo: l’immenso armamentario perso dagli austriaci
sul fronte trentino a seguito del famoso, fallito attacco di luglio
alle linee italiane (“Strapexpedition”).
Armi e mezzi che vengono subito spostati sul fronte dell’Isonzo.
Fra essi, le famose “bombarde”,
micidiali armi austriache da volgere, stavolta, contro gli stessi
reticolati austriaci che difendono Gorizia, fino ad allora
impenetrabili alle fanterie italiane. Così, “la
mattina del 5 di agosto –
come dirà poi la più celebre canzone antimilitarista della Grande
Guerra – si
muovevano le truppe italiane / per Gorizia e le terre lontane / e
dolente ognun si partì…”.
Inizia la VI°
battaglia dell'Isonzo.
A metà pomeriggio del 6, il Sabotino è finalmente conquistato dalle
nostre fanterie (brigate “Toscana”,
“Abruzzi” e “Treviso”),
che fino a sera stanano dalle caverne i presidi austriaci ancora non
arresisi. E’ stavolta un’azione fulminea, impetuosa, militarmente
impeccabile, che a Gabriele
D’Annunzio ispira
il famoso verso: “Fu
come l’ala che non lascia impronte: / il primo grido avea già
preso il monte”.
Meno rapide, ma contestuali ed egualmente risolutive, sono la presa
dell’abitato di Oslavia e
l’avanzata sulla vetta del Podgora: la brigata “Casale”
fatica a progredire verso la cresta, mentre in pianura la “Pavia”
è fermata prima del sottopasso ferroviario del ponte sull’Isonzo.
Dopo i continui attacchi e contrattacchi di giorno 7, la mattina
dell’8 finalmente la “Pavia”,
a seguito del colpo di mano del sottotenente Aurelio
Baruzzi di
cui parleremo, sfonda la linea dei sottopassi ferroviari, sbucando
dietro il Podgora. L’improvvisa apparizione degli italiani alle
spalle disorienta la 58ª divisione austriaca che presidia ancora la
vetta, che presa tra due fuochi finisce così travolta dalle
brigate “Pavia”,
“Cuneo” e
dall’11° e 12° della “Casale”.
Il Podgora è finalmente italiano, e da quota 240 i fanti del 12°
reggimento “Casale”
hanno per la prima volta davanti gli occhi Gorizia, al di là del
fiume, con le sue case bianche, le sue chiese e i suoi campanili. Su
quest’altura sarà poi inaugurato, nel 1920, un obelisco in ricordo
di tutti i soldati caduti in 14 mesi di duri scontri. Intanto, dei
18.000 austriaci presenti in zona a inizio agosto, solo 5.000
raggiungono Gorizia in ritirata, facendo saltare nella notte tra il 7
e l’8 tutti i ponti dell’Isonzo tranne quello di Salcano,
peraltro subito dopo riattivato dai genieri italiani.
L’impresa
di Aurelio Baruzzi
Baruzzi,
si diceva. Presi il Sabotino e il Podgora, il sottotenente e il suo
reparto della “Pavia”
sono i primi che il giorno 7 si avvicinano all’Isonzo, al di là
del quale c’è Gorizia. Ma tra loro e Gorizia e il fiume, nel punto
difeso da meno forze nemiche, c’è uno sbarramento: il sottopasso
ferroviario sulla strada di Lucinino. Aggirarlo non si può: gli
austriaci, asserragliati nelle case sia al qua che al di là del
fiume, sparano rabbiosamente e all’impazzata. Sanno che a breve
dovranno ripiegare anche da lì e danno fondo a tutto il loro residuo
di munizioni. All’alba dell’8
agosto,
Baruzzi ottiene dal suo comandante 4 uomini, con loro giunge di
soppiatto all’imbocco del sottopassaggio e, sbucato fuori dal
nulla, punta la pistola contro un allibito ufficiale austriaco fuori
il sottopasso. Il fattore sorpresa dà i suoi frutti: il piano, tanto
banale ed elementare da non venire preso in considerazione dagli
austriaci, riesce invece perfettamente. Gli austriaci si aspettano un
attacco in forze, che sarebbero inevitabilmente avvistate e
contrastate per tempo. Quale pazzo andrebbe incontro a morte certa
nel tentativo di arrivare da solo lì, a quell’imboccatura? E
invece il pazzo che non t’aspetti c’è, ha nome e cognome
(Aurelio Baruzzi) e mentre tiene a tiro l’ufficiale austriaco,
provvede ad isolare subito il telefono da campo, mentre uno dei suoi
4 uomini corre indietro a chiamare rinforzi. Per quanto surreale e
paradossale possa apparire, per 20 interminabili minuti un
sottotenente con soli 3 fanti riesce a tenere sotto scacco, con le
armi spianate, 150 austriaci rintanati dentro il sottopasso. Nella
situazione che s'è venuta a creare, non conta la superiorità
numerica, ma la condizione in cui ci si trova rispetto al nemico,
ossia il fatto di avere il grilletto pronto a far fuoco contro chi,
preso alla sprovvista, non ha la sua arma in mano e immediatamente
pronta a reagire. Nessuno degli austriaci, infatti, se la sente a
mettere per primo la testa fuori il sottopasso: significherebbe
farsela saltar via da un colpo di rivoltella ravvicinato. Nel
frattempo, mentre le pallottole austriache ancora piovono incessanti
dai due lati del fiume, si precipitano al sottopasso altre unità
della “Pavia”.
Gli austriaci, ancora attoniti, sono fatti prigionieri, ma l’impresa
di Baruzzi non è ancora finita. Salito sopra il sottopasso liberato
(che oggi porta il suo nome), fa sventolare un drappo tricolore del
suo reparto. Ringalluzziti da tale visione, dalla dorsale del Podgora
appena conquistato scendono a precipizio i fanti della “Casale”
e di altre unità lì presenti, che possono così ricongiungersi a
quelli della “Pavia”.
La commozione è forte: quel sottopasso in mano italiana significa
strada per Gorizia praticamente aperta.
Gorizia
(momentaneamente) italiana
E’
così che, senza attendere che i genieri gettino passerelle o
ripristino i ponti distrutti, intorno alle ore 15.00 (sempre dell’8
agosto) circa 200 fanti di entrambe le brigate, alla testa del solito
Baruzzi, guadano a nuoto l’Isonzo, e nel tardo pomeriggio entrano
per prime a Gorizia, dalla periferia meridionale della città,
scambiandosi fucilate con le retroguardie austriache in ritirata man
mano che risalgono sia la via principale della città (corso
Francesco Giuseppe, più tardi ribattezzato Corso Italia), via
dell'Usina (odierna via IX Agosto), via Tre Re (odierna via XXIV
Maggio) e via Alvarez (oggi via Diaz). Alle 17.00, mentre il
bombardamento sulla città continua e grossi proiettili d’artiglieria
fanno crollare il tetto del duomo, un fonogramma annuncia che "i
nostri sono a Gorizia".
Dalla mattina, i soldati austriaci e i dipendenti comunali e civili
più compromessi o legati all’amministrazione austriaca hanno
iniziato l’evacuazione della città, che si riduce ora a 3.500
civili. Nelle cantine del municipio si rifugiano donne, bambini,
impiegati, anziani feriti, che passeranno lì la notte, mentre alcuni
edifici della città sono avvolte dalle fiamme. Intorno alle 19.00
cessano gli spari in città, e il sottotenente Baruzzi (sempre lui)
issa sull’edificio della stazione ferroviaria meridionale della
città il primo tricolore (una targa ancor oggi ricorda il gesto, per
il quale l’indomani viene decorato dal Duca
d’Aosta in
persona con medaglia d’oro al valor militare). Il grosso delle
truppe italiane entra in città la mattina seguente, giorno 9, coi
ponti sull'Isonzo ripristinati dai nostri genieri e con in testa gli
squadroni di cavalleria. Subito i combattimenti si spostano ad Est
della città conquistata, nell’inseguimento da parte di bersaglieri
e cavalleggeri degli austriaci in ritirata.
Intorno
alle 7.00 del 9
agosto,
tricolori ai balconi e fiori donati da molti filo-italiani usciti
dopo mesi finalmente allo scoperto dai loro nascondigli per evitare
l'arruolamento nelle fila austriache o l'internamento, accolgono le
nostre truppe in centro e nel palazzo comunale. Piazza Grande, la
principale della città, è ribattezzata Piazza Vittoria ed il
"Corriere
della Sera"
esce in edizione speciale per celebrare l’evento. La propaganda
filo-interventista e irredentista descriverà l’entrata dei fanti
italiani a Gorizia fra il giubilo corale di tutta la popolazione. Non
è così. L’entrata, come documentano alcune foto di quella mattina
e le testimonianze dei reduci, avviene in una città
semi-abbandonata. Case chiuse, strade vuote, piene di sassi, rottami
e calcinacci ovunque. La popolazione è ancora tappata in casa, per
giunta divisa (come sempre avviene in questi casi) fra chi è in
preda all’ansia e alla paura per l’arrivo dei nuovi occupanti che
considera ancora nemici, e chi invece (soprattutto gli irredentisti)
vede in essi i “liberatori” e li attende con trepidazione e
grandi aspettative. Ma che per prudenza uscirà allo scoperto solo
l’indomani. In mezzo, c’è sempre l’immancabile aliquota di
voltagabbana, lesta a cambiar casacca e accodarsi al vincitore di
turno nelle ore del “ribaltòn”.
Entro sera, i prigionieri austriaci salgono a 8.000 e la presa di
Gorizia desta grande commozione in tutto il paese. Benché arrivata
dopo ben 15 mesi di aspri combattimenti e pagando un tributo di
sangue immane, la notizia riabilita il nostro esercito agli occhi dei
paesi alleati. E’ il primo, vero successo italiano dall’inizio
delle ostilità: le quotazioni di Cadorna risalgono di colpo, e fino
alla disfatta di Caporetto dell’anno successivo il generale resterà
in sella.
Vittorio
Emanuele III visita Gorizia
Il 10
agosto la
città è ufficialmente consegnata al maggiore dei
carabinieri Giovanni
Sestilli,
che ne assume la reggenza e ai cui ordini vengono posti i pochi
pompieri goriziani rimasti in città e i primi fanti della III
Armata. È così possibile ripristinare l'acquedotto dell'Isonzo,
l’ospedale, spegnere gli incendi che ancora divampano in città e
far affluire medicine, derrate alimentari e altri generi di prima
necessità per i goriziani più stremati. La visita, giorno 20,
nientemeno che del re Vittorio
Emanuele III vuol
essere un segnale esplicito ad una città che si illude, lentamente,
di avviarsi a una normalità e una pace che non avrà per ancora più
di 2 lunghissimi anni. I morti italiani di questi giorni vengono
sepolti nel fondo Fogar, che prende il nome di Cimitero
degli Eroi.
Cominciano, nel frattempo, i rabbiosi bombardamenti degli austriaci
sloggiati da Gorizia ma già riorganizzatisi e fortificatisi sui
primi altipiani carsici, poco più ad Est e dunque non molto lontano
dalla città. La guerra, insomma, per Gorizia continua. Alle quasi
21.000 vite umane già sacrificate in nome di essa nelle tattiche
perlopiù scellerate di Cadorna, se ne aggiungeranno ancora altre,
seppur in numero fortunatamente più ridotto. E l’appellativo di
“città
maledetta”,
con cui la celebre canzone la consegnerà alla storia, sarà per
Gorizia quanto mai calzante.

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