Vivere con la morte

Monte Seibusi (GO) 1916
Ricordo che una sera d’estate stavo sdraiato sul declivio di una dolina, in prossimità della prima linea, e con la mano destra smuovevo la terra; liberavo dei sassolini che gettavo via per poi continuare in quell’azione quasi inconscia per ingannare il tempo. Ad un certo punto dello scavo mi sembrò che affiorasse un sasso di maggiori proporzioni: continuai il lavoro di isolamento e mi resi conto che aumentava di proporzioni. Allora mi sollevai, guardai e constatai che quello che scavavo non era un sasso, ma la punta di una scarpa di un morto seppellito a poca profondità: era sotto di me. Allora raccolsi tutta le terra smossa, ricoprii la scarpa e non disturbai più il suo sonno eterno.
 Un’altra volta mi trovavo sul declivio della dolina Veneziana, forse una delle più grandi e più profonde. In un punto del suo perimetro la dolina faceva parte delle prima linea. La trincea che si innestava alla dolina, a sinistra guardando il fronte, una volta era appartenuta al nemico: ne era stato scacciato da tante cannonate che l’avevano riempita a metà di terra. I soldati italiani quando la conquistarono la riattarono un po’ e vi eressero un parapetto protettivo di sacchetti di terra.
Appunto nell’epoca nella quale mi ci trovavo io, il Comando ordinò alla squadra zappatori di togliere dalla trincea la terra fattavi cadere dalle cannonate e riportarla al primitivo livello. Nel corso di questa operazione, sotto la terra furono trovati i corpi semi putrefatti di soldati nemici che le nostre cannonate avevano uccisi e seppelliti in un colpo solo. Quei corpi, ormai privi di forza di coesione, venivano estratti a pezzi, caricati su barelle, portati in fondo alla dolina e gettati in una fossa comune. Io ed i miei commilitoni, seduti sul declivio della dolina, assistevamo a quell’operazione indifferenti e muti. Ricordo anzi che un giorno il getto nella fossa comune di quei miseri resti mortali, avvenne mentre noi si consumava il rancio, una gavetta di riso poggiata sulle ginocchia, senza provare alcuna particolare emozione.
Com’erano lontani i tempi quando, appena un anno prima, l’11 giugno 1915, alcune cannonate e la vista di qualche tumulo di terra fresca ed alcune croci, ci avevano sconvolto la mente!
L’artiglieria nemica batteva le nostre trincee e le posizioni immediatamente retrostanti con piccoli e medi calibri, mentre i cannoni a lunga gittata battevano di regola le strade della pianura ed i ponti sull’Isonzo, ma qualche volta, per errore o per deliberata volontà, quei proiettili cadevano non molto lontani dalle linee. Una volta vidi in un bosco poco lontano da Castelnuovo l’effetto disastroso di un proiettile da 420, il famoso 420 che era il più grosso calibro dell’epoca. Il proiettile aveva preso d’infilata una baracca rettangolare di legno, nella quale dormivano una settantina di soldati. Della baracca e dei soldati non fu ritrovato nulla o quasi: al posto della baracca rimase solo una gran buca e qualche tavola perimetrale rasente a terra.
Guido Alunno Militare, Regia Guardia di Finanza, XX battaglione Regia Guardia di Finanza, XII battaglione Regia Guardia di Finanza, finanziere

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