Morte e dimensione del lutto
La morte di ogni soldato non porta unicamente alla fine della vita di
una persona, ma lascia con se uno strascico di dolore estremo e
difficilmente misurabile. A questo noi diamo il semplice nome di
lutto. “E’ come se questi morti in “grigioverde”
continuassero ad aggirarsi inquieti, impedendo alla mente di volgersi
altrove.” Se si considera il lutto solamente attraverso dati
ufficiali, che comunque risultano incompleti e imprecisi, si può
affermare come fosse un trauma che riguardò un numero si alto, ma
limitato di soggetti: il 30% dei caduti in guerra resero vedova la
propria moglie. Estrapolando questi dati e considerando una media di
due figli per donna, Jay Winter ha sostenuto che ci fossero
all’incirca seimilioni di orfani distribuiti nel territorio
europeo. Analizzando gli ascendenti diretti in lutto invece, ovvero i
genitori dei caduti, si scopre che in Francia, dove i dati sono i più
soddisfacenti, 1.300.000 padri e madri persero un figlio in
battaglia. Risulta più utile e soddisfacente invece di usare dei
dati numerici, che danno un immagine falsata e fredda del trauma,
vedere questo evento tramite le cerchie di lutto. Attraverso le
cerchie, pur non avendo dati numerici, si riescono a ricomprendere al
suo interno un numero più vasto di persone che si trovarono
realmente coinvolte nel lutto e che, non necessariamente, come invece
avviene con le statistiche ufficiali, riguarda i soli parenti. Un
primo rapporto (anche se spesso è inseribile in quelli della terza
cerchia) è quello dei compagni che assistono alla morte di un
proprio amico in battaglia. Oltre al trauma personale di veder
sparire una persona cara essi si sentono in debito di riconoscenza
verso il caduto. Frequenti sono i casi in cui gli scampati si mettono
in contatto, a volte addirittura incontrandosi con i familiari delle
vittime (in alcuni casi con pessimi risultati) per rassicurarli,
ricordare il caduto o semplicemente per comunicargli la morte del
parente. Spesso questa consuetudine divenne una necessità della
guerra: infatti la mancanza di medagliette metalliche per il
riconoscimento rendeva utile conoscere qualcuno che si accorgesse
della propria scomparsa e conosca i giusti recapiti per farlo sapere
ai propri cari.
“Tutti ci davamo l’indirizzo uno con l’altro dicevamo, se muoio
io tu scrivi ai miei cari la mia sorte, se muori tu scrivo io,
risponde l’altro e se morissimo tutti e due? Pazienza.“
Non bisogna però considerare questi atti unicamente come gesti
utilitaristici. I rapporti, che si sviluppavano nelle trincee tra gli
uomini, e la comunione di dolore nel vivere in condizioni così
pericolose portavano alla costruzione di legami intensi, solidi e
continuamente ricordati in qualsiasi libro di memorie. Il cameratismo
di guerra, pur se spesso astratto e limitato a particolari momenti, è
stato uno dei temi su cui molti reduci hanno cercato di trovare un
perché o un fine ad una guerra, che fondamentale, non ne aveva.
“Era naturale che degli ex soldati sentissero una speciale
responsabilità verso i commilitoni caduti, responsabilità
manifestata occupandosi delle sepolture spesso improvvisate sul campo
di battaglia, e con le commemorazioni del loro sacrificio negli anni
seguenti, L’impegno a non dimenticare le tombe dei caduti
dichiarato esplicitamente nei giornali di trincea francesi, veniva
onorato anni dopo il fronte ai monumenti eretti nei paesi d’origine.”
Considerato questo primo rapporto si può definire allora quale sia
la prima cerchia. In genere è quella più colpita dal lutto e
comprende i parenti più vicini quali: genitori, fratelli e sorelle,
figli, moglie, e nonni. Se l’estensione del numero di orfani e
vedove sono stato già discussi, non altrettanto è stato fatto per
quanto riguarda i genitori e i nonni. Per i primi lo shock della
morte dei figli fu spesso fatale soprattutto per quel senso di colpa
di non esser stati in grado di proteggerli né tantomeno di averli
potuti vedere un ultima volta. Molti personaggi, anche famosi come lo
scrittore Kipling o il grande sociologo francese Durkheim, furono
fortemente sconvolti dalla morte dei figli: il primo per anni
continuò a non riconoscere la sua morte considerandolo disperso, il
secondo morì dal dolore nel 1917 per la perdita del suo unico
ragazzo sul fronte balcanico. “Con lui, noi seppelliamo le nostre
speranze, le nostre esigenze, le nostre gioie, non ci lasciamo
consolare e ci rifiutiamo di sostituire colui che abbiamo perso.
Altro caso particolarmente famoso di un personaggio che dedicò la
propria vita al ricordo del proprio figlio è quella dell’artista
Kollwitz, già famosa prima della guerra. Dopo averlo perso appena
diciottenne sul fronte tedesco subì uno shock profondo e che,
secondo le sue stesse parole, aprì: “nelle nostre vite una ferita
che non guarirà mai. E non dovrà mai guarire”. Il ricordo
incessante del figlio l’accompagnò per tutta la vita, fino a
portarla a realizzare quella che forse è la sua opera più grande,
una statua nel cimitero di guerra di Vladslo, dove è raffigurata la
figura di due genitori mentre piangono il figlio perduto. Il tempo di
realizzazione durò diciotto anni. Solo questo basta a far capire
come l’evoluzione e il dolore del lutto non si fermasse a
tempistiche prestabilite, ma continuasse a riemergere continuamente
nelle persone colpite. In particolare i genitori anziani e ancora di
più i nonni subirono dei forti colpi nell’accettare la scomparsa
dei propri figli e nipoti, e spesso non riuscirono a superare la
prova, appare infatti difficile spiegare la sovrammortalità degli
individui anziani unicamente tramite le cause della guerra, ed è
anzi plausibile accettare che molti si fossero lasciati morire per il
dolore oppure che quest’ultimo abbia accelerato il loro decesso.
“Occorre dunque, per dare una spiegazione soddisfacente ad un
simile fenomeno, appellarsi allo shock psicologico indotto dalla
sofferenza tra i più anziani, soprattutto tra i nonni. “
La seconda cerchia invece include quella che i demografi hanno
chiamato la “famiglia ristretta” comprendente zii, nipoti,
cugini, cognati. Il rapporto tra quest’ultimi non è da
sottovalutare, in quanto soprattutto con questo genere di familiari i
soldati al fronte raccontavano con le lettere la verità sulla
guerra, che invece nascondevano ai parenti più stretti, inoltre in
società rurali, come era quella italiana o francese, i rapporti tra
parenti erano stretti da legami più intensi. “La guerra fece a
pezzi le famiglie, provocando un flusso ininterrotto di separazioni e
perdite che nulla poté fermare”.
Una terza cerchia, quella della “famiglia lontana” comprende
amici e amiche. E’ impossibile rintracciare chi fosse appartenente
a questo settore, anche perché ovviamente non esistono dati
ufficiali in merito, ma è naturale capire come il rapporto di
amicizia sia un legame più intenso e spesso più sentito di quello
con alcuni familiari, ed è perciò immaginabile il dolore provato da
quelli che sopravvissero. Riprendendo quindi i dati iniziali e
estendendoli a quelli ricavati dagli studi basati sulla cerchia di
lutto, si può ben immaginare come in realtà un intera società
fosse in lutto, l’intera cultura europea era pervasa dal ricordo
dei caduti in maniera più o meno diretta e necessitava di qualche
valvola di sfogo, di qualcosa che potesse esplicare il dolore
interiorizzato. Ciò si espresse soprattutto attraverso il ricordo
funerario dalle piccole tombe fatte dalla famiglie, ma anche e
soprattutto dai grandi monumenti realizzati dalle nazioni, le quali
si fecero portatrici della necessità della memoria.
“Un intera società è stata probabilmente in lutto, così da
formare una “comunità di lutto”, da cui è stata del tutto
risparmiata una minoranza dei suoi membri”.
Attività
didattica “La Guerra addosso. Conseguenze della Prima Guerra
Mondiale, didattica della storia Università popolare di Mestre (VE)

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