L'erba posso

Questa domanda in particolare ci aiuta a entrare nel cuore del problema. Per quale motivo stai praticando il Buddismo? Perché devi, perché vuoi o perché puoi? Qualche anno fa venne pubblicato su questo giornale il memorabile articolo dell'"erba posso" che con una metafora "botanica", prendendo ispirazione dal famoso proverbio: «L'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re», ci presentava una serie di vegetali: "l'erba devo" con la sua variante strisciante detta "erba del senso di colpa"; l'"erba voglio", coltivata dalle persone "di testa", che usano la forza della volontà razionale come motore della vita salvo poi... bucare la gomma al primo chiodo che il karma piazza sulla strada; infine "l'erba posso" dove questo posso è un «scelgo di fare, è una mia libera decisione, è un mio diritto, e allo stesso tempo è un "sono in grado di farlo, ho la capacità, ho la possibilità di farlo perché sono vivo, ho la potenzialità di realizzarlo perché sono un Budda» (NR, 189, 6). Questo potere è il termine riki di Nyo ze riki che noi ripetiamo sei volte al giorno, mattina e sera, quando leggiamo per tre volte i dieci fattori, al termine del capitolo "Espedienti" (Hoben) di Gongyo. Riki è il potere interno alla persona, che solo noi possiamo usare. Oppure non usare. Quando si pratica inserendo il "pilota automatico" senza rideterminare ogni giorno di adempiere alla propria missione di Bo­dhi­sattva della Terra e pensando che per il semplice fatto di ripetere la frase come una formula magica si sarà protetti, si colloca ancora una volta fuori di sé il proprio potere. Ciò equivale a usare il Gohonzon come un talismano portafortuna. Allora, se attribuiamo il potere di farci felici alle cose o alle persone intorno a noi, succederà che questo potere non si attiva, semplicemente perché non c'è. Non funziona e non succede nulla. E di qui inizia il dubbio. Se si deve allora non si vuole, e se non si vuole, non si può.
La cura per guarire
Fatto il test, una volta che ci si è accorti che l'atteggiamento con cui si pratica è timbrare il cartellino, come si fa per guarire? Partiamo dall'inizio: dicevamo che quando si ha un bel guaio da risolvere si pratica come quando si cerca l'acqua nel deserto. Si pratica sul serio per la vita, propria o di qualcuno che ci sta a cuore e si è determinati e sinceri. Il senso del dovere arriva quando ci sembra che tutto vada abbastanza bene, che non ci manchi nulla. Come se quello che abbiamo lo avessimo per sempre e ci dimenticassimo del principio primo della vita, che si rivelò a Shakyamuni duemilacinquecento anni fa: che tutto è impermanente. In pratica, quando diamo per scontato quello che abbiamo. Quindi la prima medicina è una parola: grazie. Prendiamo un pezzo di carta, scriviamo questa parola e imprimiamola nella nostra vita. Poi ci verrà in mente perché dire grazie, ognuno di noi si accorgerà delle innumerevoli cose per cui dire grazie alla vita. Poco a poco da questo senso di gratitudine nascerà spontaneamente una preghiera più sincera, lo stato vitale si alzerà e si uscirà dal momento di stallo. Si avrà voglia di condividere questo sentimento di riconoscenza con gli altri, magari domani quando andremo a fare Gongyo da un compagno di fede, riscoprendo la nostra missione di bodhisattva. È il primo passo, il passo del coraggio. Anche il presidente Ikeda ce lo dice: «La distanza tra zero e uno è molto più grande di quella tra uno e cento. Nel Gosho si legge "Anche un viaggio di mille miglia inizia da un primo passo". Perciò il primo passo è veramente importante» (BS, 121, 1). In questo modo, per noi rigidi soldatini dell'obbedienza, il grande allenamento alla disciplina e allo sforzo che abbiamo sviluppato in nome del senso del dovere, tornerà utile e si trasformerà in determinazione e tenacia. La nostra rivoluzione umana sarà invertire la direzione verso cui andava tutta questa energia e indirizzarla, anziché verso la ripetizione di una vita fatta con lo stampino, verso la creazione di una nuova vita "fatta a mano". 
NR 374 (ULTIMA PARTE)

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