La trincea come “casa”del soldato”

In tutta l’Europa i combattenti, milioni di giovani, vennero sottoposti alla crudele scuola di vita della trincea, senza distinzione di Esercito. Il soldato, infatti, viveva sprofondato in questo scavo lungo e stretto che era la trincea, dalle pareti così alte da consentirgli solo la vista di uno spicchio di cielo, anche perché alzare la testa oltre il ciglio dello scavo voleva spesso dire rischiare di essere ferito o, peggio ancora, morire. Solo la feritoia consentiva un rapido sguardo a quella terra di nessuno compresa tra le due linee e lo spettacolo, il più delle volte, era un terreno tetro, brullo, rotto solo dai tiri d’artiglieria e cosparso degli oggetti più vari. Dalla vicenda della feritoia 14 del racconto del Capitano Emilio Lussu (1): «...La vista era consentita solo per pochi attimi, infatti, non appena il cecchino avversario si accorgeva che qualcuno utilizzava la feritoia partiva un preciso colpo di fucile contro il coraggioso che stava osservando il campo di battaglia...». Padre Agostino Gemelli (2), Cappellano militare e psicologo, così descrive la vita di trincea:
«...il cannone ha distrutto ogni germe di vegetazione; tra la propria trincea e quella nemica non vi è che un tratto di terreno sconvolto, più o meno ampio, di là e di qua i reticolati, paletti contorti, qualche straccio che il vento agita goffamente. È un deserto. Non un movimento. Gli osservatori, le vedette, conoscono il terreno punto a punto, in ogni minuzia. Un ramo d’albero smosso, una palata di terra fresca, un sasso cambiato di posto sono avvertiti come novità...» (3). L’indifferenza e la depressione furono le reazioni più comuni alla situazione contingente.
Per tutta la lunghezza e la profondità della linea, in qualsivoglia momento del giorno e della notte, la presenza costante della morte era una sensazione viva e palpabile chesi manifestava improvvisamente con la perdita di un compagno o più semplicemente osservando il campo di battaglia, costantemente cosparso di caduti insepolti, rimasti là dove la morte li aveva colti, che si putrefacevano lentamente. Nemmeno la notte, il riposo recava ristoro, seppur transitorio, al combattente poiché era questo il momento in cui aumentava la possibilità di un attacco di sorpresa e quindi la possibilità di non trovare scampo. Pertanto anche di notte l’attività del soldato continuava incessante così come la costante sorveglianza del terreno e l’attenzione a qualsiasi rumore. Quasi sempre di notte i reparti distaccavano pattuglie che avevano il compito di riconoscere l’andamento delle linee nemiche, studiarne lo sviluppo, le postazioni delle armi automatiche, gli effetti del tiro sui reticolati e quant’altro. Durante il giorno, invece, venivano eseguiti i lavori di rafforzamento delle linee che dovevano servire alla difesa della postazione Scriveva il Generale Capello che «...da noi nelle prime linee il soldato doveva fare tutti i mestieri, il combattente, il terrazziere, il portatore, ecc. Il nostro fante in trincea non aveva requie né di giorno né di notte e nella molteplice e pesante attività che senza tregua gli veniva imposta si esauriva e rendeva poco...» (4). Una condizione così pesante portava il soldato a uno stato di depressione che si manifestava prima di tutto con la scarsa cura della propria persona, l’indifferenza e il blocco dell’attività intellettuale. Questa situazione tendeva a collettivizzarsi. Si arrivò al punto che i fanti accettarono passivamente di vivere promiscuamente in mezzo ai cadaveri dei compagni deceduti. La trincea, dunque, era recepita come un «...involucro di indifferenza...» (5) e vissuta da molti Comandanti come più importante rispetto alle vicende umane che si creavano all’interno di quello scavo fortificato.
divennero permanenti anche a causa delle continue indispensabili opere di riattamento della linea quasi quotidianamente danneggiata dal tiro nemico. Ogni decisione riguardante mansioni, postazioni, turni di servizio e perfino quantità e qualità del rancio erano prese da altri per il combattente. Come in qualunque comunità, e a maggior ragione in caso di guerra, la vita della truppa era regolata da una rigida gerarchia. Ciò non impediva l’insorgere di malcontento di fronte a limitazioni talora considerate eccessive. Non era del resto possibile per i militari in trincea sviare la propria attenzione su cose che esulassero dalla situazione contingente. La stretta convivenza creava peraltro un forte senso di cameratismo, di ricreare un legame con le cose care, la casa e la famiglia anche se per un breve momento. Ogni più piccolo insignificante argomento veniva sviscerato a trecentosessanta gradi: la quotidianità, i più significativi avvenimenti accaduti in qualsivoglia imprecisato punto della linea, le voci su «possibili» futuri sviluppi della guerra, le speranze di pace un giorno più vicine e il giorno dopo più lontane, le novità portate al fronte dai giovani complementi o da qualche soldato rientrato dalla convalescenza, il senso di qualche articolo pubblicato su qualche quotidiano letto di nascosto, in retrovia, su qualche foglio «clandestino» (6). Era usanza tra i commilitoni condividere viveri e pacchi dono ricevuti da casa. Nel tempo libero si usava raccogliere residuati bellici che venivano trasformati in manufatti da portare a casa o da utilizzare nella stessa trincea.
Era in uso recuperare materiale metallico e schegge ferrose necessari all’industria bellica che li adoperava quale materia prima per la costruzione di nuove armi. Tutto quanto poteva essere opportunamente adoperato era oggetto di recupero e tale attività era incentivata dalla corresponsione collettiva di denaro (7). Gli avvenimenti che rompevano le attività di routine erano costituiti dai due eventi più temuti dai combattenti: il tiro dell’artiglieria nemica e l’assalto. Per solito l’azione di fuoco dell’artiglieria era usata allo scopo di neutralizzare i sistemi difensivi avversari e veniva prima dell’attacco. All’azione così detta di neutralizzazione eseguita da una delle due parti veniva contrapposta da parte avversa l’azione di artiglieria a gittata maggiore (il cosiddetto fuoco di «contro batteria») che doveva contrastare e possibilmente distruggere le fonti del fuoco nemico. Tale azione di fuoco era in genere molto violenta e aveva anche la finalità di neutralizzare gli ostacoli passivi e di demolire la linea oggetto dell’assalto. Durante i tiri di demolizione che precedevano l’assalto delle fanterie nemiche, tutto il personale in linea veniva fatto retrocedere su posizioni di seconda linea per sottrarlo dagli effetti del tiro. Quando poi l’artiglieria allungava il tiro sugli obiettivi di secondo piano e le fanterie uscivano dalle loro postazioni per muovere all’assalto, i difensori della trincea tornavano sulla trincea di prima linea mettendo in postazione le armi automatiche con le quali tentare di arrestare l’avanzata. L’obiettivo finale di difensori e attaccanti era quindi la trincea avversaria di prima linea. Per solito si cercava di sfruttare l’effetto sorpresa in modo da costringere i combattenti in linea a schiacciarsi (appiattirsi) sul fondo della trincea. Ciò comportava però il rischio di perdite umane di proporzioni enormi nel caso fossero centrati un tratto di trincea o di camminamento. In ogni caso, se il tiro dell’artiglieria nemica non veniva reso inefficace dal fuoco di controbatteria bisognava necessariamente aspettarsi, alla fine del bombardamento, un assalto dalle fanterie nemiche.
Il tiro dell’artiglieria era temuto soprattutto per la tipologia di lesioni che provocava a causa delle schegge. Vi era un indubbio impatto psicologico dei bombardamenti che facevano sentire i fanti impotenti perché si riducevano le protezioni. Scrive il Marpicati: «...se le facoltà individuali intorpidiscono nella monotona trincea e il campo della conoscenza si riduce a un cerchio minimo, durante il bombardamento il fenomeno più generale nella massa è addirittura d’arresto nel lavorio mentale: si sta lì, si accompagna con tutto il nostro essere il sibilo e lo schianto dei proiettili, ma non si pensa a nulla.... Quando la furia delle artiglierie culmina nel parossismo del tamburellamento (fuoco tambureggiante N.d.A.) non c’è più nulla che interessa: né gli affetti lontani, né gli amici vicini, né la vita né la morte. Morti ci si sente anzi di già.... Il senso della fatalità ha influito e regna su tutti gli organi. Occorre qualche tempo perché, cessato il bombardamento, i nervi scossi tornino a posto e le facoltà riprendano i loro esercizi normali...» (8). L’assalto! «...Gli occhi dei soldati, spalancati, cercavano i nostri occhi. Il Capitano era sempre chino sull’orologio e i soldati trovarono solo i miei occhi. ...Mi sforzai di sorridere e dissi qualche parola a fior di labbra; ma quegli occhi, pieni d’angoscia e di interrogazione, mi sgomentarono - pronti per l’assalto! - ripeté ancora il Capitano. Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l’assalto era il più terribile. L’assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra...» (9).
FONTI
(1) Lussu E.: «Un anno sull’Altipiano», Einaudi, Torino, 1999, pp. 91-92. (2) Gemelli Agostino (Milano 1878 - Milano 1959), Frate francescano psicologo. Creò all’Università Cattolica di Milano, di cui fu fondatore e rettore dal 1919 sino alla sua morte, un Istituto di psicologia sperimentale. Ha scritto «Introduzione alla psicologia» unitamente a G. Zunini. (3) Gemelli A.: «Il Nostro Soldato Oggi. Saggi di psicologia militare», Treves, Milano, 1917, p. 49. (4) Capello L.: «Note di guerra», Treves, Milano, 1920, vol. 1, pp. 206-207. (5) Marpicati A.: Saggi di psicologia delle masse combattenti, «La proletaria», Bemporad, Firenze, p. 16. (6) Focella - Monticone: «Plotone d’esecuzione», Laterza, Bari, 1968, Prefazione p. IV. (7) M. G.: «I rifornimenti dell’Esercito mobilitato durante la guerra alla fronte italiana», IPS, Roma, 1924, pp. 213, 214. (8) Marpicati A.: Saggi di psicologia delle masse combattenti, «La proletaria», cit. p. 23. (9) Lussu E.: «Un anno sull’Altipiano», Einaudi, Torino, 1999, pp. 104-105.


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