L’inferno della trincea
A
notte alta ci risvegliamo. La terra trema. Un fuoco intenso ci
bersaglia: ci rimpiattiamo negli angoli: distinguiamo colpi di tutti
i calibri. Ognuno dà mano alle cose che gli occorrono, e
continuamente si assicura di averle presso di sé. Il ricovero si
scuote tutto, la notte è un solo ruggito, un solo lampo. Ci
guardiamo l’un l’altro, nel baleno delle esplosioni, e con
pallide facce e labbra serrate scuotiamo la testa.
Sentiamo
tutti come i colpi dei grossi calibri rovinano pezzo per pezzo
l’armatura della trincea, ne buttano
all’aria
la scarpata, ne stracciano il rivestimento di cemento. Già sentiamo
il colpo più sordo e più feroce, simile alla zampata di una belva
in furore, quand’esso arriva in trincea. Verso mattina, alcune
reclute hanno già la faccia verde e vomitano. Non hanno ancora
l’esperienza.
Adagio
adagio una luce livida e grigia scende nelle gallerie, e fa apparire
più pallido il lampo delle detonazioni. È il mattino: ed ecco che
al fuoco delle artiglierie si mescola il miagolìo delle bombarde. È
la cosa più pazza, più impressionante che si possa pensare. Dove
s’abbatte un colpo di bombarda, fa un cimitero. I cambi delle
vedette escono dal ricovero, gli smontanti vi rientrano barcollando,
sporchi di fango, tremanti. Uno si accoccola in un canto e mangia
silenzioso; un altro, un richiamato dei complementi, singhiozza: due
volte lo spostamento d’aria delle esplosioni lo ha fatto volar
fuori dal parapetto, senza produrgli altra conseguenza che uno choc
nervoso.
Le
reclute lo guardano: un simile male è contagioso. Dobbiamo stare in
guardia, le labbra di alcuni già cominciano a tremare. È un bene
che sia ormai giorno: forse l’attacco verrà nella mattinata. Il
fuoco non rallenta e già s’estende alle nostre spalle. Fin dove
giunge la vista, sprizzano fontane di fango e di ferro. I colpi
coprono una zona larghissima. L’attacco non viene, ma le
detonazioni continuano: a poco a poco diventiamo sordi. Quasi nessuno
più parla: non ci si può quasi più intendere.
La
nostra trincea è pressoché distrutta. In alcuni punti non arriva
all’altezza di mezzo metro, ed è tutta
buche
e montagne di terra. Proprio davanti a noi scoppia una granata e si
fa nero. Sepolti sotto la frana, dobbiamo lavorare a dissotterrarci.
Dopo un’ora l’entrata della galleria è di nuovo libera e noi
siamo un po’ più calmi, perché abbiamo avuto da lavorare […]
Ci
stringiamo la cintola e mastichiamo a lungo ogni boccone: ma non
basta. Abbiamo una fame maledetta.
La
notte è insopportabile: dormire non si può: ce ne stiamo
accoccolati, guardando fissi dinanzi a noi e sonnecchiamo ogni tanto.
Anche l’acqua manca, ma sinora non abbiamo troppa sete.
Verso
il mattino, mentre è ancora scuro, ecco una improvvisa commozione.
Uno stormo di topi si precipita dall’ingresso e si slancia su per
le pareti del ridotto. Le lampadine tascabili illuminano la scena.
Tutti
gridano e bestemmiano e picchiano. È l’ira e la disperazione di
tutte queste ore che si scarica e si sfoga. Le facce sono stravolte,
le braccia si agitano, le bestie guaiscono; e ci calmiamo a fatica;
ancora un po’, e ci saremmo assaliti l’un l’altro.
Questo
sfogo ci ha esauriti. Ci sediamo, e l’attesa riprende. E di nuovo
bisogna aspettare, e aspettare...
Erich
Maria Remarque – Niente di nuovo sul fronte occidentale
Commenti
Posta un commento