La Spolia Opima
La
Spolia Opima costituì fin dalle epoche più remote, il più grande
desiderio di ogni comandante romano, guadagnarsela però era impresa
tutt’altro che semplice.
Le
decorazioni militari o i trofei di guerra, non sono certo
un’invenzione di epoca moderna, e chi oggi vede un generale
d’armata decorato con tante medaglie e onoreficenze sul petto, di
certo non avrà grosse difficoltà ad immaginare un centurione che
mostra orgogliosamente le sue falere. Una corona muralis, oppure una
navalis, erano premi alla portata di ogni soldato che si sarebbe
dimostrato particolarmente coraggioso nell’assedio di una città o
nell’ abbordaggio di una nave nemica, ma la Spolia Opima era un
trofeo al quale solo il comandante in carica poteva aspirare, e
l’unico modo per ottenerla era di sconfiggere ed uccidere in
duello, il leader nemico, per poi poterlo spogliare delle armi e
della sua armatura, più altri oggetti di valore qual’ora fossero
stati presenti. Il tutto poi veniva issato su di un tronco di quercia
e trasportato dal comandante vincitore al tempio di Giove Feretrio,
una tradizione che la leggenda attribuisce a Romolo, primo Re di
Roma, e primo comandante ad aver ottenuto l’ambito trofeo, a
discapito del Re Acrone, a capo della tribù dei Ceninensi, circa due
anni dopo la fondazione della città.
L’argomento
che riguarda la Spolia Opima non è affatto banale, anzi ci
restituisce un ritratto dell’antichità nel quale i generali che si
succedevano, non stavano nelle retrovie ad aspettare che altri
sacrificassero la loro vita per lui o per la gloria di Roma, ma anzi
stavano in prima linea a sporcarsi le mani nella speranza di
individuare il capo nemico per potersi confrontare con lui, nella
speranza di ottenere l’onoreficenza più alta. Come dicevamo prima
però, l’impresa era tutt’altro che semplice, basti pensare che
in tutta la storia di Roma, solo tre persone ebbero il successo tanto
desiderato. Di Romolo abbiamo già detto, anche se la veridicità
sulle sue azioni, sono troppo distanti nel tempo e troppo leggendarie
per poterle verificare, mentre gli altri due furono, in ordine
cronologico, Aulo Cornelio Cosso, uno dei più forti soldati che la
storia romana ricordi, e Marco Claudio Marcello.
Su
Aulo Cornelio Cosso, soprannominato da alcuni l’Achille romano, è
lo stesso Tito Livio che nutre più di un dubbio sulla giusta
assegnazione della Spolia Opima, visto che all’epoca dei fatti,
Cosso, secondo lo storico romano, era un semplice tribuno e non un
Console, ad ogni modo Livio ci racconta come si svolsero i fatti che
videro Cosso affrontare Larts Tolumnio, Re di Veio:
“E,
spronato il cavallo, si buttò, lancia in resta, contro quel
solo nemico. Dopo averlo colpito e disarcionato, facendo leva sulla
lancia, scese anch’egli da cavallo. E mentre il re cercava di
rialzarsi, Cosso lo gettò di nuovo a terra con lo scudo e poi,
colpendolo ripetutamente, lo inchiodò al suolo con la lancia.
Allora, trionfante, mostrando le armi tolte al cadavere e la testa
mozzata infissa sulla punta dell’asta, volse in fuga i nemici,
terrorizzati dall’uccisione del re”.
Da
queste righe si percepisce subito l’epicità dell’impresa portata
a termine da Cosso, uccidere il Re nemico e issare la sua testa su di
una picca dev’essere stato un colpo mortale al morale degli
avversari, non è difficile quindi pensare che dopo di lui molti
altri generali abbiano tentato la stessa sorte cercando di
guadagnarsi la Spolia Opima, senza naturalmente sapere che ci
sarebbero voluti altri due secoli prima che qualcun’altro riuscisse
in quest’azione.
Per
chi avesse difficoltà nel ricordare chi fosse Marco Claudio
Marcello, basti ricordare che Tito Livio lo soprannominò “La Spada
di Roma”, e che Plutarco lo descrisse come “uomo amico della
guerra ed esperto di armi”, abilissimo nei duelli e ad
uccidere ogni provocatore, insomma uno dei comandanti più forti ed
intransigenti che la storia romana ricordi. Il suo percorso parla per
lui, sempre in prima linea, mai nelle retrovie, anche quando l’età
dovrebbe portare a più miti consigli, tant’è che il console
Marcello cadde vittima di un’imboscata di Annibale nel 208 a.C.,
alla ormai veneranda età di sessanta anni. Ad ogni buon conto, Marco
Claudio Marcello ottenne la Spolia Opima circa quindici anni prima,
quando uccise il Re dei Galli, della tribù dei Gesati, Viridomaro,
durante la battaglia di Clastidium. Questa volta è Plutarco che ci
racconta come si svolse il duello:
“Il
re dei Galli avendolo scorto da lontano, e avendo compreso dalle
insegne che era lui il capitano dei nemici, galoppò molto innanzi
agli altri, e con voce barbara e vibrar di lancia, si rivolgeva a
lui, sfidandolo in battaglia; ed era uomo che superava in grandezza
gli altri Galli, con un’armatura d’oro e argento, composta da
tanti colori e lavorazioni, che risplendeva come fulmine. Quando
Marcello, osservati tutti i soldati, non vide altre delle armi più
belle, giudicò esser quelle stesse che aveva con voto promesse
a Giove. Con questo pensiero si lanciò al galoppo verso di lui e lo
colpì così forte nel petto con la lancia che, aiutato dalla forza
del cavallo in corsa, lo passò da parte a parte, e gettandolo
in terra ancor vivo, con altro ed altro colpo lo uccise
definitivamente…”
Una
volta portate le armi di Viridomaro al tempio di Giove Feretrio,
Marcello non avrebbe mai pensato di essere l’ultimo romano che lo
avrebbe fatto, eppure fu proprio così. Si trattava comunque di una
tradizione con radici nate nei primi anni della fondazione di Roma,
un retaggio che col passare del tempo, arrivando in epoca imperiale,
venne quasi dimenticato. Sarebbe infatti impossibile pensare ad un
Imperatore che se ne fosse stato in disparte, ad osservare un
generale entrare in trionfo per le vie di Roma, e acclamato dalla
folla festante.
A
sostegno di tale ipotesi vale la pena di ricordare ciò che accadde a
Marco Licinio Crasso, omonimo e nipote del celebre triumviro caduto a
Carre nel 53 a.C.. Crasso, comandante di grande talento, combattè
sulle sponde del Danubio a partire dal 29 a.C., e in uno scontro
armato contro la tribù dei Bastarni, riuscì ad uccidere
personalmente il loro Re, Deldo. Tuttavia Ottaviano, ormai
inesorabilmente avviato verso la costituzione dell’Impero, non
volle concedergli l’onore della Spolia Opima, perchè ciò avrebbe
fatto di Crasso un rivale politico a dir poco scomodo. Si trattò per
Crasso, di una parziale “Damnatio Memoriae”, tant’è che
il suo nome, ancora oggi, viene citato dalle fonti molto di rado,
nonostante il suo valore e il suo talento abbiano superato di molto
il suo più illustre predecessore.
Altri
autori antichi fra cui Cassio Dione, Annio Floro e Valerio Massimo,
ci racontano di altri casi di Spolia Opima ottenuta da ufficiali o da
soldati semplici, specificando che naturalmente, a causa delle
gerarchie militari, nessuno di loro ha mai avuto la possibilità di
consacrarla a Giove Feretrio. Questo però non toglie che non fossero
comunque riconosciute, giacchè l’autore Sesto Pompeo Festo,
citando Varrone, ricorda che una legge del periodo monarchico, la
“Lex Numa”, distingueva la Spolia Opima in “prima”, ”
secunda” e “tertia”. Probabilmente quindi l’ipotesi più
plausibile è che la Spolia prima, e consacrata a Giove, poteva
essere ottenuta solo dal comandante in capo, la secunda indicava la
morte del generale nemico per mano di un ufficiale di grado più
basso, e la Spolia consacrata a Marte, mentre la tertia poteva essere
ottenuta anche da un soldato semplice, che poi la poteva consacrare a
Quirino.
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