La battaglia del Piave: Prima fase [10-26 novembre]

La chiameremo così, anche se in effetti l'offensiva austro-tedesca si pronunciò su un fronte molto ampio, dall'Altopiano di Asiago al Grappa e al Piave, sino alla foce del fiume. Il 10 novembre Conrad scatenò l'attacco, con estrema violenza, in quello che riteneva il punto più sensibile del nostro schieramento: l'altopiano di Asiago, dove già si era scatenata, nel 1916, la sua famosa "Spedizione punitiva" o Strafexpedition, che si era però mostrata appena un po' troppo debole per infrangere la nostra resistenza e sfondare fino alla pianura di Vicenza. E lì ripeterà il tentativo nel giugno 1918, ostinatamente convinto che il sottile diaframma montano che lo separava dalla pianura sarebbe dovuto cadere nel giro di poche ore, consentendogli una seconda Caporetto ai danni della nostra Prima Armata e, quindi, una rapida avanzata fino all'Adige, se non fino al Mincio. Ma la via più breve, in montagna, non è sempre la più agevole né la più conveniente: se ne accorsero i fanti austriaci che il 10, l'11 e il 12 riuscirono ad avanzare pochissimo, per vedersi vigorosamente contrattaccati e inchiodati dal fuoco incessante dell'artiglieria e delle mitragliatrici. Stesso risultato ebbero gli attacchi del generale von Krauss sul massicio del Grappa, ove incontrò una resistenza altrettanto energica e inaspettata. Non era quello l'esercito che, solo pochi giorni prima, si disperdeva in fuga disordinata lungo le strade della pianura veneto-friulana, più simile a un'orda di sbandati che consideravano finita la guerra e volevano soltanto ritornare alle proprie case? Invece, adesso, quei soldati mostravano di sapersi battere con la massima decisione. Solo la cima del monte Pertica, parecchi giorni dopo (il 23 novembre), rimase alla fine nelle
mani degli Austriaci. L'ala sinistra del Gruppo Krauss che, in cooperazione con il Gruppo Stein, tentava di forzare la cresta del Tomba e del Monfenera, fece alcuni progressi insignificanti e dovette arrestarsi davanti a un muro invalicabile. Sempre il 10 novembre la Divisione slesiana tentò di forzare con mossa fulminea il Piave a Vidor, ma dovette desistere. La 13.a Divisione tedesca cercò allora di saggiare le possibilità di passare sulla riva destra più a valle, verso Ponte della Priula, ma non ottenne alcun risultato. L'atacco al massiccio del Grappa ebbe inizio il 14 novembre. Gli apprestamenti difensivi italiani, realizzati in fretta e furia, erano assai rudimentali: niente reticolati, niente trincee, niente camminamenti; una sola camionabile (larga appena 3 metri), una carrareccia e due teleferiche. Pure, la resistenza italiana si mostrò subito fortissima, tanto da lasciare stupiti gli attaccanti. Il 15, tuttavia, monte Roncone e il Tomatico vennero sgombrati dagli Italiani; ma la sera dello stesso giorno la 13.a Divisione Schützen falliva nel tentativo di forzare lo schieramento italiano a Fener, mentre la 55.a Divisione austriaca occupava la parte nord della stretta di Quero, ma senza riuscire a sboccare oltre. Ciò segnava il fallimento, in partenza, del progetto di estendere l'azione della Quattordicesima Armata al Gruppo Boroevic, all'altezza del Montello. Infatti sin dal giorno 12, di notte, truppe austriache erano riuscite a forzare il corso inferiore del Piave mediante barconi e a stabilire una testa di ponte sulla sponda sinistra, nell'ansa di Zenson. Anche qui, tuttavia, la reazione italiana era stata vivacissima e i nostri contrattacchi, pur non riuscendo a eliminare la testa di ponte, l'avevano subito bloccata, costringendo il nemico a rinserrarsi in un piccolissimo spazio, senza prospettive di poterlo, per il momento, allargare. Il 16 gli Austriaci riuscirono a forzare il Piave presso la foce, a Cavazuccherina e a Chiesa Nuova. Questo modesto successo nella zona fra il Piave Vecchio e il Piave Nuovo, che portava il nemico quasi a ridosso del bordo settentrionale della Laguna di Venezia, era di per sé di scarso valore strategico, poiché l'estrema ala sinistra della Isonzo Armee, proprio a causa della vicina laguna, non avrebbe potuto in alcun caso operare uno sfondamento risolutivo. La cosa avrebbe potuto divenire pericoloso solo se altre teste di ponte fossero state stabilite, più a monte del fiume, sulla riva destra; e in effetti il IV Corpo d'Armata di Boroević, composto di fanti veterani di tante battaglie sull'Isonzo, lottando duramente occupò con 4 battaglioni le Grave di Papadopoli e stabilì un'altra testa di ponte a Fagaré, a cavallo della ferrovia Treviso-Oderzo. Ma qui finirono i suoi successi: inchiodato dalla furibonda reazione degli Italiani, non fu in grado d muovere un altro passo avanti, anzi dovette ripiegare e pagare un tremendo tributo di morti e feriti. Bloccata l'offensiva austriaca lungo il corso del Piave in pianura, lo sforzo principale degli attaccanti tornò a concentrarsi attorno al massiccio del Grappa. I Comandi austro-tedeschi avevano individuato il punto cruciale nella stretta di Quero e nel sistema Tomba-Monfenera: se il Gruppo Krauss fosse riuscito a forzare quella "cerniera", anche il Gruppo Stein avrebbe potuto sboccare su Fener e Vidor e tutta la riva destra del Piave, a cominciare dal Montello, sarebbe stata investita sul fianco e sul rovescio, con conseguenze imprevedibili. È vero che, nelle retrovie, le due armate anglo-francesi si tenevano pronte proprio ad una eventualità del genere: ma chi avrebbe potuto dire cosa sarebbe accaduto se gli Austro-Tedeschi, sboccati in pianura a tergo della nostra estrema linea di difesa, imbaldanziti da una nova vittoria, avessero potuto liberamente manovrare in una zona ricca di vie di comunicazioni stradali e ferroviarie? La lotta, perciò, tornò a concentrarsi sul lato orientale del massiccio del Grappa. Tra il 16 e il 17, col decisivo intervento della Divisione cacciatori tedesca, la stretta di Quero veniva finalmente superata e gli Austro-Tedeschi fecero irruzione nella conca di Alano. Fu un momento drammatico: ormai essi erano a pochi chilometri, anzi a poche centinaia di metri, dall'agognato sbocco in pianura, in direzione di Onigo e Pederobba: ancora uno sforzo e la gigantesca battaglia, forse, sarebbe stata decisa. Il giorno 18 essi fecero questo estremo tentativo: la Divisone Jäger partì frontalmente all'assalto del Tomba e del Monfenera, mentre le divisioni austriache avrebbero assicurato la protezione dei fianchi. Ma la reazione della artiglierie italiane piazzate sul Monte Pallon (1.305 m.), sullo Spinoncia (1.296 m.) e in altri punti del saliente che il nostro fronte formava sul lato nord del massiccio del Grappa (quelle artiglierie che a Saga e a Plezzo, a fine ottobre, avevano inspiegabilmente taciuto mentre le divisioni tedesche penetravano nei fondovalle) fu tempestiva e precisa, rovesciando sugli attaccanti un diluvio di fuoco. Battuti inesorabilmente da quel tiro micidiale, i fanti della Jäger furono costretti a retrocedere.
I comandi nemici compresero allora che non era possibile tentare la conquista del Tomba-Monfenera senza aver prima eliminato il saliente italiano del Monte Pallone e del monte Fontana Secca, e a tal fine le 4 divisioni del Gruppo Krauss si lanciarono a loro volta all'attacco. Dal 18 al 22 novembre si combatté con violenza inaudita, spesso corpo a corpo e con largo uso di bombe a mano, sul saliente italiano a nord del Grappa. Il monte Pertica, tenuto dal XXVII Corpo d'Armata del generale Di Giorgio, fu teatro di ripetuti assalti nemici: conquistato dagli Austriaci il giorno 20, poi ripreso dagli Italiani e ancora perduto, e così di seguito più volte, fra attacchi e contrattacchi alla baionetta degni dei tempi omerici. Alla fine le truppe del Krauss riuscirono a impadronirsi sia del Pertica (m. 1.549) che del Fontana Secca (1.608 m.), il primo a nord-est, l'altro a nord ovest della cima del Grappa, a metà strada verso il Monte Tomatico; ma non a eliminare il saliente e, con ciò, il tiro incessante delle artiglierie italiane. Nonostante questo parziale insuccesso, i Comandi nemici vollero tentare il tutto per tutto pur di strappare la decisione e il 22 le migliori truppe da montagna tedesche, la Divisione cacciatori e l'Alpenkorps tedesco, rinnovarono l'assalto disperato al bastione del Tomba-Monfenera. Avanzando con l'ausilio di una nuova arma micidiale, i lancia fiamme, questa volta riuscirono a raggiungere la cima di entrambe le posizioni: ma non poterono avanzare oltre. Gli Italiani, tutt'altro che demoralizzati, fecero scudo pochi metri più in basso delle vetta, aggrappandosi alle pendici meridionali delle due montagne (in realtà, due modeste colline, le ultime prima dei Colli Asolani e, quindi, dell'aperta pianura: il Monte Tomba non è alto che 868 metri s.l.m. e il Monfenera, alla sua destra, è ancora più basso), là dove l'artiglieria nemica non poteva arrivare a colpirli. Seguirono alcuni giorni d'incertezza: i due avversari ripresero il fiato. Il 25 e il 26, animati da un'ostinata volontà di farla finita una volta per tutte, gli Austro-Tedeschi ripartirono all'attacco su tutto il settore fra Piave e Brenta. Sulla sinistra fallì il loro estremo tentativo d'irrompere dal monte Pertica verso Bassano; al centro, stessa sorte ebbe il loro tentativo di sfondare oltre il Col dell'Orso (m. 1.677) e lo Spinoncia; sulla destra, infine, eguale destino ebbero i loro attacchi oltre la cresta del Monfenera. Col fallimento della Divisione Edelweiss nel suo sforzo contro il Col della Berretta, il giorno 26, ad opera della Brigata Aosta, l'attacco del generale Krauss al massiccio del Grappa poteva considerarsi, per il momento, esaurito.
Né miglior sorte aveva avuto il Conrad sugli Altipiani. Il giorno 22, gli Austriaci avevano lanciato un nuovo attacco in grande stile, il cui obiettivo immediato era l'avvolgimento delle difese italiane sulle Melette: ma esso fu stroncato senz'altro dal XX Corpo d'Armata del generale Ferrari. Intanto le esauste truppe italiane cominciavano a ricevere rinforzi e possibilità di avere il cambio, grazie alle ricostituite truppe della Seconda Armata e all'arrivo delle nuove leve del '99. Entravano così in linea, sempre nel settore del Grappa, il XXVII Corpo (3 divisioni) il 22 novembre; il XXV, il 27 novembre; indi il VI, il XXXX e il XXVIII. Le truppe italiane riacquistavano sempre più fiducia nelle proprie capacità, mentre gli AustroTedeschi cominciavano ad essere attanagliati dall'angoscia. L'inverno, il terribile inverno alpino, si avvicinava a grandi passi, ed essi non erano riusciti a infliggere il colpo di grazia all'Italia; non avevano registrato alcun sostanziale successo e si trovavano di fronte un avversario più combattivo che mai. Inoltre sapevano che, alle sue spalle, si tenevano pronte a intervenire le divisioni francesi e britanniche, che presto sarebbero entrate nella lotta.
La grande offensiva austro-tedesca poteva ormai considerarsi fallita. Il generale Krauss, realisticamente, non credeva più nella possibilità di sfondare tra Brenta e Piave, e lo disse al giovane imperatore Carlo d'Asburgo che, venuto al fronte per assistere alla vittoria definitiva del suo esercito, aveva invece visto la sbalorditiva ripresa del nemico dato ormai per finito. Il generale von Below, comandante della Quattordicesima Armata tedesca, ne trasse le logiche conclusioni e il 29 propose al Comando Supremo austriaco di interrompere definitivamente l'offensiva. Pochi giorni dopo, il 3 dicembre, il suo capo di Stato Maggiore generale, Ludendorff, gli ordinò di ritirare dal fronte italiano 3 delle divisioni tedesche: la Germania ormai non riteneva possibile sconfiggere l'esercito italiano, almeno sino alla prossima primavera. Forse, non lo riteneva nemmeno desiderabile: per Hindenburg e Ludendorff, un eventuale successo su quel fronte avrebbe avuto conseguenze strategiche e politiche imbarazzanti: avrebbe spostato il centro di gravità della guerra mondiale nella Pianura Padana e avrebbe allungato a dismisura il fronte occidentale. E i due supremi comandanti tedeschi, proprio come Foch (che continuava a brigare, ma invano, perché l'esercito italiano passasse sotto il comando francese) erano convinti che le sorti della guerra si sarebbero giocate sul fronte principale: quello occidentale, dal confine svizzero al Mare del Nord. La prima fase della battaglia si era conclusa, anche se Conrad, ostinato, non si rassegnava ancora all'insuccesso. Va notato che l'esercito italiano la aveva affrontata e vinta da solo, e in condizioni di inferiorità sia numerica, sia in fatto di artiglieria: non un solo soldato inglese o francese, fino a quel momento, vi aveva avuto parte. Era passato appena un mese dal disastro di Caporetto, e quegli stessi soldati che si erano ritirati in disordine e, talvolta, in preda al panico, avevano ritrovato adesso tutto il loro valore. Questo, in termini, militari, si può considerare quasi un miracolo: uno di quegli eventi che si verificano pochissime volte nella storia, e che lasciano il segno. Il governo, il Parlamento e l'intero Paese lo compresero d'istinto, e si strinsero idealmente ai difensori del Grappa e del Piave. Non erano più in gioco la liberazione delle terre "irredente" o qualche remoto obiettivo strategico, ma la sopravvivenza stessa della Patria (una Patria assai giovane: il Regno d'Italia era nato nel marzo del 1861). Ora che la guerra era diventata da offensiva, difensiva, il suo significato appariva molto più chiaro di quanto non lo fosse mai stato prima: si trattava di resistere a tutti costi, oppure di vedere vanificata niente meno che l'intera opera del Risorgimento.


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