Paura e coraggio nella Grande guerra

Nella vita di trincea il compito dei graduati, degli ufficiali e in generale dei più esperti, è favorire in modo graduale la progressiva trasformazione della coscienza dell'uomo. Di quale trasformazione parla il prete-soldato Gemelli? A suo dire si tratta di favorire il “progressivo scolorimento” della coscienza dell'uomo, assecondando la monotonia della vita di trincea, rotta solo dai bombardamenti subiti, fino a un vero e proprio “restringimento del campo di coscienza” un inaridimento dello spirito cui deve conseguire “un impoverimento del bagaglio individuale di immagini”. Solo così la parola dell'ufficiale può adeguatamente penetrare nella psiche del soldato, esercitando la necessaria suggestione. Uniformità di paesaggio, uniformità di suoni; non a caso Gemelli non fa riferimento agli scambi epistolari da casa, peraltro sottoposti a censura, e tuttavia molto toccanti agli occhi del lettore di oggi, nonostante il basso livello alfabetizzazione (Gibelli 2014).
Il soldato in trincea pensa poco, perché vede assai poco; pensa sempre le stesse cose. La sua vita mentale è assai ridotta e niente la alimenta. Il suo spirito lavora senza oggetto” (Gemelli 1917). Altre testimonianze raccontano della monotonia e dell'inaridimento spirituale della vita di trincea. “Niente notizie, un lento instupidimento (...). È strano come sono diminuito d’intelligenza. Ho rarissime nostalgie e percezioni da uomo che sa ragionare e scrivere” (Castellini 1919). “Di giorno, invece, si faceva poco o nulla. Non c’era la sveglia, e chi voleva poteva continuare a dormire. Le prime linee erano piene di uomini, ma su di esse regnava un assoluto silenzio. La distribuzione dei viveri costituiva l’unico avvenimento della giornata” (dal diario del tenente di fanteria Mario Quaglia, che combatté sull'Isonzo e sugli altopiani (Quaglia 1934). Le difficoltà risiedono nel prolungare l'attesa senza infiacchimento o insubordinazioni. Tutta la macchina deve perciò funzionare alla perfezione: regolarità del rancio e cambi della guardia, regolarità della consegna della posta e dei giornali. Regolarità del ricambio degli ufficiali e nei ricambi della prima linea. Regolarità della manutenzione di armi e divise; allo scopo di non sconvolgere le abitudini di un uomo ridotto ai minimi termini, senza spegnerlo o senza fargli "saltare i nervi". Se gli storici recenti hanno sottolineato come il fronte italiano sia stato anche occasione di emancipazione per masse di semianalfabeti, agli occhi del Gemelli del 1917 è la povertà di orizzonti del soldato a spingerlo fino al punto di uscire dalla trincea al momento opportuno senza pensare troppo.
Di colpo al primo tuonare di una granata, torniamo con una parte di noi stessi indietro di migliaia di anni. È un intuito puramente animale quello che in noi si ridesta, che ci guida e ci protegge” (Remarque 1929).
Nessuno vede bene cosa accade oltre il bordo della trincea, le uniche informazioni visive provengono dagli specchietti posti all’estremità di un bastone. “È la coscienza del fronte. Al fischio delle prime granate, al primo strappo dell'aria solcata dalle detonazioni, subito nelle nostre vene, nelle mani, è come un'attesa sommessa, un origliare...” (Remarque 1929). E allora la distinzione tra il fuoco amico e i colpi indirizzati contro di noi si apprende in fretta, come la differenza sonora tra un 75 mm e il suono grave dei grossi calibri. Conviene imparare in fretta: “questi giovinetti naturalmente non sanno quasi nulla di tutto ciò, e vengono falciati, perché neppure distinguono uno shrapnel da una granata; ascoltano con ansia l’ululo dei grossi calibri innocui, che scoppiano lontano dietro le nostre spalle, e non sentono il sibilo leggero delle piccole bestie malefiche che esplodono in mezzo a noi” (Remarque 1929).
A proposito di un fronte in cui la guerra è cieca fino al momento dell'assalto e sull’ignoto “Eccoli: attendono l’ordine di uscire dalla trincea, a ondate, all’assalto. Sono già in piedi, armati ed equipaggiati. Gli zappatori hanno preparati gli scalini nei parapetti delle trincee. Ciascuno ha inastata la baionetta. Le bombe a mano sono pronte; pronte le maschere contro i gas. L’ufficiale ha nelle mani l'orologio e attende che la lancetta arrivi al minuto decisivo. In apparenza sono tranquilli quei giovani”. Li attanaglia la paura dell’ignoto, perché nessuno conosce del tutto il destino delle ondate che li hanno preceduti. “Chi non è stato in trincea in quel momento tragico che precede l’assalto non può immaginare quali sentimenti sono nell’anima del soldato. Ecco: le ondate di assalto avanzano, scompaiono: alcune sembrano inabissarsi nel vuoto, altre sembrano immobili a terra, altre arrivano alla trincea nemica per il combattimento corpo a corpo”.
Eppure quello che spinge il fante a uscire dalle trincee è il senso di appartenenza (reggimento/compagnia), l’emulazione di un ufficiale o di un graduato che ha fama di invulnerabilità, l'essersi fatti convincere di andare ad occupare una trincea meno esposta e più comoda e l'aiuto di un amuleto, oltre al rispetto scrupoloso di alcune superstizioni (mai accendere tre sigarette con lo stesso fiammifero; toccare le stellette con due dita; mai avere in tasca carte da gioco; tenere in tasca erba ruta, chiodi, immagini sacre ecc.)
I sensi all’assalto, gli uomini sono assordati dalle esplosioni; “il fuoco è più forte di ogni altra cosa (...) Ma ecco qualcosa mi percuote il viso, una mano afferra la mia spalla (...) Nel bagliore di un secondo distinguo il viso di Katzinski. Ha la bocca spalancata e urla qualcosa che non arrivo a sentire: continua a scrollarmi, si avvicina; e in un momento di minor rumore, le sue parole mi raggiungono: Gas! Gas! Gas! Passa la voce!” (Remarque 1929).
La improvvisa entrata in scena della guerra chimica, senza alcun preavviso nelle pagine di Remarque, esercita sul lettore l’effetto raggelante di una sorpresa atroce. Insomma conviene tornare ai romanzi dei reduci (Lussu 1938, Céline 1932, Remarque 1929) per mettere anche padre Gemelli, e le sue teorie sulla restrizione della coscienza, alla prova. Ecco lo scrittore italiano Emilio Lussu (Lussu 1938):“Il battaglione era pronto, le baionette innestate. La 9° compagnia era tutta ammassata attorno alla breccia dei guastatori. La 10° veniva subito dopo. Le altre compagnie erano serrate, nella trincea e nei camminamenti e dietro i roccioni che avevamo alle spalle. Non si sentiva un bisbiglio. Si vedevano muoversi le borracce di cognac. Dalla cintura alla bocca, dalla bocca alla cintura, dalla cintura alla bocca. Senza arresto, come le spolette d'un grande telaio, messo in movimento. Il capitano Bravini aveva l’orologio in mano, e seguiva, fissamente, il corso inesorabile dei minuti. Senza levare gli occhi dall'orologio gridò: – Pronti per l’assalto! Poi riprese ancora: – Pronti per l’assalto! Signori ufficiali, in testa ai reparti! Il sergente dei guastatori ferito continuava a gridare: – Avan... Gli occhi dei soldati, spalancati, cercavano i nostri occhi. Il capitano era sempre chino sull'orologio e i soldati trovarono solo i miei occhi. Io mi sforzai di sorridere e dissi qualche parola a fior di labbra; ma quegli occhi, pieni di interrogazione e di angoscia, mi sgomentarono. – Pronti per l’assalto! – ripeté ancora il capitano. Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l’assalto era il piú terribile. L'assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra”.
Non c’è il tempo per pensare e bisogna aggrapparsi agli sguardi dei graduati, che già tante ne hanno passate e sono ancora qua tra noi. Ora l'ondata è uscita allo scoperto e Lussu scrive (1938): “Che noi avessimo gridato o no, le mitragliatrici nemiche ci attendevano. Appena oltrepassammo una striscia di terreno roccioso ed incominciammo la discesa verso la vallata, scoperti, esse aprirono il fuoco. Le nostre grida furono coperte dalle loro raffiche. A me sembrò che contro di noi tirassero dieci mitragliatrici, talmente il terreno fu attraversato da scoppi e da sibili. I soldati colpiti cadevano pesantemente come se fossero stati precipitati dagli alberi. Per un momento, io fui avvolto da un torpore mentale e tutto il corpo divenne lento e pesante. Forse sono ferito, pensavo. Eppure sentivo di non essere ferito. I colpi vicini delle mitragliatrici e l'incalzare dei reparti che avanzavano alle spalle mi risvegliarono. Ripresi subito coscienza del mio stato. Non rabbia, non odio, come in una rissa, ma una calma completa, assoluta, una forma di stanchezza infinita attorno al pensiero lucido. Poi anche quella stanchezza scomparve e ripresi la corsa, veloce”.
Uno stato semicosciente dunque, ma che non gli impedisce di agire, di avanzare verso il nemico. “Quando un colpo arriva – scrive Remarque –tutto quel che posso fare è rannicchiarmi; dove vada a battere non posso sapere, né influirvi. È appunto questo che ci rende indifferenti”. Quanto dura l'azione? Nessuno sa dirlo. Altrove Lussu dice “in combattimento si perde la nozione del tempo, sempre” in questo non diversamente da qualsiasi performance, anche sportiva, che sia veramente impegnativa. Infine la spossatezza estrema, di cui parlano anche Gemelli e Gadda, complice forse l’alcol, e con essa il ritorno alla coscienza e lo spettro dell'alienazione. “Finito il ritiro dei feriti e dei morti, che gli austriaci ci lasciarono raccogliere senza sparare un colpo, io mi ero sdraiato, cercando di dormire. La testa mi era leggera, leggera, e mi sembrava di respirare con il cervello. Ero sfinito, ma non riuscivo a prendere sonno. Il professore di greco venne a trovarmi. Egli era depresso. Anche il suo battaglione aveva attaccato, piú a sinistra, ed era stato distrutto, come il nostro. Egli mi parlava con gli occhi chiusi. – Io ho paura di diventare pazzo, – mi disse. – Io divento pazzo. Un giorno o l'altro, io mi uccido. Bisogna uccidersi. Io non seppi dirgli niente. Anch’io sentivo delle ondate di follia avvicinarsi e sparire. A tratti, sentivo il cervello sciaguattare nella scatola cranica, come l’acqua agitata in una bottiglia” (Lussu 1938).
In guerra si impazzisce. Nell’ottica della maggior parte degli psichiatri italiani però la guerra non era considerata un fattore sufficiente a produrre patologie psichiche. Alla luce di una prospettiva organicista, che durerà anche durante il secondo conflitto mondiale, gli aspetti emotivi dei combattimenti non sarebbero sufficienti a causare la malattia mentale, se non per effetto di fattori endogeni congeniti o acquisiti (Sorcinelli 1992). Al di fuori dei confini nazionali, in diversi contesti le nevrosi di guerra del primo conflitto mondiale portarono però la medicina a una nuova considerazione nell’eziologia dei disturbi mentali, non più frutto di difetti originari ma di dinamiche di fallito adattamento alla realtà.
Fonti bibliografiche:
Gibelli A (2014). La guerra grande. Storie di gente comune. Laterza, Bari. Castellini G (1919). Tre anni di guerra, diario. Treves, Milano.
Gadda CE (1955). Giornale di guerra e di prigionia – con il “Diario di Caporetto”. Garzanti, Milano.
Gadda CE (1963). La cognizione del dolore. Garzanti, Milano
Remarque EM. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Mondadori, Milano 1989.

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