La Grande guerra sulle montagne del fronte orientale - i presidi medici sul fronte alpino – parte A

Introduzione
La guerra durò quattro lunghi anni (dal 28 luglio 1914 e per l’Italia dal 24 maggio 1915 fino al 4 novembre 1918) e fu una guerra di logorio, combattuta da un esercito aggrappato al terreno carsico e fra le montagne, immerso nel fango delle trincee, dove i soldati per mesi e mesi furono martellati dal continuo e ininterrotto fuoco delle artiglierie. Il fronte su cui si batterono fanti e alpini era notevolmente impervio: andava dai ghiacciai di 4000 metri, alle guglie delle Dolomiti e al sassoso Carso. In un simile ambiente i soldati dovettero affrontare gelo, neve (morte bianca), scarsità d’acqua nel periodo estivo, scoppio delle gallerie di mina (sul Pasubio trovarono la morte 2000 soldati). Armi, equipaggiamenti, materiali, strumentazioni e tecniche di combattimento subirono rispetto al passato un notevole rivoluzionamento. Per la prima volta comparvero nuove armi micidiali in grado di mietere in poco tempo molte vittime: armi automatiche (mitragliatrici), lanciafiamme, carri amati, bombardamenti aerei, gas asfissianti (il 29 giugno 1916 nel settore di San Michele e di San Martino vi furono più di 6.000 vittime tra morti, asfittici e feriti), micidiali bombe shrapnel con spoletta a tempo, sottomarini. Sconvolgente è il numero di morti che si ebbero. Le stime non sono proprio univoche. In Italia circa 651.000 militari morti che, raffrontati ai 10.000 morti delle tre guerre di indipendenza o ai 291.000 della seconda guerra mondiale, fanno proprio riflettere. In campo mondiale si arrivò a 8-9 milioni di morti. Inoltre non dobbiamo dimenticare i civili che perirono a causa di malattie, carestia o bombardamenti. In Italia si contò circa un milione di morti fra la popolazione civile. A livello mondiale le stime oscillarono tra i 7 e 9 milioni. Il numero delle vittime potrebbe essere anche ben più alto se nel computo venissero conteggiate le morti provocate da eventi correlati al conflitto come il genocidio armeno e la guerra civile russa. Anche la Marina italiana pagò un alto contributo di vite umane. 21 ufficiali e 237 marinai perirono per l’affondamento per sabotaggio della corazzata Leonardo da Vinci nel porto di Taranto. Altri 700 marinai persero la vita per l’affondamento della corazzata Regina Margherita a causa di una mina nel rientro in Italia da Valona (Albania). Aveva senso? Un tale disastro non ha giustificazioni! È ovvio che un numero così elevato di giovani militari uccisi è comprensibile quando le disposizione delle alte sfere recitavano così: “Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia all’attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice […]” e “Le sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini” (Luigi Cadorna). Presso la spianata di Korbania nei Carpazi 4000 Kaiserjäger tirolesi furono costretti a tenere la posizione fino all’ultimo uomo; dopo 4 giorni ne rimasero in vita solo 200. Il sottotenente Biedermann lamentava con profonda amarezza il fatto che il colonnello responsabile “si trova nelle retrovie a 40 chilometri dal fronte, riempiendosi con birra, cavolfiori al burro, trote e allegre slittate” … “non si trova nessuno che gli impedisca di nuocere, lo cacci o lo faccia ricoverare in manicomio?”. Come possiamo notare, da entrambe le parti gli alti ufficiali senza scrupoli, al sicuro, lontano dal fronte, mandavano a morire migliaia di esseri umani secondo piani redatti a tavolino (a dimostrazione che il mondo non è mai cambiato …).
Ai morti per ferite o malattie dobbiamo purtroppo aggiungere anche quelli eliminati per punire la mancata esecuzione degli ordini dei superiori: circa 750 le condanne a morte eseguite. Le frasi dette da Cadorna sono emblematiche: “Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi” oppure “Chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto prima che si infami dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato da quello dell’ufficiale”. La testimonianza di Cesare De Simone, tratto da “L’Isonzo mormorava” conferma quanto avveniva nella realtà: “Tutte le volte che c’era un attacco arrivavano i carabinieri. Entravano nelle nostre trincee, i loro ufficiali li facevano mettere in fila dietro di noi e noi sapevamo che, quando sarebbe stata l’ora, avrebbero sparato addosso a chiunque si fosse attardato nei camminamenti invece di andare all’assalto. Questo succedeva spesso. C’erano dei soldati, ce n’erano sempre, che avevano paura di uscire fuori dalla trincea quando le mitragliatrici austriache sparavano all’impazzata contro di noi. Allora i carabinieri li prendevano e li fucilavano. A volte era l’ufficiale che li ammazzava a rivoltellate”. Soldato B.N. 25 anni, condannato a 4 anni di reclusione per lettera denigratoria nel 1916: “Non si creda agli atti di valore dei soldati, non si dia retta alle altre fandonie del giornale, sono menzogne. Non combattono, no, con orgoglio, né con ardore; essi vanno al macello perché sono guidati e perché temono la fucilazione. Se avessi per le mani il capo del governo, o meglio dei briganti, lo strozzerei”. Questo aspetto della guerra è una storia volutamente dimenticata. Il numero ufficiale dei morti è alto ma probabilmente non corrisponde al vero. Difficile distinguere le vittime da mano amica o nemica nell’immediatezza di un attacco.
Le decimazioni per dare un messaggio esemplare ammontarono a più di ottanta. Sempre il generale Cadorna: ”… ricordo che non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello dell’immediata fucilazione dei maggiori responsabili e allorché l’accertamento personale dei responsabili non è possibile rimane il dovere ed il diritto dei comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la morte …”. Esemplare fu quella delle brigata Ravenna (29 fucilati) e Catanzaro (28 fucilati). Infine molti furono i prigionieri che non rientrarono in patria e morirono di stenti, fame, freddo, malattie e tubercolosi. Su 600.000 non tornarono dai campi di prigionia in 100.000. Per quanto il diritto internazionale (convenzione dell’Aja) prevedesse che i prigionieri non potessero ricevere un vitto peggiore delle proprie truppe, nessuno rispettava questa regola. Inoltre i prigionieri erano considerati come persone di rango inferiore. Nel corso della guerra il numero dei prigionieri salì a quasi due milioni e le risorse alimentari diventarono sempre più carenti. Si pensi che, all’interno dell’Impero, si dovevano cuocere circa 700.000 Kg di pane per tutti i prigionieri ma, in mancanza di risorse, la scarsa farina era mischiata con della polvere derivata dalla macinazione delle ghiande o della paglia.
La mancanza di generi alimentari colpì sia i prigionieri in mano agli Austroungarici che i militari stessi. Questi ultimi, alla fine della guerra, si trovarono debilitati e più soggetti ad ammalarsi della terribile influenza spagnola che provocò milioni di morti in tutto il pianeta. La moria di prigionieri italiani fu inoltre aiutata dal blocco totale dei pacchi viveri mandati dalle famiglie. Ciò a causa dell’infame campagna di accuse costruite a tavolino rivolta ai prigionieri tacciati di una presunta debolezza morale, di aver scioperato o di essersi dati volontariamente al nemico. Non vennero attribuite le giuste responsabilità ai comandi, colpevoli di applicare tattiche vecchie ed inefficaci per una guerra moderna, mandando a morte certa i propri uomini nel tentativo disperato di avanzare ad ogni costo di qualche metro e per giustificare la disfatta di Caporetto senza mettere alla berlina il “generalissimo” Cadorna. Secondo i vertici militari i prigionieri non dovevano essere ricordati o nutriti e così furono abbandonati a se stessi, non avevano nulla di cui nutrirsi e vivevano in condizioni igieniche a dir poco pessime. Per dare un’idea qui di seguito riporto alcuni stralci delle lettere che ci sono pervenute. Lager di Milovice, nell’attuale repubblica Ceca dove, di fame e freddo, morirono circa 17 mila prigionieri italiani: “… la gran fame aveva ridotto tanti e tanti poveracci privi di ragione, stupidi come bimbi di quattro anni che strusciando per terra raccattavano qualche porcaia e se la mettevano in bocca. Si vedevano di quelli affamati, guardando a terra, trovando qualche corteccia di patate anche fra l’immondizia la raccattavamo e se la mangiavano e se erano tre o quattro se la litigavano pure”. E ancora la descrizione degli alimenti forniti presso il campo di concentramento di Darmstad (Germania): “una broda nerastra insapora composta di pezzettini di carote ed acqua, acqua di fonte e null’altro assieme” - “bevanda con un miscuglio d’una farina color caffè, la qual farina, al par della sabbia, calava rapidamente sul fondo dei recipienti” – “caffè, un liquido color di tintura di jodio nauseante né più né meno dell’infuso di Vienna, tanto ripugnante che nessuno di noi nemmeno l’assaggiava” - “pane, non era altro che un conglomerato chissà di quali selvagge sostanze, una pasta cruda anch’essa color tabacco, attaccaticcia, tenuta insieme da una crosta nera in carbone, crosta bruciata superficialmente da una repentina cottura. Capitava spesso di discernere tra questo ripugnante pane della pagliuzza, delle fibre di legno, oppure bucce di qualche frutto selvatico”. E ancora sempre dal Lager di Milovice: “raccattavano certe teste di pesci putrefatti, gettati alla latrina, fra l’orina, e senza ripulirle le mettevano in bocca e se le mangiavano” - “uno aveva ricevuto un pacco di pane secco, dalla fame se lo mangiò tutto; il pane dentro al corpo cresceva finché lo dovette far fuori tutto; si incontra a passare di lì uno di queste più affamati; veduto quel pane rifatto fuori a terra, cava fuori il suo cucchiaio e si mete a mangiarlo …” - “vendevano della marmellata e chi aveva i soldi la comprava e se la mangiava gettando via la carta, che andava a cadere sul pavimento, tutto sporco di sputi e catarro. Abbiamo visto qualche … raccattare le carte piene di sputacci e leccarle”
La sanità militare
Come si dovette organizzare la sanità militare nel corso del primo conflitto mondiale? Non fu certamente un periodo roseo dal momento che la sanità militare non era ancora preparata sia come numero di risorse che di personale sanitario. La popolazione e i militari non avevano una cultura sanitaria, di prevenzione e igiene. All’inizio della guerra erano stati distribuiti i “libretti grigi” a 10 cent, che avrebbero dovuto dare delle informazioni di carattere preventivo. Molti militari però erano analfabeti e perciò si recarono al fronte solo con i consigli tramandati dalle famiglie. Inoltre, all’inizio, si pensava di concludere il conflitto in breve tempo, senza neppure superare la stagione invernale. Invece la guerra divenne una guerra di posizione con una miriade di feriti che giornalmente affluirono presso i posti di medicazione e gli ospedali da campo. Infine, si partiva con alle spalle il terremoto della Marsica (Abruzzo) che fece 30.000 morti. Gli eventi atmosferici si dimostrarono implacabili per tutto il periodo della guerra (forti nevicate dell’inverno 1915 e 1916/17), numerosi furono i terremoti (ben sei) che causarono vittime ma soprattutto molti senza tetto. Ci fu persino l’eruzione dell’Etna. I quotidiani non dedicarono spazio agli eventi sismici a causa dell’intervento delle autorità militari e di quello della censura con lo scopo di evitare l’insorgere di preoccupazione o proteste ed evitare di danneggiare l’immagine propagandata di un esercito forte e vittorioso.
L’arrivo dei primi feriti dal fronte carsico (prima e seconda battaglia dell’Isonzo) trovò gli ospedali pieni di militari affetti da malattie veneree. Infatti, la massa di giovani militari spostata verso il fronte attirò le prostitute italiane con il miraggio di buoni guadagni ma l’effetto fu deleterio. Inoltre, fin dall’inizio, gli ospedali si riempirono di malati con malattie infettive come colera e tifo portati dalle truppe austroungariche richiamate dalla Galizia. Se contiamo la miriade di feriti delle prime battaglie dell’Isonzo (solo nella prima 11.500 feriti) e i contagiati da colera e tifo nel 1915 che furono rispettivamente 7300 e 6000 circa, si comprende subito come il personale medico andò subito in affanno: aumento delle prestazioni, scarse attrezzature e materiale insufficiente, scarsi mezzi di trasporto per l’evacuazione dei feriti e dei malati.
Organizzazione
Il Servizio Sanitario dell’esercito italiano in 41 mesi di guerra dovette gestire il trasporto, la cura e il ricovero di oltre due milioni e mezzo di feriti ed ammalati. A capo dell’organizzazione rimase per tutto il conflitto il gen. Francesco Della Valle. Il servizio era formato dai soldati del Corpo della Sanità Militare, della Croce Rossa Italiana (personale medico e “Dame della Croce Rossa”, crocerossine volontarie) e il personale infermieristico volontario facente parte di vari comitati assistenziali (Cavalieri di Malta, Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro, Gesuiti). Solo nel 1918 fu ampliato dall’aiuto degli Alleati: centinaia di militari di Sanità britannici e statunitensi, con compiti di ambulanzieri ma anche barellieri e infermieri. Ricordo che a far parte della logistica sanitaria alleata sul fronte veneto fu presente il giovane Ernest Hemingway che descrisse poi la propria esperienza in “Addio alle armi”. Come sergente del Servizio Sanitario e cappellano militare troviamo Angelo Roncalli, che nel 1958 divenne Papa con il nome di Giovanni XXIII e ancora il soldato Giovanni Forgione futuro San Padre Pio. L’unità operativa di base era la Sezione di Sanità che faceva capo al Reggimento (3000 uomini). Era diretta da un Capitano medico-chirurgo. A livello di Battaglione (1000 uomini) c’era il Reparto di Sanità, comandato da un Tenente medicochirurgo con alle sue dirette dipendenze uno o due aspiranti ufficiali medici subalterni, un cappellano militare e circa 30 infermieri, portaferiti e barellieri. A livello di Compagnia (250 uomini) erano presenti Squadre di 10 uomini, dirette da sergenti o caporali Aiutanti di Sanità. Alle compagnie di alpini, di bersaglieri ciclisti e alle sezioni mitraglieri, erano inoltre assegnati militari con funzioni di supporto. Tutti portavano il bracciale distintivo internazionale (croce rossa su campo bianco). Perciò gli addetti al servizio sanitario si dividevano in due categorie: i soldati del Corpo della sanità militare con gli assimilati della Croce Rossa ed i militari di supporto assegnati per l’occasione. Inoltre esistevano Reparti di Sanità Someggiati, con il compito di sgombrare i feriti dalle prime linee con l’ausilio di muli o cavalli. Nelle retrovie troviamo strutture sanitarie fisse composte da grandi ospedali convalescenziari e magazzini sanitari. Le unità mobili, invece, per esigenze tattiche potevano essere spostate a seconda dell’occorrenza. Nel corso della guerra, a causa della staticità del fronte, divennero spesso stabili. Un notevole spostamento lo possiamo riscontrare solo alla disfatta di Caporetto che determinò però anche la perdita di interi ospedali e attrezzature sanitarie. L’unità mobile più semplice era l’infermeria campale (posto di medicazione o di soccorso a livello di battaglione). Era posizionata a ridosso delle prime linee e defilata dal fuoco nemico con il compito di primo punto di raccolta e medicazione dei feriti in combattimento.
A questo livello veniva fatto un primo rapido triage: cartellino bianco ferito leggero e rientro in prima linea scortato dai carabinieri, cartellino verde ovvero militare trasportabile con qualche chance. I feriti che non erano riusciti da soli ad arrestare emorragie, fasciarsi arti rotti o maciullati o rischiavano il dissanguamento venivano sommariamente medicati e quindi trasportati. Infine il cartellino rosso veniva assegnato a un militare non trasportabile che, di conseguenza, veniva sistemato in qualche tenda o casa situata nelle vicinanze non avendo nessuna possibilità di salvezza. La particolare disposizione del fronte in ambiente montano rese necessario l’aumento delle infermerie campali per la difficoltà nello sgombero dei malati e dei feriti a valle dovendo transitare lungo impervi sentieri di montagna spesso sotto il tiro dell’artiglieria nemica o dei cecchini. In montagna esistevano piccole infermerie avanzate dotate di 15 - 50 posti letto, situate in luoghi riparati o caverne scavate nella roccia.
Successivamente furono costruite diverse teleferiche che permisero un più rapido e sicuro trasferimento dei feriti. Feriti e malati erano trasportati alle Sezioni di Sanità (divisionali), unità mediche complete con gabinetti per analisi, per radiografie e ambienti chirurgici che permettevano di eseguire le operazioni più urgenti (amputazioni, allacciature dei vasi sanguigni).
Fondamentali furono le ambulanze radiologiche che potevano trasportare impianti radiologici mobili da schierare in prima linea. Ancora più indispensabili furono le ambulanze chirurgiche. Veri e propri reparti di chirurgia “volante”, gestite in genere da chirurghi di fama e dai loro assistenti, seguivano la linea del fronte. Erano fornite di una tenda-sala operatoria a doppia parete e di tenda per il ricovero dei feriti operati. Strutture rapidamente impiantabili in sole sei ore. Truppe specializzate nello sgombero e dotate di ambulanze a carretta (più tardi autoambulanze e autobus) e in ambiente montano muli o cani per il traino delle slitte o teleferiche, facevano la spola sino agli Ospedaletti da Campo. Successivamente, i sopravvissuti venivano trasportati agli Ospedali da Campo (corpo d’armata), dotati di 50-100 posti letto (spesso anche più grandi se il terreno in cui operavano era impervio o era servito da una viabilità disagevole). Gli ospedali erano situati in case private o ville ma a volte anche in un attendamento in mezzo ai prati. Anche a questo livello i feriti più o meno gravi erano smistati ad opera degli addetti al triage e, se possibile, venivano operati d’urgenza all’interno di ambienti non del tutto asettici. In mancanza di antibiotici (ricordiamo che Fleming scoprì la penicillina soltanto nel 1928, nel ‘30 si riuscì ad estrarla e il suo utilizzo venne approvato solo dopo il 1940) le infezioni erano all’ordine del giorno. Ai feriti in stato di shock per dissanguamento veniva somministrata adrenalina, ai sofferenti veniva data (come sedativo e fino a scorte esaurite) la morfina. Quelli per cui ogni intervento sarebbe stato inutile venivano lasciati agonizzare. Vista la mancanza di materiale, a questi ultimi molto spesso venivano tolte le bende per poterle utilizzare su qualche altro ferito con maggiori probabilità di sopravvivenza. Testimonianza dall’ ospedale da campo italiano di Romans d’Isonzo: “I feriti sono molti e hanno un aspetto spaventoso. In alcuni si vedono pendere le bende sanguinanti e pezzi di carne. Uno piange, l’altro geme, il terzo chiede aiuto . . . i feriti arrivano e partono in processione. Essi giacciono uno vicino all’altro nei corridoi, sulla paglia e vengono portati in sala d’operazione a seconda delle ferite più o meno gravi. Alcuni muoiono sulla barella, altri sul tavolo d’operazione, i più fortunati nel loro letto. Il sangue scorre in terra, non si può passare senza insanguinarsi, l’odore del sangue è perennemente nel naso . . .”. E ancora riferisce Giovanni Tolosano, 33° reggimento: “Siamo andati all’arma bianca. Il maggiore era lì con la rivoltella puntata che ci obbligava a uscire dalla trincea ... Sento un colpo nella spalla e un altro nel piede. “Oh pover mi, sun fotù”. A Plava concentrano i feriti alla stazione ferroviaria. Noi feriti saremo trecento tutti ammucchiati, ne restiamo vivi trentaquattro ...
Poi arriviamo a Udine, nel campo contumaciale, saremo cinquemila adesso i feriti. In uno stanzone al primo piano ci sono sette o otto medici che operano ... C’è una finestra spalancata e sotto nel cortile c’è un camion. I medici tagliano braccia e gambe e le buttano dalla finestra, le buttano sul camion perché non puzzino ...”. Da questi ospedali malati, feriti e convalescenti venivano smistati ai Settori Sanitari di Tappa (grossi ospedali, convalescenziari e nosocomi per malattie infettive) e, più avanti nell’interno del paese, ai Settori Sanitari Territoriali da cui iniziava l’eventuale flusso di rientro dei convalescenti ai reparti.
Per garantire un rapido trasferimento di una moltitudine di feriti furono attrezzati i treni ospedale. Ne furono attivi circa una sessantina, costituiti da convogli da 360 posti che, al rientro dal fronte, raggiungevano le zone più interne del paese, fermandosi nei rami morti delle grandi stazioni (Mestre, Torino, Padova, Verona). Allo scopo di decongestionare il più possibile le strutture ospedaliere in zona di guerra i feriti vennero in seguito ricoverati anche in navi ospedale o trasferiti con alcune navi (Albaro, Menphi, Po, Principessa Giovanna, Ferdinando Palasciano, Italia) dal fronte balcanico. Da ricordare anche il salvataggio dell’esercito serbo in ritirata, che venne imbarcato nei porti dell’Albania e trasportato in Italia. In Friuli, allo scopo di trasferire il gran numero di feriti del fronte carsico, fu riutilizzata la via fluviale della “Litoranea Veneta” (un grosso canale navigabile che collegava Grado a Mestre passando parallelo alla costa e distante da essa circa 5 km). Il trasferimento avvenne su chiatte rimorchiate da battelli.
Nel corso del conflitto (dal giugno 1915 al novembre 1918) il numero degli ospedali e la logistica sanitaria incrementò notevolmente. Si passò da 70 a 200 ospedali da campo mobili, da 24.000 a circa 40.000 posti letto nei vari ospedali da campo e dai 100.000 ai 500.000 posti letto nelle retrovie e nel resto del paese. Il numero delle ambulanze passò dalla iniziali 40 alle 1000 con 9 ambulanze chirurgiche e 17 radiologiche. Inoltre sorsero anche centri neuropsichiatrici, di rieducazione, sanatori tubercolari e campi contumaciali. Anche il personale sanitario (medici e infermieri) dovette essere incrementato a causa del notevole carico di lavoro ma ci fu anche la necessità di formarne di nuovo a causa delle continue perdite al fronte. Dal numero dei feriti che confluirono presso le strutture sanitarie nelle prime quattro battaglie dell’Isonzo (11.495 - 36.000 - 44.290 - 40.000 feriti) si può capire la mole di lavoro e la confusione che doveva regnare nelle infermerie e negli ospedali. Inoltre, all’inizio i mezzi per una veloce evacuazione dei feriti non erano ancora in numero sufficiente (treni). Si passo così dalle 8000 unità dislocate al fronte agli inizi del conflitto alle 18.000 a fine 1918. L’Italia entrò in guerra con soli 770 ufficiali medici e, successivamente, furono richiamati in servizio le classi più anziane fino ad arrivare, nel primo quadrimestre del 1916, alla rivalutazione dei riformati degli anni precedenti. Vennero anche chiamati in servizio, con il grado di aspirante ufficiale medico, gli studenti dell’ultimo biennio di medicina, previo corso di quattro mesi presso l’Università da campo di S. Giorgio di Nogaro. Nascono così i corsi accelerati di medicina per gli studenti militari e un ruolo importante lo ebbe l’Università Castrense. Fu collocata in un luogo strategico della bassa pianura friulana, al confine con l’impero Asburgico, tappa obbligata delle merci in entrata e uscita, stazione ferroviaria lungo la linea Trieste-Venezia e sede logistica bellica e sanitaria (nella cittadina si poteva contare su circa otto ospedali e nell’area erano presenti gli ospedali di Latisana, Palmanova e quello della Croce Rossa di Chiarisacco per un totale di circa altri 7-8 ospedali militari o civili). L’Università Castrense fu istituita il 26 gennaio 1916 con Decreto Luogotenenziale, inaugurata il 13 febbraio dello stesso anno con l’inizio dei corsi il giorno successivo. Fu visitata e ammirata dagli alleati inglesi, francesi e giapponesi in quanto esperimento unico in Italia e in Europa. I corsi accelerati duravano quattro mesi ed erano concentrati nel periodo invernale in cui l’attività bellica era meno intensa.
Gli studenti che conseguivano la laurea (presso le università del Regno) diventavano ufficiali medici, gli altri erano aspiranti ufficiali. Dei 365 allievi iniziali solamente 105 erano al passo con gli esami. Complessivamente passarono 1187 studenti e si laurearono in 366, 150 caddero in battaglia. Ad alcune famiglie arrivò a casa l’annuncio della morte del figlio prima del diploma di laurea. Presso l’Università erano presenti tutte le specialità, inclusa la clinica pediatria. In quel periodo anche i morti erano preziosi ed erano impiegati per le lezioni pratiche. La circolare del febbraio 1916 così recitava: “Nessun pezzo anatomico, arti mutilati o segmenti di cadavere aventi lesioni prodotte da armi e da traumi di guerra vada perduto. Si manderanno i pezzi in un ospedale viciniore e da qui verranno inviati all’Istituto di anatomia patologica della scuola medica di San Giorgio di Nogaro“. Inoltre vennero date prescrizioni precise, per garantire la conservazione dei “pezzi“: “Si utilizzi il metodo Kaiserling, preparando cmc 200 di formalina, cmc 1.000 di acqua, gr. 15 di potassio...”. Successivamente un altro prodotto fu provato per questo scopo: il Clorosol Giannettasio, preparato in polvere dalla farmacia Roberts di Firenze. Fu propagandato per essere in grado di combatte i processi suppurativi e accelerare la cicatrizzazione delle ferite. La stessa università di San Giorgio commentava che la sua efficacia era pari a quello di altri preparati d’ipoclorito, però causava irritazione delle prime vie aeree nel personale che era costretto ad aspirarne le esalazioni.
Università Popolare di Mestre – sezione storia moderna – Esculapio in trincea - fonte Marino Rinaldi

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