La Grande guerra sulle montagne del fronte orientale - i presidi medici sul fronte alpino – parte A
La
guerra durò quattro lunghi anni (dal 28 luglio 1914 e per l’Italia
dal 24 maggio 1915 fino al 4 novembre 1918) e fu una guerra di
logorio, combattuta da un esercito aggrappato al terreno carsico e
fra le montagne, immerso nel fango delle trincee, dove i soldati per
mesi e mesi furono martellati dal continuo e ininterrotto fuoco delle
artiglierie. Il fronte su cui si batterono fanti e alpini era
notevolmente impervio: andava dai ghiacciai di 4000 metri, alle
guglie delle Dolomiti e al sassoso Carso. In un simile ambiente i
soldati dovettero affrontare gelo, neve (morte bianca), scarsità
d’acqua nel periodo estivo, scoppio delle gallerie di mina (sul
Pasubio trovarono la morte 2000 soldati). Armi, equipaggiamenti,
materiali, strumentazioni e tecniche di combattimento subirono
rispetto al passato un notevole rivoluzionamento. Per la prima volta
comparvero nuove armi micidiali in grado di mietere in poco tempo
molte vittime: armi automatiche (mitragliatrici), lanciafiamme, carri
amati, bombardamenti aerei, gas asfissianti (il 29 giugno 1916 nel
settore di San Michele e di San Martino vi furono più di 6.000
vittime tra morti, asfittici e feriti), micidiali bombe shrapnel con
spoletta a tempo, sottomarini. Sconvolgente è il numero di morti che
si ebbero. Le stime non sono proprio univoche. In Italia circa
651.000 militari morti che, raffrontati ai 10.000 morti delle tre
guerre di indipendenza o ai 291.000 della seconda guerra mondiale,
fanno proprio riflettere. In campo mondiale si arrivò a 8-9 milioni
di morti. Inoltre non dobbiamo dimenticare i civili che perirono a
causa di malattie, carestia o bombardamenti. In Italia si contò
circa un milione di morti fra la popolazione civile. A livello
mondiale le stime oscillarono tra i 7 e 9 milioni. Il numero delle
vittime potrebbe essere anche ben più alto se nel computo venissero
conteggiate le morti provocate da eventi correlati al conflitto come
il genocidio armeno e la guerra civile russa. Anche la Marina
italiana pagò un alto contributo di vite umane. 21 ufficiali e 237
marinai perirono per l’affondamento per sabotaggio della corazzata
Leonardo da Vinci nel porto di Taranto. Altri 700 marinai persero la
vita per l’affondamento della corazzata Regina Margherita a causa
di una mina nel rientro in Italia da Valona (Albania). Aveva senso?
Un tale disastro non ha giustificazioni! È ovvio che un numero così
elevato di giovani militari uccisi è comprensibile quando le
disposizione delle alte sfere
recitavano così: “Per attacco brillante si calcola quanti uomini
la mitragliatrice può abbattere e si lancia all’attacco un numero
di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice […]”
e “Le sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini” (Luigi
Cadorna). Presso la spianata di Korbania nei Carpazi 4000 Kaiserjäger
tirolesi furono costretti a tenere la posizione fino all’ultimo
uomo; dopo 4 giorni ne rimasero in vita solo 200. Il sottotenente
Biedermann lamentava con profonda amarezza il fatto che il colonnello
responsabile “si trova nelle retrovie a 40 chilometri dal fronte,
riempiendosi con birra, cavolfiori al burro, trote e allegre
slittate” … “non si trova nessuno che gli impedisca di nuocere,
lo cacci o lo faccia ricoverare in manicomio?”. Come possiamo
notare, da entrambe le parti gli alti ufficiali senza scrupoli, al
sicuro, lontano dal fronte, mandavano a morire migliaia di esseri
umani secondo piani redatti a tavolino (a dimostrazione che il mondo
non è mai cambiato …).
Ai
morti per ferite o malattie dobbiamo purtroppo aggiungere anche
quelli eliminati per punire la mancata esecuzione degli ordini dei
superiori: circa 750 le condanne a morte eseguite. Le frasi dette da
Cadorna sono emblematiche: “Il superiore ha il sacro potere di
passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi”
oppure “Chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere,
sarà raggiunto prima che si infami dalla giustizia sommaria del
piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati
di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato
da quello dell’ufficiale”. La testimonianza di Cesare De Simone,
tratto da “L’Isonzo mormorava” conferma quanto avveniva nella
realtà: “Tutte le volte che c’era un attacco arrivavano i
carabinieri. Entravano nelle nostre trincee, i loro ufficiali li
facevano mettere in fila dietro di noi e noi sapevamo che, quando
sarebbe stata l’ora, avrebbero sparato addosso a chiunque si fosse
attardato nei camminamenti invece di andare all’assalto. Questo
succedeva spesso. C’erano dei soldati, ce n’erano sempre, che
avevano paura di uscire fuori dalla trincea quando le mitragliatrici
austriache sparavano all’impazzata contro di noi. Allora i
carabinieri li prendevano e li fucilavano. A volte era l’ufficiale
che li ammazzava a rivoltellate”. Soldato B.N. 25 anni, condannato
a 4 anni di reclusione per lettera denigratoria nel 1916: “Non si
creda agli atti di valore dei soldati, non si dia retta alle altre
fandonie del giornale, sono menzogne. Non combattono, no, con
orgoglio, né con ardore; essi vanno al macello perché sono guidati
e perché temono la fucilazione. Se avessi per le mani il capo del
governo, o meglio dei briganti, lo strozzerei”. Questo aspetto
della guerra è una storia volutamente dimenticata. Il numero
ufficiale dei morti è alto ma probabilmente non corrisponde al vero.
Difficile distinguere le vittime da mano amica o nemica
nell’immediatezza di un attacco.
Le
decimazioni per dare un messaggio esemplare ammontarono
a più di ottanta. Sempre il generale Cadorna: ”… ricordo che non
vi è altro mezzo idoneo
a
reprimere reato collettivo che quello dell’immediata fucilazione
dei maggiori responsabili e allorché l’accertamento personale dei
responsabili non è possibile rimane il dovere ed il diritto dei
comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e
punirli con la morte …”. Esemplare fu quella delle brigata
Ravenna (29 fucilati) e Catanzaro (28 fucilati). Infine molti furono
i prigionieri che non rientrarono in patria e morirono di stenti,
fame, freddo, malattie e tubercolosi. Su 600.000 non tornarono dai
campi di prigionia in 100.000. Per quanto il diritto internazionale
(convenzione dell’Aja) prevedesse che i prigionieri non potessero
ricevere un vitto peggiore delle proprie truppe, nessuno rispettava
questa regola. Inoltre i prigionieri erano considerati come persone
di rango inferiore. Nel corso della guerra il numero dei prigionieri
salì a quasi due milioni e le risorse alimentari diventarono sempre
più carenti. Si pensi che, all’interno dell’Impero, si dovevano
cuocere circa 700.000 Kg di pane per tutti i prigionieri ma, in
mancanza di risorse, la scarsa farina era mischiata con della polvere
derivata dalla macinazione delle ghiande o della paglia.
La
mancanza di generi alimentari colpì sia i prigionieri in mano agli
Austroungarici che i militari stessi. Questi ultimi, alla fine della
guerra, si trovarono debilitati e più soggetti ad ammalarsi della
terribile influenza spagnola che provocò milioni di morti in tutto
il pianeta. La moria di prigionieri italiani fu inoltre aiutata dal
blocco totale dei pacchi viveri mandati dalle famiglie. Ciò a causa
dell’infame campagna di accuse costruite a tavolino rivolta ai
prigionieri tacciati di una presunta debolezza morale, di aver
scioperato o di essersi dati volontariamente al nemico. Non vennero
attribuite le giuste responsabilità ai comandi, colpevoli di
applicare tattiche vecchie ed inefficaci per una guerra moderna,
mandando a morte certa i propri uomini nel tentativo disperato di
avanzare ad ogni costo di qualche metro e per giustificare la
disfatta di Caporetto senza mettere alla berlina il “generalissimo”
Cadorna. Secondo i vertici militari i prigionieri non dovevano essere
ricordati o nutriti e così furono abbandonati a se stessi, non
avevano nulla di cui nutrirsi e vivevano in condizioni igieniche a
dir poco pessime. Per dare un’idea qui di seguito riporto alcuni
stralci delle lettere che ci sono pervenute. Lager di Milovice,
nell’attuale repubblica Ceca dove, di fame e freddo, morirono circa
17 mila prigionieri italiani: “… la gran fame aveva ridotto tanti
e tanti poveracci privi di ragione, stupidi come bimbi di quattro
anni che strusciando per terra raccattavano qualche porcaia e se la
mettevano in bocca. Si vedevano di quelli affamati, guardando a
terra, trovando qualche corteccia di patate anche fra l’immondizia
la raccattavamo e se la mangiavano e se erano tre o quattro se la
litigavano pure”. E ancora la descrizione degli alimenti forniti
presso il campo di concentramento di Darmstad (Germania): “una
broda nerastra insapora composta di pezzettini di carote ed acqua,
acqua di fonte e null’altro assieme” - “bevanda con un
miscuglio d’una farina color caffè, la qual farina, al par della
sabbia, calava rapidamente sul fondo dei recipienti” – “caffè,
un liquido color di tintura di jodio nauseante né più né meno
dell’infuso di Vienna, tanto ripugnante che nessuno di noi nemmeno
l’assaggiava” - “pane, non era altro che un conglomerato chissà
di quali selvagge sostanze, una pasta cruda anch’essa color
tabacco, attaccaticcia, tenuta insieme da una crosta nera in carbone,
crosta bruciata superficialmente da una repentina cottura. Capitava
spesso di discernere tra questo ripugnante pane della pagliuzza,
delle fibre di legno, oppure bucce di qualche frutto selvatico”. E
ancora sempre dal Lager di Milovice: “raccattavano certe teste di
pesci putrefatti, gettati alla latrina, fra l’orina, e senza
ripulirle le mettevano in bocca e se le mangiavano” - “uno aveva
ricevuto un pacco di pane secco, dalla fame se lo mangiò tutto; il
pane dentro al corpo cresceva finché lo dovette far fuori tutto; si
incontra a passare di lì uno di queste più affamati; veduto quel
pane rifatto fuori a terra, cava fuori il suo cucchiaio e si mete a
mangiarlo …” - “vendevano della marmellata e chi aveva i soldi
la comprava e se la mangiava gettando via la carta, che andava a
cadere sul pavimento, tutto sporco di sputi e catarro. Abbiamo visto
qualche … raccattare le carte piene di sputacci e leccarle”
La
sanità militare
Come
si dovette organizzare la sanità militare nel corso del primo
conflitto mondiale? Non fu certamente un periodo roseo dal momento
che la sanità militare non era ancora preparata sia come numero di
risorse che di personale sanitario. La popolazione e i militari non
avevano una cultura sanitaria, di prevenzione e igiene. All’inizio
della guerra erano stati distribuiti i “libretti grigi” a 10
cent, che avrebbero dovuto dare delle informazioni di carattere
preventivo. Molti militari però erano analfabeti e perciò si
recarono al fronte solo con i consigli tramandati dalle famiglie.
Inoltre, all’inizio, si pensava di concludere il conflitto in breve
tempo, senza neppure superare la stagione invernale. Invece la guerra
divenne una guerra di posizione con una miriade di feriti che
giornalmente affluirono presso i posti di medicazione e gli ospedali
da campo. Infine, si partiva con alle spalle il terremoto della
Marsica (Abruzzo) che fece 30.000 morti. Gli eventi atmosferici si
dimostrarono implacabili per tutto il periodo della guerra (forti
nevicate dell’inverno 1915 e 1916/17), numerosi furono i terremoti
(ben sei) che causarono vittime ma soprattutto molti senza tetto. Ci
fu persino l’eruzione dell’Etna. I quotidiani non dedicarono
spazio agli eventi sismici a causa dell’intervento delle autorità
militari e di quello della censura con lo scopo di evitare
l’insorgere di preoccupazione o proteste ed evitare di danneggiare
l’immagine propagandata di un esercito forte e vittorioso.
L’arrivo
dei primi feriti dal fronte carsico (prima e seconda battaglia
dell’Isonzo) trovò gli ospedali pieni di militari affetti da
malattie veneree. Infatti, la massa di giovani militari spostata
verso il fronte attirò le prostitute italiane con il miraggio di
buoni guadagni ma l’effetto fu deleterio. Inoltre, fin dall’inizio,
gli ospedali si riempirono di malati con malattie infettive come
colera e tifo portati dalle truppe austroungariche richiamate dalla
Galizia. Se contiamo la miriade di feriti delle prime battaglie
dell’Isonzo (solo nella prima 11.500 feriti) e i contagiati da
colera e tifo nel 1915 che furono rispettivamente 7300 e 6000 circa,
si comprende subito come il personale medico andò subito in affanno:
aumento delle prestazioni, scarse attrezzature e materiale
insufficiente, scarsi mezzi di trasporto per l’evacuazione dei
feriti e dei malati.
Organizzazione
Il
Servizio Sanitario dell’esercito italiano in 41 mesi di guerra
dovette gestire il trasporto, la cura e il ricovero di oltre due
milioni e mezzo di feriti ed ammalati. A capo dell’organizzazione
rimase per tutto il conflitto il gen. Francesco Della Valle. Il
servizio era formato dai soldati del Corpo della Sanità Militare,
della Croce Rossa Italiana (personale medico e “Dame della Croce
Rossa”, crocerossine volontarie) e il personale infermieristico
volontario facente parte di vari comitati assistenziali (Cavalieri di
Malta, Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro, Gesuiti). Solo nel 1918 fu
ampliato dall’aiuto degli Alleati: centinaia di militari di Sanità
britannici e statunitensi, con compiti di ambulanzieri ma anche
barellieri e infermieri. Ricordo che a far parte della logistica
sanitaria alleata sul fronte veneto fu presente il giovane Ernest
Hemingway che descrisse poi la propria esperienza in “Addio alle
armi”. Come sergente del Servizio Sanitario e cappellano militare
troviamo Angelo Roncalli, che nel 1958 divenne Papa con il nome di
Giovanni XXIII e ancora il soldato Giovanni Forgione futuro San Padre
Pio. L’unità operativa di base era la Sezione di Sanità che
faceva capo al Reggimento (3000 uomini). Era diretta da un Capitano
medico-chirurgo. A livello di Battaglione (1000 uomini) c’era il
Reparto di Sanità, comandato da un Tenente medicochirurgo con alle
sue dirette dipendenze uno o due aspiranti ufficiali medici
subalterni, un cappellano militare e circa 30 infermieri, portaferiti
e barellieri. A livello di
Compagnia
(250 uomini) erano presenti Squadre di 10 uomini, dirette da sergenti
o caporali Aiutanti di Sanità. Alle compagnie di alpini, di
bersaglieri ciclisti e alle sezioni mitraglieri, erano inoltre
assegnati militari con funzioni di supporto. Tutti portavano il
bracciale distintivo internazionale (croce rossa su campo bianco).
Perciò gli addetti al servizio sanitario si dividevano in due
categorie: i soldati del Corpo della sanità militare con gli
assimilati della Croce Rossa ed i militari di supporto assegnati per
l’occasione. Inoltre esistevano Reparti di Sanità Someggiati, con
il compito di sgombrare i feriti dalle prime linee con l’ausilio di
muli o cavalli. Nelle retrovie troviamo strutture sanitarie fisse
composte da grandi ospedali convalescenziari e magazzini sanitari. Le
unità mobili, invece, per esigenze tattiche potevano essere spostate
a seconda dell’occorrenza. Nel corso della guerra, a causa della
staticità del fronte, divennero spesso stabili. Un notevole
spostamento lo possiamo riscontrare solo alla disfatta di Caporetto
che determinò però anche la perdita di interi ospedali e
attrezzature sanitarie. L’unità mobile più semplice era
l’infermeria campale (posto di medicazione o di soccorso a livello
di battaglione). Era posizionata a ridosso delle prime linee e
defilata dal fuoco nemico con il compito di primo punto di raccolta e
medicazione dei feriti in combattimento.
A
questo livello veniva fatto un primo rapido triage: cartellino bianco
ferito leggero e rientro in prima linea scortato dai carabinieri,
cartellino verde ovvero militare trasportabile con qualche chance. I
feriti che non erano riusciti da soli ad arrestare emorragie,
fasciarsi arti rotti o maciullati o rischiavano il dissanguamento
venivano sommariamente medicati e quindi trasportati. Infine il
cartellino rosso veniva assegnato a un militare non trasportabile
che, di conseguenza, veniva sistemato in qualche tenda o casa situata
nelle vicinanze non avendo nessuna possibilità di salvezza. La
particolare disposizione del fronte in ambiente montano rese
necessario l’aumento delle infermerie
campali
per la difficoltà nello sgombero dei malati e dei feriti a valle
dovendo transitare lungo impervi sentieri di montagna spesso sotto il
tiro dell’artiglieria nemica o dei cecchini. In montagna esistevano
piccole infermerie avanzate dotate di 15 - 50 posti letto, situate in
luoghi riparati o caverne scavate nella roccia.
Successivamente
furono costruite diverse teleferiche che permisero un più rapido e
sicuro trasferimento dei feriti. Feriti e malati erano trasportati
alle Sezioni di Sanità (divisionali), unità mediche complete con
gabinetti per analisi, per radiografie e ambienti chirurgici che
permettevano di eseguire le operazioni più urgenti (amputazioni,
allacciature dei vasi sanguigni).
Fondamentali
furono le ambulanze radiologiche che potevano trasportare impianti
radiologici mobili da schierare in prima linea. Ancora più
indispensabili furono le ambulanze chirurgiche. Veri e propri reparti
di chirurgia “volante”, gestite in genere da chirurghi di fama e
dai loro assistenti, seguivano la linea del fronte. Erano
fornite di una tenda-sala operatoria a doppia parete e di tenda per
il ricovero dei feriti operati. Strutture rapidamente impiantabili in
sole sei ore. Truppe specializzate nello sgombero e dotate di
ambulanze a carretta (più tardi autoambulanze e autobus) e in
ambiente montano muli o cani per il traino delle slitte o
teleferiche, facevano la spola sino agli Ospedaletti da Campo.
Successivamente, i sopravvissuti venivano trasportati agli Ospedali
da Campo (corpo d’armata), dotati di 50-100 posti letto (spesso
anche più grandi se il terreno in cui operavano era impervio o era
servito da una viabilità disagevole). Gli ospedali erano situati in
case private o ville ma a volte anche in un attendamento in mezzo ai
prati. Anche a questo livello i feriti più o meno gravi erano
smistati ad opera degli addetti al triage e, se possibile, venivano
operati d’urgenza all’interno di ambienti non del tutto asettici.
In mancanza di antibiotici (ricordiamo che Fleming scoprì la
penicillina soltanto nel 1928, nel ‘30 si riuscì ad estrarla e il
suo utilizzo venne approvato solo dopo il 1940) le infezioni erano
all’ordine del giorno. Ai feriti in stato di shock per
dissanguamento veniva somministrata adrenalina, ai sofferenti veniva
data (come sedativo e fino a scorte esaurite) la morfina. Quelli per
cui ogni intervento sarebbe
stato inutile venivano lasciati agonizzare. Vista la mancanza di
materiale, a questi ultimi molto spesso venivano tolte le bende per
poterle utilizzare su qualche altro ferito con maggiori probabilità
di sopravvivenza. Testimonianza dall’ ospedale da campo italiano di
Romans d’Isonzo: “I
feriti sono molti e hanno un aspetto spaventoso. In alcuni si vedono
pendere le bende sanguinanti e pezzi di carne. Uno piange, l’altro
geme, il terzo chiede aiuto . . . i feriti arrivano e partono in
processione. Essi giacciono uno vicino all’altro nei corridoi,
sulla paglia e vengono portati in sala d’operazione a seconda delle
ferite più o meno gravi. Alcuni muoiono sulla barella, altri sul
tavolo d’operazione, i più fortunati nel loro letto. Il sangue
scorre in terra, non si può passare senza insanguinarsi, l’odore
del sangue è perennemente nel naso . . .”. E
ancora riferisce Giovanni Tolosano, 33° reggimento: “Siamo
andati all’arma bianca. Il maggiore era lì con la rivoltella
puntata che ci obbligava a uscire dalla trincea ... Sento un colpo
nella spalla e un altro nel piede. “Oh pover mi, sun fotù”. A
Plava concentrano i feriti alla stazione ferroviaria. Noi feriti
saremo trecento tutti ammucchiati, ne restiamo vivi trentaquattro ...
Poi
arriviamo a Udine, nel campo contumaciale, saremo cinquemila adesso i
feriti. In uno stanzone al primo piano ci sono sette o otto medici
che operano ... C’è una finestra spalancata e sotto nel cortile
c’è un camion. I medici tagliano braccia e gambe e le buttano
dalla finestra, le buttano sul camion perché non puzzino ...”. Da
questi ospedali malati, feriti e convalescenti venivano smistati ai
Settori Sanitari di Tappa (grossi ospedali, convalescenziari e
nosocomi per malattie infettive) e, più avanti nell’interno del
paese, ai Settori Sanitari Territoriali da cui iniziava l’eventuale
flusso di rientro dei convalescenti ai reparti.
Per
garantire un rapido trasferimento di una moltitudine di feriti furono
attrezzati i treni ospedale. Ne furono attivi circa una sessantina,
costituiti da convogli da 360 posti che, al rientro dal fronte,
raggiungevano le zone più interne del paese, fermandosi nei rami
morti delle grandi stazioni (Mestre, Torino, Padova, Verona). Allo
scopo di decongestionare il più possibile le strutture ospedaliere
in zona di guerra i feriti vennero in seguito ricoverati anche in
navi ospedale o trasferiti con alcune navi (Albaro, Menphi, Po,
Principessa Giovanna, Ferdinando Palasciano, Italia) dal fronte
balcanico. Da ricordare anche il salvataggio dell’esercito serbo in
ritirata, che venne imbarcato nei porti dell’Albania e trasportato
in Italia. In Friuli, allo scopo di trasferire il gran numero di
feriti del fronte carsico, fu riutilizzata la via fluviale della
“Litoranea Veneta” (un grosso canale navigabile che collegava
Grado a Mestre passando parallelo alla costa e distante da essa circa
5 km). Il trasferimento avvenne su chiatte rimorchiate da battelli.
Nel
corso del conflitto (dal giugno 1915 al novembre 1918) il numero
degli ospedali e la logistica sanitaria incrementò notevolmente. Si
passò da 70 a 200 ospedali da campo mobili, da 24.000 a circa 40.000
posti letto nei vari ospedali da campo e dai 100.000 ai 500.000 posti
letto nelle retrovie e nel resto del paese. Il numero delle ambulanze
passò dalla iniziali 40 alle 1000 con 9 ambulanze chirurgiche e 17
radiologiche. Inoltre sorsero anche centri neuropsichiatrici, di
rieducazione, sanatori tubercolari e campi contumaciali. Anche il
personale sanitario (medici e infermieri) dovette essere incrementato
a causa del notevole carico di lavoro ma ci fu anche la necessità di
formarne di nuovo a causa delle continue perdite al fronte. Dal
numero dei feriti che confluirono presso le strutture sanitarie nelle
prime quattro battaglie dell’Isonzo (11.495 - 36.000 - 44.290 -
40.000 feriti) si può capire la mole di lavoro e la confusione che
doveva regnare nelle infermerie e negli ospedali. Inoltre, all’inizio
i mezzi per una veloce evacuazione dei feriti non erano ancora in
numero sufficiente (treni). Si passo così dalle
8000 unità dislocate al fronte agli inizi del conflitto alle 18.000
a fine 1918. L’Italia entrò in guerra con soli 770 ufficiali
medici e, successivamente, furono richiamati in servizio le classi
più anziane fino ad arrivare, nel primo quadrimestre del 1916, alla
rivalutazione dei riformati degli anni precedenti. Vennero anche
chiamati in servizio, con il grado di aspirante ufficiale medico, gli
studenti dell’ultimo biennio di medicina, previo corso di quattro
mesi presso l’Università da campo di S. Giorgio di Nogaro. Nascono
così i corsi accelerati di medicina per gli studenti militari e un
ruolo importante lo ebbe l’Università Castrense. Fu collocata in
un luogo strategico della bassa pianura friulana, al confine con
l’impero Asburgico, tappa obbligata delle merci in entrata e
uscita, stazione ferroviaria lungo la linea Trieste-Venezia e sede
logistica bellica e sanitaria (nella cittadina si poteva contare su
circa otto ospedali e nell’area erano presenti gli ospedali di
Latisana, Palmanova e quello della Croce Rossa di Chiarisacco per un
totale di circa altri 7-8 ospedali militari o civili). L’Università
Castrense fu istituita il 26 gennaio 1916 con Decreto
Luogotenenziale, inaugurata il 13 febbraio dello stesso anno con
l’inizio dei corsi il giorno successivo. Fu visitata e ammirata
dagli alleati inglesi, francesi e giapponesi in quanto esperimento
unico in Italia e in Europa. I corsi accelerati duravano quattro mesi
ed erano concentrati nel periodo invernale in cui l’attività
bellica era meno intensa.
Gli
studenti che conseguivano la laurea (presso le università del Regno)
diventavano ufficiali medici, gli altri erano aspiranti ufficiali.
Dei 365 allievi iniziali solamente 105 erano al passo con gli esami.
Complessivamente passarono 1187 studenti e si laurearono in 366, 150
caddero in battaglia. Ad alcune famiglie arrivò a casa l’annuncio
della morte del figlio prima del diploma di laurea. Presso
l’Università erano presenti tutte le specialità, inclusa la
clinica pediatria. In quel periodo anche i morti erano preziosi ed
erano impiegati per le lezioni pratiche. La circolare del febbraio
1916 così recitava: “Nessun pezzo anatomico, arti mutilati o
segmenti di cadavere aventi lesioni prodotte da armi e da traumi di
guerra vada perduto. Si manderanno i pezzi in un ospedale viciniore e
da qui verranno inviati all’Istituto di anatomia patologica della
scuola medica di San Giorgio di Nogaro“. Inoltre vennero date
prescrizioni precise, per garantire la conservazione dei “pezzi“:
“Si utilizzi il metodo Kaiserling, preparando cmc 200 di formalina,
cmc 1.000 di acqua, gr. 15 di potassio...”. Successivamente un
altro prodotto fu provato per questo scopo: il Clorosol Giannettasio,
preparato in polvere dalla farmacia Roberts di Firenze. Fu
propagandato per essere in grado di combatte i processi suppurativi e
accelerare la cicatrizzazione delle ferite. La stessa università di
San Giorgio commentava che la sua efficacia era pari a quello di
altri preparati d’ipoclorito, però causava irritazione delle prime
vie aeree nel personale che era costretto ad aspirarne le esalazioni.
Università
Popolare di Mestre – sezione storia moderna – Esculapio in
trincea - fonte Marino Rinaldi
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