Il campo trincerato del Nagià-Grom

Il caposaldo del monte Nagià-Grom venne costruito a partire dalla primavera del 1915, ma subì ampliamenti e modifiche per tutta la durata della guerra. Venne realizzato come parte integrante del sistema fortificato campale a difesa del territorio compreso tra Riva del Garda e la Vallagarina: permetteva infatti di sorvegliare gli accessi alla Val di Gresta dalla Valle di Loppio e dalla Vallagarina. Assieme al vicino monte Faé rappresentava il perno della linea difensiva del “sottosettore 4a” (monte Biaena); con le postazioni “Costa” e “San Rocco” formava un “gruppo di combattimento” (Kampfgruppe) autonomo, dotato di 4 mitragliatrici, due cannoni da 9 cm M.75/96 e due cannoni da montagna da 7,5 cm M.15. Erano presenti lanciamine (Minenwerfer) ed un riflettore da 60 cm. Nell’estate del 1915 il caposaldo era presidiato da un plotone di fanteria (cinquanta soldati al comando di un cadetto aspirante ufficiale) e da un distaccamento d’artiglieria. Nel 1916 la guarnigione raggiunse la forza di tre plotoni al comando di un capitano, rafforzati con una parte del battaglione Standschützen “Kitzbühel” (l’altra parte era sul monte Faé).
Il caposaldo era in grado di difendersi da tentativi di aggiramento e costituiva un complesso piuttosto articolato, organizzato in modo da garantire al presidio militare la massima autonomia possibile. Sulla sommità venne scavata una trincea perimetrale che garantiva una difesa a 360°, suddivisa in postazioni di combattimento numerate in cifre romane da I a XIV. Dalla trincea sommitale, dalle postazioni d’artiglieria in caverna o all’aperto e dagli osservatori, partivano i camminamenti che assicuravano un collegamento protetto con i servizi situati nel cuore della fortificazione. Attraverso questi passaggi si compiva il rito quotidiano del cambio delle truppe di presidio alle trincee come pure il servizio di rifornimento dal deposito delle munizioni. In posizione defilata dal tiro delle artiglierie nemiche erano collocati i centri vitali del caposaldo: baraccamenti per l’alloggio degli ufficiali, delle truppe e degli operai militarizzati, magazzini di materiali, un cisterna da campo ed una cucina dotata di un ampio magazzino viveri.
Sul Nagià-Grom l’esercito austro-ungarico realizzò postazioni d’artiglieria (in caverna ed “in barbetta”, cioè all’aperto), osservatori d’artiglieria e una piazzola per un riflettore. Nel corso del conflitto le artiglierie del caposaldo appoggiarono le operazioni militari del settore senza che la struttura fosse mai direttamente coinvolta in combattimenti ravvicinati; i numerosi crateri ancora oggi visibili testimoniano però che l’area fu bombardata dagli italiani. Dagli osservatori gli ufficiali addetti verificavano la correttezza e l’efficacia dei tiri e, attraverso linee telefoniche, comunicavano le informazioni raccolte alla direzione di tiro. Dall’osservatorio in cemento posizionato sulla sommità del Nagià-Grom è possibile spaziare con lo sguardo su un’ampia porzione del Trentino meridionale, tra il Col Santo e le propaggini settentrionali del Pasubio, ad est, e la Rocchetta sulla sponda occidentale del lago di Garda, ad ovest. Il territorio controllato corrispondeva al campo di tiro delle artiglierie e comprendeva il settore tra il monte Zugna ad est e la Rocchetta ad ovest, dove erano le prime linee italiane. Per l’esercito austro-ungarico era fondamentale localizzare le artiglierie italiane di questo settore: i piccoli calibri sui costoni che discendono dal monte Altissimo di Nago proteggevano la prima linea italiana e tenevano sotto tiro quella austro-ungarica. I medi calibri italiani erano invece più arretrati, lungo il crinale che dal monte Vignola prosegue verso ovest, sull’Altissimo di Nago e sul Varagna. La presenza di crateri di granate di medio calibro intorno all’osservatorio testimonia che strutture come questa erano sottoposte a pesanti bombardamenti dal nemico: la loro distruzione permetteva di “accecare” le artiglierie avversarie e di ridurne la precisione del tiro.
Dal maggio del 1915, allo scoppio della guerra con l’Italia le aree limitrofe al confine vennero evacuate e la popolazione civile allontanata. La stessa sorte toccò anche ai paesi della Val di Gresta, Mori e Rovereto. Dai centri abitati attraversati dalle linee austroungariche dovettero partire più di 70.000 persone: un parte di loro trovò ospitalità nelle campagne della Boemia e della Moravia; altre decine di migliaia vennero concentrate in grandi campi, come quelli di Mitterndorf e Braunau am Inn, vere e proprie “città di legno” che arrivano a contenere 20 mila sfollati. Nelle baracche la miseria, l’indigenza, la mortalità raggiunsero proporzioni enormi e si instaurarono per la prima volta forme di militarizzazione della vita civile. Altri 30.000 trentini, abitanti nei paesi occupati dall’esercito italiano, tra il 1915 ed il 1916 vennero evacuati verso sud in diverse località della penisola. I centri evacuati vennero occupati dai militari e subirono intensi bombardamenti da parte delle artiglierie che li danneggiarono gravemente riducendoli spesso a cumuli di rovine. Era da qualche giorno che i paesi si trovavano deserti di uomini quando nella notte del 27 maggio 1915 si sentì bussare fortemente alle porte ed era il segnale della partenza. Ancor quel giorno si doveva partire e portare con se anche le bestie. C’era ordine di prendersi da mangiare solo per cinque giorni e di non aver con se più di un pacchetto di cinque chili. Non è certo possibile descrivere la costernazione e la confusione di tutti a quell’improvvisa sciagura. La gente era quasi fuori di se e non sapeva quello che si faceva. Abbiamo trascinato in qualche modo la roba negli avvolti credendo che fosse sicura poi ci abbiamo preparato in qualche modo un po’ di mangiare e poi col nostro fagotto sulle spalle come tanti pellegrini abbiamo abbandonato a malincuore la nostra casa e il nostro caro paesello natio dove abbiamo passato tanti belli anni felici per avviarci alla stazione di Rovereto […] Alla fine fummo invagonati come le bestie e siamo stati sul viaggio alcuni giorni, poi ci hanno scarmigliati un pochi in mezzo a gente tedesca che non poteva intenderci neppure una parola. […] Finalmente dopo tre mesi ci riunirono tutti nel campo di Mittendorf ci avevano preparato le baracche ma queste essendo poche e le persone tante ci avevano messo in quattro cinque famiglie a dormire in una piccola camera.

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