Gli aurighi nell’antica Roma. A metà tra stregoni e mercenari
Gli
aurighi dell’antica Roma non erano solo conosciuti come abilissimi
conducenti di carri, ma anche per la loro fama controversa. Alcuni di
loro raggiunsero lo status di vere e proprie celebrità, ma erano
spesso visti anche come figure rozze e brutali. Questo era dovuto non
solo alla natura violenta delle gare, ma anche all’aggressività
dei loro tifosi, che contribuiva a rafforzare questa immagine.
La
loro fama era ulteriormente complicata dal fatto che molti aurighi,
pur essendo famosi, erano schiavi. Questo contrasto rendeva il loro
ruolo ancora più affascinante ma anche inquietante agli occhi dei
Romani.
Gli
aurighi erano inoltre associati a pratiche superstiziose. Sono state
trovate numerose defixiones,
ossia maledizioni scritte, legate al mondo delle corse dei carri.
Questi rituali, utilizzati dai sostenitori delle varie squadre per
danneggiare gli avversari, hanno contribuito a rendere l’immagine
degli aurighi ancora più ambigua e sinistra.
Le
maledizioni legate agli aurighi sono tra i testi più violenti che ci
siano pervenuti. Un esempio, trovato a Hadrumetum, invoca un demone
affinché “torturi
e uccida”
(crucies occidas) i cavalli delle squadre avversarie. Non meno
crudele è il desiderio di “uccidere
e distruggere”
(occidas collidas) gli stessi aurighi rivali (DT 286).
In
altre tavolette ritrovate nello stesso luogo si leggono frasi come:
“possa
cadere, possa spezzarsi, possa essere fatto a pezzi”
(cadat frangat disfrangatur, DT 279), un’ulteriore dimostrazione
della violenza verbale tipica dell’ambiente circense.
A
rafforzare l’idea del circo come luogo pericoloso è anche un passo
di Cicerone, che descrive come “un auriga inesperto venga sbalzato
dal carro, schiacciato, lacerato e ridotto a brandelli” (ut auriga
indoctus e curru trahitur opteritur laniatur eliditur).
Il
legame tra aurighi e magia
Fin
dall’antichità, gli aurighi erano spesso associati alla magia. Nel
IV secolo, lo storico Ammiano Marcellino li cita in relazione
al veneficium (un
termine che indicava pratiche magiche) in almeno tre episodi. In uno
di questi (28.4.25), fa riferimento in generale alla classe degli
aurighi. In un altro episodio, parla di un certo Auchenino, coinvolto
in pratiche magiche insieme a quattro senatori (28.1.27). Infine,
narra di un uomo di nome Ilarino, condannato per aver affidato il
figlio a un mago (veneficus,
26.3.3).
È
interessante notare che in nessuno di questi casi il veneficium è
esplicitamente collegato al circo, anche se, nel caso di Auchenino,
questa possibilità non è del tutto esclusa.
Più
avanti, agli inizi del VI secolo, Cassiodoro rende ancora più
esplicita la connessione tra aurighi e magia. Parlando di un auriga
molto vittorioso, scrive:
“La
frequenza delle sue vittorie faceva sì che fosse chiamato stregone.
Quando non si può attribuire la vittoria al merito dei cavalli, si
crede inevitabilmente che sia frutto di un inganno magico. Ma, tra
gli aurighi, sembra quasi un onore essere accusati di tali crimini.
Questo
legame tra successo e magia rafforzava la fama ambigua degli aurighi,
visti tanto come campioni quanto come figure sospette.
Confrontando
due testi del IV secolo, molto diversi tra loro, vorrei suggerire che
queste associazioni (a prescindere dal fatto che fossero giustificate
o meno) potrebbero essere state sfruttate dagli aurighi stessi.
Il
più recente dei due testi chiave che prendo in considerazione è un
editto del Codice
Teodosiano,
successivamente incluso, circa un secolo dopo, anche nel Codice
Giustinianeo.
Sebbene la raccolta nota come Codice
Teodosiano risalga
al V secolo, questa contiene testi giuridici per lo più antecedenti.
Il Codice
Teodosiano,
9.16.11, risale all’agosto del 389 (= Codice
Giustinianeo,
9.18.9):
«Gli
imperatori Valentiniano, Teodosio e Arcadio Augusti ad Albino,
prefetto della città. Chiunque venga a conoscenza, scopra o catturi
una persona contaminata dalla macchia del maleficium, deve
immediatamente consegnarla e presentarla agli occhi della legge e del
popolo come un nemico comune della sicurezza.
Se
qualcuno tra gli aurighi, o comunque appartenente a qualsiasi altra
categoria di persone, tenterà di violare questo divieto, o
infliggerà punizioni segrete anche a un reo di pratica magica, non
eviterà l’estrema pena, essendo (egli stesso) sospettato per un
duplice motivo: o per aver sottratto un colpevole alla severità
delle leggi e al dovuto processo, per evitare che ne rivelasse i
complici, o per aver eliminato, sfruttando la scusa del reato di
maleficium, un proprio nemico personale.».
In
questo editto, gli aurighi sono menzionati insieme ad altre categorie
di persone (genera
hominum)
in relazione al maleficium (magia).
Tuttavia, non vengono descritti come semplici stregoni: anzi, sono
indicati come esecutori di punizioni contro coloro accusati di
praticare magia.
Queste
punizioni, però, sembrano aggirare i tribunali romani, privandoli
del diritto di applicare le sanzioni previste dalla legge. Potremmo
quindi trovarci di fronte a una forma di persecuzione contro presunti
maghi, abbastanza frequente e grave da richiedere un intervento
tramite editto imperiale.
Ma
perché proprio gli aurighi come “vigilanti”? Forse perché, con
la loro fama di personaggi brutali, erano visti come i più adatti a
guidare azioni violente e potenzialmente rivoluzionarie?
L’editto
stesso offre possibili spiegazioni. Potrebbe trattarsi di una scusa
(nomen
vindictae,
“pretesto di vendetta”) usata dai vigilanti per coprire altre
intenzioni: forse l’auriga eliminava testimoni scomodi o sfruttava
l’accusa di magia per vendicarsi di nemici personali.
Il
riferimento specifico agli aurighi sembra rafforzare il legame tra il
circo e il mondo del veneficium.
Allo stesso tempo, richiama la loro fama di violenza impulsiva e
inarrestabile, che li rendeva protagonisti ideali di episodi di
giustizia sommaria o vendetta.
Gli
aurighi come mercenari
Riguardo
al secondo testo, sebbene sia stato scritto vicino al 389, rispetto
al primo, descrive un periodo di circa vent’anni prima. In effetti,
mentre questo passaggio della Storia di
Ammiano Marcellino proviene dal libro 28, che tratta principalmente
degli eventi degli anni 368–372, il contesto immediato è una lunga
invettiva contro le varie depravazioni della nobilitas romana
durante i mandati dei prefetti Olibrio e Ampelio (368–372).
Tuttavia,
come accade spesso nei passaggi moralistici, le censure di Ammiano
potrebbero essere state percepite come applicabili in senso più
ampio, e quindi non solo a quegli anni.
Nel
corso dell’elenco delle attività di vari membri dell’élite
romana («alcuni facevano questo… altri facevano quello… altri
ancora facevano altre cose…» e così via), gli aurighi fanno una
breve apparizione. Il passaggio in questione recita:
«Un
altro, se nota che il suo creditore è troppo insistente, si rivolge
a un auriga che, pronto a osare qualsiasi cosa, fa in modo che il
creditore venga accusato come veneficus. Quest’ultimo non può
liberarsi da tale accusa finché non paga pesanti spese. Inoltre,
l’accusatore imprigiona il debitore consenziente come se fosse una
sua proprietà e non lo rilascia finché non riconosce formalmente il
debito».
Questo
episodio mostra come gli aurighi non fossero legati solo alla
violenza del circo, ma potessero essere utilizzati per scopi ben più
sinistri, come manipolare la giustizia a vantaggio di chi li
assoldava.
In
queste circostanze, gli aurighi assumono il ruolo di veri e propri
mercenari, pronti a compiere azioni illegali in cambio di denaro.
Questo
tipo di comportamento non faceva che rafforzare la loro fama di
individui pericolosi e senza scrupoli, temuti non solo per la loro
abilità nelle corse, ma anche per la loro disponibilità a eseguire
compiti violenti o illeciti nella vita quotidiana.
In
alcuni casi, invece di agire come vigilanti, gli aurighi avevano il
compito di accusare di veneficium (magia)
il creditore del loro padrone. Questo ricatto obbligava il creditore
a cancellare il debito o, peggio, a contrarre un nuovo debito con il
padrone dell’auriga o persino con l’auriga stesso, evitando così
le gravi conseguenze legali di un’accusa di magia.
Ma
perché affidare proprio agli aurighi un compito simile? La risposta
risiede nelle loro due caratteristiche distintive: la fama di
violenza e il legame con la magia. Considerati criminali minacciosi e
presumibilmente esperti di pratiche magiche, gli aurighi erano
perfetti per intimidire e risultavano credibili come accusatori in
casi di veneficium.
Questa combinazione di violenza e superstizione li rendeva strumenti
ideali per chi voleva piegare la legge ai propri interessi.
Confrontando
il Codice
Teodosiano (9.16.11)
con il racconto di Ammiano Marcellino (28.4.25), si possono intuire
alcuni dettagli su come la magia fosse usata in questi contesti.
Tuttavia, anche se potrebbe sembrare che l’editto del 389 risponda
direttamente alle tattiche descritte da Ammiano per il periodo
368–372, non esiste una prova certa di una relazione diretta tra i
due testi.
È
plausibile che il pretesto dell’azione vigilante fosse talvolta
usato per coprire tentativi di ricatto falliti. In alcuni casi, i
creditori potrebbero aver rifiutato di cedere alle minacce di
un’accusa di veneficium (magia).
A quel punto, l’auriga assoldato (o chi lo aveva incaricato)
avrebbe potuto scegliere di eliminare il creditore, piuttosto che
rischiare di esporre la falsità dell’accusa davanti a un
tribunale, dove sarebbe stata facilmente smascherata.
In
simili circostanze, dichiarare che l’auriga stava “liberando la
società” da un mago poteva servire come comoda copertura per un
omicidio. Tuttavia, per quanto affascinante possa essere questo
scenario, non possiamo considerarlo altro che una supposizione,
basata sulla giustapposizione dei due testi e non su prove certe.
La
magia nel mondo romano
Pertanto,
l’esame congiunto di questi due testi suggerisce alcune riflessioni
più generali su come la ‘magia’ potesse funzionare nel IV
secolo.
Essi
potrebbero rappresentare alcune delle poche prove romane in cui la
magia venga strumentalizzata in relazione alla reputazione personale.
Se è vero che gli aurighi erano comunemente associati alla pratica
magica, questa presunta competenza poteva conferire maggiore
credibilità alle loro accuse di magia contro altri. In altre parole,
magistrati e giurie romane potevano essere più inclini a credere
agli aurighi su questioni legate alla magia, poiché si riteneva che
avessero una conoscenza speciale di tali pratiche.
Inoltre,
essendo essi stessi sospettati di veneficium,
l’accusa di complici nella pratica magica da parte di un auriga
poteva avere un peso particolare. Gli aurighi (e coloro che li
assoldavano per questi scopi) avrebbero dunque sfruttato la propria
fama per perseguire fini oscuri, sebbene del tutto privi di magia
reale.
Da
questo punto di vista, è interessante la relazione tra il successo e
la reputazione di essere un ‘mago’ (maleficus)
che Cassiodoro identifica poco più di un secolo dopo: una tale
reputazione era in realtà vista come qualcosa di positivo (magnum
praeconium,
‘un grande elogio’) per via della sua associazione con la
vittoria, riflettendo così l’abilità e il potere dell’auriga in
pista.
Non
è forse così incongruo che una reputazione così potente potesse
essere utilizzata per esercitare potere in altri ambiti. Tuttavia, il
rovescio della medaglia di una simile tattica, come dimostra il testo
del Codice
Teodosiano,
era che il tentativo di sfruttare la propria fama di mago poteva
ritorcersi contro chi la sfruttava per scopi personali, confermando
così i pregiudizi generali sul suo genus
hominum (‘tipo
sociale’).
Ciò,
come abbiamo visto, viene esplicitato dalla minaccia secondo cui gli
aurighi, o altri che accusassero le proprie vittime di
essere malefici,
sarebbero stati essi stessi sospettati di complicità nello stesso
crimine. Anche senza l’editto, il rischio di incriminarsi accusando
altri appare evidente. Se il bluff fosse stato smascherato, un
ricattatore avrebbe potuto esitare prima di portare avanti l’accusa
pretestuosa.
Manovre
di questo tipo erano estremamente rischiose, ma bisogna ricordare che
un altro elemento cruciale nella scelta degli aurighi per un compito
del genere era la loro fama di violenza, inclusa la loro propensione
ad affrontare conseguenze violente.
Questo
aspetto era almeno tanto importante quanto la loro associazione con
la magia, poiché la vittima sapeva che gli aurighi non avrebbero
esitato ad agire in modo precipitoso qualora la situazione fosse
degenerata.
Se
l’associazione con la magia riesce a suggerirci qualcosa su ciò
che gli aurighi stavano facendo in questo contesto, tali personaggi
potrebbero offrirci indizi anche sui significati e gli usi della
magia nella cultura romana.
La
maggior parte degli aurighi, come la maggior parte dei gladiatori,
aveva lo status di schiavo. Tuttavia, potevano aspirare a una forma
di status sociale elevato, come dimostra l’ammirazione che alcuni
di loro sembrano aver ricevuto persino da membri dell’élite
romana.
Sembrano
certamente aver ottenuto un certo grado di indipendenza sociale e
persino ricchezza, condizioni raramente riscontrabili tra gli
schiavi.
Questa
combinazione di due ambiti sociali apparentemente incompatibili –
la condizione di schiavo e lo status di celebrità benestante –
sfuma i confini sociali tradizionali di Roma. Come osserva J. P.
Toner:
«Aurighi,
gladiatori, attori vennero a rappresentare una nuova classe elitaria
nell’immaginario popolare. Queste icone divennero potenti forze
trasversali della società; erano gli assi attorno ai quali ruotavano
i conflitti, e furono loro a cui i Romani si rivolsero per risolvere
le loro dispute. Si creò una nuova interfaccia tra l’élite
tradizionale e il popolo, ma ciò suscitò anche preoccupazioni
morali su cosa significasse per le identità tradizionali un tale
indebolimento dei confini sociali».
Questo
aspetto dunque è indicativo di come la percezione della magia
funzioni nella società romana. Alcuni storici della magia infatti
hanno sostenuto che essa diventa operativa proprio quando si
percepisce che tali confini sociali stiano per crollare.
Così
la magia acquista almeno due funzioni peculiari: 1) essa agisce come
un segnale di allarme riguardo al possibile crollo di tali confini;
2) serve come strumento per affermare, riaffermare o stabilizzare
quei confini, evidenziando una trasgressione.
Segnalare
qualcosa come inaccettabile aiuta a definire ciò che è accettabile
e a controllarlo. La magia, a questo punto, fa da sfondo ad una
contesa, e può quindi essere impiegata come arma in tale conflitto.
È
una possibile manovra nel dibattito su ciò che è socialmente
legittimo o illegittimo. La vittoria in un simile conflitto può,
ovviamente, avere conseguenze molto pratiche, come liberarsi dei
propri creditori o eliminare altri nemici; tuttavia, sebbene la
disputa possa sfociare in un contenzioso legale, il conflitto in sé
può sempre trasformarsi in qualcosa di più grande.
In
verità, gli aurighi non rappresentano l’unico esempio di questa
‘trasgressione legata’ all’etichetta di ‘mago’. Due tra i
più noti casi di accuse di magia nell’antica Roma, separati da
oltre trecento anni, illustrano bene questo concetto.
Due
esempi di accuse di magia
Il
processo a Gaio Furio Cresimo, riportato da Plinio il Vecchio (Storia
Naturale 18.8.41–43),
risale al II secolo a.C., probabilmente intorno al 190 a.C. Cresimo,
un contadino proprietario di un piccolo appezzamento di terra, viene
accusato di veneficium dai
suoi vicini, che vedono il suo successo economico crescere mentre le
loro più ampie proprietà non producono altrettanta prosperità.
L’episodio,
così come riportato da Plinio, offre proprio quegli elementi che gli
studiosi associano alle accuse di magia nel mondo antico. Per
esempio, l’accusa contro Cresimo avviene in un contesto di
competizione: accusare di magia è un mezzo semplice per attaccare un
rivale più prospero che, altrimenti, non offre alcun motivo
apparente per essere accusato.
Fritz
Graf ha sottolineato un ulteriore aspetto: lo status di Cresimo come
liberto, un elemento che Plinio evidenzia chiaramente (C.
Furius Cresimus e servitute liberatus,
«Gaio Furio Cresimo, liberato dalla schiavitù»). In quanto tale,
Cresimo è un ‘impostore’ agli occhi dei suoi vicini: che un
liberto riesca a ottenere maggiore successo e ricchezza rispetto ai
suoi vicini nati liberi rappresenta una sovversione dei tradizionali
confini e gerarchie sociali, una sorta di ‘rovesciamento del
divario originario’, come lo definisce Graf; ciò alimenta l’accusa
di magia.
Il
secondo esempio, ancor più noto, è il processo di Apuleio per
magia, che si svolse nella città di Sabrata, in Nord Africa, intorno
al 160 d.C. Il filosofo fu accusato di aver utilizzato la magia per
sedurre una ricca vedova, Pudentilla.
Dal
punto di vista della comunità locale di Oea, città natale di
Pudentilla, ed in particolare agli occhi dei suoi accusatori,
Emiliano ed Erennio, membri della famiglia della vedova, Apuleio era
un estraneo: sebbene quest’ultimo fosse nato in Nord Africa, aveva
comunque studiato ad Atene e a Roma, e, pertanto, era un prodotto
della cultura urbana dell’Impero romano.
Anche
in questo caso quindi, colui che attira l’accusa di magia è un
outsider che minaccia di sovvertire le strutture tradizionali della
comunità e della famiglia, incluse «le aspettative riguardanti
l’eredità»: Apuleio ottiene una ricchezza e uno status percepiti
come inappropriati per una figura del genere.
Come
in questi casi individuali, anche gli aurighi potevano essere
percepiti come aspiranti a un potere sociale che non apparteneva loro
per tradizione. La ‘magia’ diventa così uno strumento per
esprimere, evidenziare e potenzialmente demonizzare la trasgressione
e l’illegittimità associate a tali figure.
In
un simile contesto, la giustapposizione dei due testi analizzati
potrebbe suggerire che gli aurighi coinvolti stessero cercando di
trasformare una loro vulnerabilità in una possibile forza.
La
loro ambigua posizione sociale era probabilmente proprio il tipo di
condizione in grado di attrarre la percezione o l’accusa di magia,
con conseguenze potenzialmente spiacevoli per chi veniva così
etichettato.
Ma
tale ambiguità offriva anche un potere che, a quanto sembra, alcuni
aurighi romani riuscirono a sfruttare; un potere del tutto
indipendente da eventuali attività rituali che potessero praticare o
meno, scaturito dalla loro posizione sociale ambigua e dal ruolo
della magia che veniva percepita, nella cultura romana, come vero e
proprio distintivo sociale.
insomma:
gli aurighi romani avevano una pessima ma importante reputazione, e
alcuni di loro non esitavano a sfruttarla.
La
Rotonda di Sant’Andrea e Il Mausoleo di Onorio
Come
detto in precedenza verso la metà del II secolo d.C., l’area degli
Horti Agrippinae e del Circo Vaticano venne abbandonata e molte delle
antiche strutture caddero in rovina. L’area fu suddivisa ed
assegnata in concessione ai privati, che la utilizzarono per
costruirvi le proprie tombe, connesse alla vicina Necropoli della Via
Cornelia (o Necropoli Vaticana). Tra le tombe sorte sui resti del
circo vi era un mausoleo sorto al centro della vecchia pista, sui
resti della spina, a poca distanza dall’obelisco Vaticano,
realizzato probabilmente al tempo di Caracalla (212-217). L’edificio
aveva un diametro di 16,75 metri con otto grandi contrafforti
all’esterno e otto finestre tra i pilastri, che illuminavano
l’interno. All’interno si trovavano sette grandi nicchie che
ospitavano i sarcofagi imperiali, con la nicchia sul lato nord che
costituiva l’ingresso al mausoleo.
Tra
il 498 e il 514 Papa Simmaco trasformò l’edificio in una chiesa
dedicata a Sant’Andrea Apostolo, che da lui prese il nome di
“Rotonda di Sant’Andrea”. Nel XIV secolo la chiesa fu
riconsacrata a Santa Maria della Febbre, in quanto all’interno era
conservata un’icona della Madonna della Febbre, invocata per la
guarigione dalle febbri malariche. Nel 1450 la chiesa cambiò
nuovamente funzione, divenendo la sagrestia della Basilica di San
Pietro, ruolo che ricoprì per quasi due secoli. In questo periodo il
portico d’ingresso del mausoleo venne demolito. Tra il 1592 e il
1605 Papa Clemente VIII ordinò che la Sagrestia venisse collegata
direttamente alla nuova basilica, attraverso la Cappella Clementina.
Michelangelo
era molto interessato a preservare l’antico edificio, piuttosto che
demolirlo; per tale motivo lo scelse come sede del suo capolavoro,
“La Pietà”. Nel 1777 Papa Pio VI decise di demolire
definitivamente l’antico edificio, a causa dell’impossibilità di
adattarlo alle nuove esigenze. Ad oggi per localizzare Santa Maria
della Febbre bisogna recarsi nell’angolo nord-est della Sagrestia,
appena a sud della navata che conduce alla Cappella del Coro. Le
fondamenta dell’edificio sono ancora visibili la sotto.
Accanto
alla Rotonda di Sant’Andrea nel V secolo sorse il Mausoleo
Onoriano, destinato ad ospitare le spoglie dell’imperatore Onorio
(395-423) e della sua famiglia. L’edificio era simile al vicino
mausoleo, con un diametro di 15 metri e mezzo, con otto contrafforti
all’esterno e otto finestre tra i pilastri che illuminavano
l’interno. L’edificio accolse le spoglie di Maria, figlia di
Stilicone e prima moglie di Onorio (morta nel 408), della sorella
Termanzia, seconda moglie di Onorio (morta nel 415), di Onorio (morto
nel 423), e della sorella Galla Placidia.
Nel
757 Papa Stefano III (752-757) trasferì il sarcofago contenente le
reliquie di Santa Petronilla dalle catacombe al Mausoleo Onoriano,
che fu consacrato in onore della santa dal successore Papa Paolo I,
assumendo il nome di “Rotonda di Santa Petronilla”. Nel giugno
del 1458 furono effettuati degli scavi all’interno dell’edificio,
che portarono alla scoperta di un sontuoso sarcofago in marmo
contenente due bare in cipresso, una grande e una piccola, foderate
d’argento, con all’interno due corpi, un adulto e un bambino,
entrambi avvolti in vestiti intessuti d’oro. La fonte, Niccolò di
Viterbo, narra di 832 libbre d’argento (pari a 272 kg di metallo
prezioso) e 16 di oro (pari a 5 kg) poi fatti fondere da Papa
Callisto III (1455-1458). Alcuni studiosi hanno ipotizzato che
potesse trattarsi dei corpi di Galla Placidia e del figlio Teodosio,
morto infante.
Nel
1544 la tomba di Maria fu aperta, e al suo interno furono rinvenuti i
resti dell’imperatrice con un sontuoso corredo di preziosi,
composti dal “Mundus Muliebris” (ovvero di doni nuziali). Rodolfo
Lanciani afferma che l’imperatrice giaceva in una bara di granito
rosso, con indosso le vesti imperiali intessute d’oro, così come
il velo e la sindone che coprivano la testa e il petto; a destra del
corpo si trovava un cesto di argento puro, pieno di recipienti e
porta-profumi, scolpiti nel cristallo di rocca, nell’agata e in
altre pietre preziose. Tra queste vi erano due coppe, una tonda e una
ovale, decorate con figure ad altorilievo, e una lampada fatta d’oro
e cristallo. Vi erano inoltre quattro vasi d’oro, uno dei quali
tempestato di gemme.
In
un secondo cestello in argento sbalzato, posto a sinistra, furono
trovati 150 oggetti, tra cui; anelli d’oro con pietre incastonate,
orecchini, collane, bottoni, spille per capelli, ricoperti di
smeraldi, perle e zaffiri. Tra questi oggetti vi erano uno smeraldo
inciso con il busto di Onorio ed una Bulla su cui erano incisi i nomi
di Onorio, Maria, Termanzia, Stilicone, Serena ed Eucherio, posti a
raggiera a formare il Cristogramma, con l’esclamazione “Vivatis”.
Il mausoleo venne definitivamente demolito nel XVI secolo per far
posto al transetto meridionale della nuova Basilica di San Pietro.
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