Cambiare ambiente

Un nuovo ambiente può a volte suscitare disagio, resistenza, nostalgia del passato. Riflettere sulla spiegazione buddista della vita ci dà il coraggio necessario per "usare" bene qualsiasi cosa ci accada    
Prima o poi accade, nella vita, di cambiare ambiente. Può essere il luogo di lavoro, la scuola, il gruppo in cui si frequentano le riunioni di discussione buddiste o anche il quartiere, la città o la nazione stessa. Comunque sia, che si tratti di un cambiamento parziale o totale dell'ambiente, si è costretti a cercare un nuovo equilibrio che sostituisca il precedente. Il cambiamento mette in luce quanto l'ambiente influisca sul proprio benessere o addirittura sulla propria identità. Si può scoprire, ad esempio, che quella professione, quella rete di relazioni o quella responsabilità, faceva parte integrante dell'idea che si ha di se stessi e che si ritiene venga condivisa dagli altri. Oppure si può ritenere che un'abitazione in un quartiere più prestigioso o l'iscrizione a una scuola particolarmente ambita aggiunga valore alla propria persona. In ogni caso, che il sentimento dominante sia quello di acquisire o perdere qualcosa di sé, il cambiamento di ambiente rivela delle convinzioni che fino a quel momento non erano state messe in evidenza e in discussione. Imparare qualcosa di nuovo di se stessi è sempre un elemento positivo, anche quando quello che vediamo non corrisponde esattamente a ciò che vorremmo vedere. Superato il primo momento di sofferenza possiamo infatti trasformare un tratto del nostro paesaggio interiore alla luce degli insegnamenti di Nichiren Daishonin e farlo diventare un nuovo punto di forza. Non sempre questo avviene, a volte infatti, invece di considerare il disagio come un segnale per lavorare su di sé, si viene dominati da un senso di rifiuto e di chiusura nei confronti del nuovo ambiente. Allora ha inizio un periodo di infelicità in cui tutti gli aspetti negativi del presente vengono sottolineati e contrapposti al passato, mitico luogo di felicità. In questa visione tutta esterna del motivo della sofferenza, il nuovo ambiente diventa responsabile del proprio stato d'animo e la lamentela può dilagare. L'unico impedimento alla felicità che si riesce a focalizzare è il nuovo ambiente, sostituito il quale tornerà tutto a posto. Questa visione in cui l'ambiente appare oggettivamente esterno e preesistente, e dunque alibi ideale per sentirsi legittimamente vittime - spesso convive amabilmente, anche nei buddisti più "stagionati", in termini di anni ed esperienza di pratica, con la conoscenza del principio di non dualità di persona e ambiente (esho funi). Nel Gosho Il vero aspetto di tutti i fenomeni, Nichiren afferma: «Se esiste un ambiente, deve esserci necessariamente un essere vivente. Un commentario dice: "Sia l'essere vivente (shoho) che il suo ambiente (eho) manifestano sempre Myoho-renge-kyo"» (vedi Il Nuovo Rinascimento, n. 336, pag. 18). In sostanza questo principio afferma che vita e ambiente sono due aspetti solo apparentemente separati della Legge. Il punto cruciale però è definirli in base a Myoho-renge-kyo. Attraverso Myoho-renge-kyo si può sperimentare concretamente l'affermazione di Nichiren Daishonin e percepire l'inseparabilità della vita dall'ambiente in cui si manifesta. La comprensione razionale di questo principio è solo il primo passo e rimane un'acquisizione inerte, priva di conseguenze significative senza un continuo approfondimento attraverso esperienze basate sulla fede. Ma solo quando si decide di sperimentare l'aderenza alla realtà di questo principio utilizzandolo nei momenti di sofferenza "causati dall'ambiente", si scopre quale potere sia contenuto nella vita umana. L'intera biografia di Nichiren Daishonin può essere letta come testimonianza di questo principio perché dalla proclamazione di Nam-myoho-renge-kyo fino alla morte, Nichiren è stato sottoposto a ogni genere di minaccia e intimidazione a livello sociale ed è stato esiliato in ambienti naturali equivalenti alla pena di morte. La sua descrizione di Sado, dove fu esiliato dall'ottobre del 1271 al marzo 1274, è precisa e dettagliata: «Finalmente raggiunsi la provincia di Sado e, conformemente alla natura di quella terra settentrionale, trovai un vento particolarmente forte in inverno, neve alta, vesti leggere e cibo scarso. [...] La mia dimora era una capanna di paglia in rovina in mezzo a un fitto campo di eulalia e ginerio dove venivano seppelliti i cadaveri. La pioggia filtrava all'interno e i muri non proteggevano dal vento. L'unico suono che giorno e notte giungeva alle mie orecchie era il sibilo del vento accanto al mio cuscino e ogni mattina la vista che si presentava ai miei occhi era quella della neve che seppelliva le strade vicine e lontane. Mi sentivo come se, da vivo, fossi passato attraverso il regno degli spiriti affamati e fossi caduto in uno degli inferni freddi» (SND, 9, 75-76). Eppure Nichiren non si limita a resistere o a sopravvivere, in queste condizioni si preoccupa costantemente di incoraggiare e sostenere i suoi discepoli e scrive alcuni fra i suoi più importanti trattati, manifestando una condizione vitale che descrive in questi termini: «Poiché io vedo le cose in questo modo, provo una gioia senza limiti anche se adesso sono in esilio» (SND, 4, 234). Anche Makiguchi, Toda e Ikeda ci forniscono un vasto repertorio su cui riflettere. Makiguchi ha trascorso l'ultimo periodo della sua vita in carcere. È morto a settantaquattro anni, il 18 novembre 1944, nell'infermeria del carcere di Sugamo. Come scrive Daisaku Ikeda nella Rivoluzione umana: «Makiguchi si oppose all'ingiusta censura messa in atto dal governo fino all'ultimo momento della sua vita, al fine di proteggere il vero Buddismo. Sopportò atrocità di ogni genere: interrogatori brutali, torture e umiliazioni che ignoravano del tutto la dignità umana. Ma non retrocesse neppure per un istante dalle proprie convinzioni» (RU, 1, 127). Eppure, in una lettera alla famiglia, Makiguchi descrive la sua condizione in questi termini: «Penso che sia del tutto inopportuno lamentarsi delle presenti difficoltà, poiché viviamo immersi in grandissimi e infiniti benefici. Come ci insegnano i sutra e il Gosho sicuramente sperimenteremo che "il veleno non manca mai di trasformarsi in medicina"». Anche per Josei Toda l'esperienza del carcere è stata decisiva, sia per la sua vita che per l'impulso che ne ebbe il movimento per kosen-rufu. È stata descritta dallo stesso Toda con queste parole: «Desideravo riuscire a leggere le frasi "mistiche" del Sutra del Loto con la mia stessa vita, e per questo iniziai a recitare Daimoku così come ci insegna il Daishonin. E proprio quando stavo per avvicinarmi ai due milioni di Daimoku feci un'esperienza decisamente mistica: chiaro dentro di me e davanti ai miei occhi si presentava uno stato vitale che non avrei mai immaginato di poter avvertire. Ero solo nella mia cella eppure scosso da una profonda gioia» (DuemilaUno, n. 50, pag. 27). Paradossalmente nel luogo di massima privazione della libertà, Toda sperimenta l'infinita libertà del Budda e la gioia che ne deriva. Per quanto riguarda Daisaku Ikeda è molto conosciuta una sua elaborazione del principio di esho funi: «La rivoluzione umana di un singolo individuo contribuirà al cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l'umanità... Questo è l'argomento della mia storia» (RU. 1, IV). La prova concreta di questa affermazione sta nel fatto che questo brano e l'intera opera siano stati letti da milioni di persone nel mondo, perché chi pratica oggi il Buddismo di Nichiren Daishonin lo deve alla rivoluzione umana di Tsunesaburo Makiguchi, Josei Toda, Daisaku Ikeda e di tanti anonimi pionieri della Soka Gakkai.
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