Quinto Fabio Massimo. La sua morte fu la piu' triste di tutti i generali romani?
Quinto Fabio Massimo, conosciuto dai posteri come il Temporeggiatore, incarnò la pazienza strategica di Roma in uno dei suoi momenti più bui e drammatici. Nacque intorno al 275 a.C., erede di una delle famiglie patrizie più antiche e influenti, la gens Fabia. Nipote di Quinto Fabio Massimo Gurgite e bis-nipote del celebre Quinto Fabio Massimo Rulliano, fin da giovane fu destinato a camminare nei sentieri più alti della politica e della guerra romana. Cresciuto tra racconti di virtù civica e militare, meditò sulle disfatte e sulle vittorie della Repubblica, assimilando un senso del dovere capace di piegare, ma mai spezzare, l’animo romano di fronte alla crisi.
La sua ascesa politica fu rapida e folgorante. Nel 233 a.C., da console, trionfò sui Liguri, meritando un trionfo e la dedicazione di un tempio a Onore e Virtù. Mostrò già in quell’occasione una straordinaria capacità di valutare rischi e opportunità, di scegliere il momento per colpire e quello per attendere. Eletto ancora console nel 228 a.C., si oppose, secondo fonti antiche, alla legge agraria di Gaio Flaminio, difendendo l’ordine tradizionale contro le spinte del cambiamento sociale. La sua determinazione lo portò a ricoprire la prestigiosa carica di censore: il suo giudizio sugli uomini e sulle cose pesò sulla Roma repubblicana come una sentenza imparziale.
L’epoca di Quinto Fabio Massimo vide la Seconda Guerra Punica scuotere le fondamenta dell’Urbe. Annibale Barca, astuto condottiero cartaginese, superò le Alpi con il suo esercito e invase l’Italia, seminando panico, morte e distruzione. I nomi delle battaglie del Trebbia, del Trasimeno e di Canne rimbombarono nelle vie di Roma come sinistri presagi di sventura: intere legioni annientate, campi devastati, alleati incerti. Il popolo fu scosso dallo spettro della fine, e l’Urbe stessa sembrò vacillare sotto il peso degli eventi.
Fu dopo la catastrofe del lago Trasimeno, dove il console Flaminio perse la vita e Roma vide franare le sue speranze dinnanzi all’abilità tattica del nemico, che il Senato decise di ricorrere a rimedi straordinari. Per la prima volta, la carica di dittatore venne affidata, su mandato popolare e non secondo la prassi tradizionale, a Quinto Fabio Massimo. Non era un semplice titolo: incarnava il comando assoluto per una durata massima di sei mesi, un’investitura che si dava solo nei momenti in cui la Repubblica rischiava il tracollo totale.
Primo atto di Fabio fu riorganizzare le difese, restaurare il coraggio e la disciplina. In un momento in cui molti invocavano proteste di coraggio e battaglie risolutive, egli impose una logica diversa: non dare mai ad Annibale l’occasione di affrontare nuovamente i Romani in campo aperto, evitare la disfatta totale e, invece, logorare il nemico tagliandogli i viveri e i rifornimenti. Scelse così la strategia dell'attesa, che gli valse il soprannome di Temporeggiatore, Cunctator in latino. Seguì Annibale nelle sue scorribande tra Puglia, Sannio e Campania, sempre vicino, sempre guardingo, ma mai disposto a concedere il confronto diretto che tanto avrebbero desiderato i soldati e la cittadinanza stessa.
Annibale, per piegare la sua ostinazione, devastò campagne e villaggi, obbligando Fabio a osservare i suoi territori messi a ferro e fuoco. Cresceva il malcontento tra i ranghi romani, molti dei quali accusavano il dittatore di codardia e di tradimento degli interessi della città. La pressione della plebe e dei suoi avversari politici fu tale che il suo magister equitum, Marco Minucio Rufo, riuscì a farsi assegnare dai comizi poteri pari a quelli del dittatore stesso, per la prima e unica volta nella storia. Quando Minucio, però, affrontò Annibale senza la cautela di Fabio, fu sorpreso in un’imboscata e solo l’arrivo repentino del Temporeggiatore salvò l’intero esercito da un massacro. Fu così che Fabio confermò la validità della sua strategia, e Minucio si ritirò spontaneamente dal comando.
Uno degli episodi più leggendari della sua carriera fu quando riuscì quasi a imprigionare Annibale nelle valli della Campania. L’esercito cartaginese, circondato e in difficoltà, sembrava prossimo alla resa. Ma l’astuzia del generale africano ribaltò la situazione: nella notte accese fasci infuocati sulle corna dei buoi, creando uno spettacolo infernale che gettò il campo romano nel caos. L’esercito di Annibale riuscì così a sfuggire all’accerchiamento, mentre Roma e Fabio dovettero ancora una volta fare i conti con la genialità tattica del loro avversario.
La determinazione di Fabio non vacillò. Dopo la disfatta di Canne, in cui Roma perse decine di migliaia di uomini, il Senato tornò ad affidarsi alle sue intuizioni. La tattica fabiana, a lungo criticata, divenne il nuovo paradigma per fronteggiare la marea cartaginese. I successi degli eserciti romani si moltiplicarono lentamente, riportando le alleanze all’Urbe e restituendo il controllo su territori vitali. Nel 209 a.C., da console per la quinta volta, Quinto Fabio Massimo riconquistò Taranto, strappandola agli alleati di Annibale; un colpo morale e strategico, salutato a Roma con grandi celebrazioni e orgoglio nazionale. Le statue colossali e le immagini degli dei tarantini furono traslate a Roma, simbolo tangibile della riscossa.
Nel Senato Fabio rimase per lungo tempo una presenza autorevole, eletto abitualmente princeps senatus per due lustri. Difese sempre la sua posizione: quando Scipione l’Africano, dopo la riconquista delle province meridionali, propose la spedizione in Africa per chiudere la guerra portando la sfida a Cartagine, Fabio si schierò tra i più prudenti e avversi. Temeva che lasciare Annibale in Italia senza forze sufficienti avrebbe potuto rovesciare i progressi appena ottenuti. Al di là dei dissensi, la sua figura continuò a pesare sulle decisioni strategiche di Roma e il suo nome restava legato a un’idea di rigore, tenacia e controllo delle passioni.
I suoi ultimi anni videro il tramonto della sua stagione politica, ma il rispetto per la sua saggezza e la sua dedizione non sbiadì. Morì nel 203 a.C., poco prima che la battaglia di Zama decidesse definitivamente le sorti della Seconda Guerra Punica. Non vide la vittoria finale di Roma, né il trionfo di Scipione, ma lasciò in eredità all’Urbe una lezione di strategia e pazienza, innestando nel carattere romano il principio che anche l’attesa, la prudenza e la capacità di adattarsi sono armi formidabili quanto il coraggio e la forza.
da Scripta Manent
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