Le battaglie delle Termopili. Tre battaglie romane dimenticate.
“Battaglia
delle Termopili” rievocherà sicuramente nella maggioranza di voi
l’immagine dei 300 Spartani che nel 480 a.C. combatterono fino
all’ultimo uomo – insieme a migliaia di altri Greci, per amor di
verità – per contrastare l’invasione persiana.
Tuttavia
la fama di tale battaglia oscura il fatto che il passo delle
Termopili, restando un importante passaggio obbligato verso la Grecia
meridionale, fu in realtà teatro di numerosi scontri, nel corso dei
secoli.
Diversi
di questi scontri videro coinvolti proprio i Romani.
191
a.C.: la vittoria contro Antioco III
La
prima battaglia che vide coinvolti i Romani al passo delle Termopili
fu combattuta nel 191 a.C. contro Antioco III di Siria, nel più
ampio teatro della guerra tra Romani e Seleucidi, la cosiddetta
“guerra romano-siriaca”.
Nel
192 a.C., Antioco III attraversò l’Ellesponto con una forza
modesta, circa 10.000 uomini, poiché si aspettava di ricevere molti
rinforzi una volta in Macedonia e in Grecia, essendosi erto a
campione del mondo ellenico in chiave antiromana. Tuttavia, il
calcolo fu quanto mai sbagliato: infatti, di tutti i Greci, solo la
Lega Etolica si unì a lui, fornendogli 4000 uomini, mentre Filippo V
di Macedonia si schierò apertamente con i Romani – tuttavia, una
forza di Macedoni si unì comunque all’esercito seleucide.
Dopo
essere disceso in Acarnania e averne assediato numerose città,
Antioco III ricevette la notizia che un grande esercito romano di
circa 20.000 fanti, 2000 cavalieri e alcuni elefanti si stava
dirigendo verso di lui, al comando del console Manlio Acilio
Glabrione. Antioco, soverchiato numericamente quasi due a uno, decise
di dirigersi verso Calcide e di attestarsi, nell’attesa di ricevere
anche rinforzi dall’Asia, nel punto notoriamente più difendibile
della zona: il passo del Termopili.
A
fornirci il resoconto dello scontro del 191 a.C. sono Tito Livio e
Appiano, che descrivono anche in modo molto accurato il passo,
permettendoci di visualizzarlo e di comprenderne l’eccellente
natura difensiva.
Così
Livio: “Questa catena montuosa [nella quale sono poste le
Termopili] taglia la Grecia in due, proprio come l’Italia è divisa
dagli Appennini. A nord del passo sono situati l’Epiro, la
Perrebia, Magnesia, la Tessaglia, gli Achei di Ftiòtide e il golfo
Maliaco. A sud di esso giacciono la gran parte dell’Etolia,
l’Acarnania, la Locride, la Focide, la Beozia, l’adiacente isola
di Eubea, e l’Attica […]; oltre queste, c’è il Peloponneso.
Questa catena si estende da Leucade sul mare occidentale attraverso
l’Etolia fino al mare orientale, ed è così aspra e ripida che
persino della fanteria leggera – figuriamoci poi un esercito –
avrebbe grande difficoltà nel trovare dei passi con i quali
attraversarla. L’estremità orientale è chiamata Eta, e il suo
picco più alto porta il nome di Callidromo. La strada che corre sul
terreno più in basso, tra la sua base e il golfo Maliaco, non è più
ampia di sessanta passi [ca. 45 m] ed è l’unica strada militare
che possa essere percorsa da un esercito, e ciò solo se non incontra
resistenza.”
Più
stringato Appiano: “Il passaggio alle Termopili è lungo e stretto,
fiancheggiato da un lato da un mare turbolento e inospitale,
dall’altro da una palude profonda e impenetrabile. È sormontato da
due picchi, uno chiamato Tichio e l’altro Callidromo. Il luogo
ospita inoltre alcune sorgenti calde, dalle quali viene il nome di
Termopili, “porte calde”.
Antioco
pose il campo nella parte più stretta del passo, e provvide a
rinforzarlo con un doppio fossato e terrapieno; dove necessario, fece
erigere un muro con le pietre sparse nel luogo. Secondo Appiano, su
muri e terrapieni fece piazzare delle macchine – si intendono quasi
sicuramente delle macchine da lancio.
I
quattromila Etoli che si erano uniti ad Antioco vennero inviati a
nord del passo, divisi in due forze, una per tenere Eraclea
Trachinia, proprio all’imboccatura delle Termopili, e l’altra a
Ipata (odierna Ypati), in Tessaglia.
Numerosi
messaggi iniziarono presto a raggiungere Antioco da nord: i territori
di Ipata e di Eraclea stavano subendo la devastazione da parte delle
truppe romane, inducendo le truppe etoliche a ritirarsi. “[…] in
nessuno dei due luoghi, gli Etoli si dimostrarono di alcuna utilità,
e alla fine si accamparono di fronte all’accampamento del re,
all’imbocco del passo, presso le fonti calde. Entrambi i
distaccamenti di Etoli si rinchiusero dentro Eraclea”, ci racconta
Livio.
Antioco
III era ben consapevole che il passo delle Termopili, per quanto
posizione fortissima, aveva un tremendo punto debole: il famoso
sentiero attraverso il quale i Persiani, nel 480 a.C., avevano
circondato i Greci. Sentiero certamente non ignoto ai Romani.
Il
re seleucide decise quindi di inviare a difendere i sentieri montani
gli Etoli. Questi ultimi, tuttavia, si dimostrarono ancora una volta
inaffidabili. Il messaggio del re infatti spaccò in due le opinioni
degli Etoli: alcuni consideravano di dover semplicemente andare, in
obbedienza al re, mentre gli altri volevano rimanere ad Eraclea, per
essere pronti sia a una sconfitta di Antioco – le loro forze
sarebbero rimaste intatte, e avrebbero potuto difendere le città
limitrofe – che a una sua vittoria – sarebbero stati nella
posizione ideale per attaccare i Romani in fuga.
Fatalmente,
gli Etoli agirono seguendo le loro divisioni interne: 2000 uomini
restarono a Eraclea, mentre gli altri, divisi in tre contingenti,
occuparono le cime del Callidromo, di Rodunzia e del Tichio –
secondo Appiano, che non narra di questi contrasti interni, due
contingenti da mille Etoli ciascuno occuparono rispettivamente il
Callidromo e il Tichio.
Manlio
Glabrione venne a sapere che le alture alle spalle del passo erano
state occupate. Volendo anch’egli sfruttare i sentieri montani,
essendo consapevole che era impossibile prendere le Termopili con un
assalto frontale, ordinò ai due tribuni Marco Porcio Catone e Lucio
Valerio Flacco, ex-consoli, di forzare le difese degli Etoli. Flacco
avrebbe dovuto attaccare Rodunzia e il Tico, mentre Catone si sarebbe
dovuto occupare del Callidromo, ognuno con 2000 fanti. Se fossero
riusciti nell’impresa, avrebbero potuto prendere Antioco alle
spalle e assicurare ai Romani la vittoria.
Il
giorno prima della battaglia al passo, Livio mette in bocca a
Glabrione un lungo discorso, probabilmente fittizio, del quale
tuttavia un passaggio ben denota, probabilmente, le reali motivazioni
dei Romani nel conflitto (nonché la retorica imperiale del periodo
nel quale Livio scriveva): “Dovete tenere a mente che combattete
non solo per la libertà della Grecia, anche se sarà uno splendido
risultato strappare dalle mani degli Etoli e di Antioco il Paese che
avete precedentemente salvato da Filippo. Né sarà solo per il
bottino del campo nemico, che cadrà nelle vostre mani come premio
[…]; voi aprirete l’Asia e la Siria e i più floridi regni del
lontano Oriente alla supremazia di Roma. Cosa allora ci impedirà di
estendere il nostro dominio da Gades [Cadice] al Mar Rosso, senza
alcun limite se non l’Oceano che circonda il mondo, e facendo
guardare l’intera razza umana a Roma con una reverenza solo seconda
a quella che ha verso gli dèi? Mostratevi degni nel cuore e nella
mente di tali enormi ricompense, così che domani possiamo scendere
in campo con la sicurezza che gli dèi ci aiuteranno.”
All’alba,
i Romani si schierarono per la battaglia, adottando un fronte molto
stretto, dovendosi conformare al terreno.
Antioco,
alla vista dell’esercito nemico in preparazione, schierò i suoi
uomini: di fronte al primo terrapieno venne schierata parte della
fanteria leggera e, a suo supporto, subito dietro di essa e per tutta
la lunghezza del terrapieno stesso, vennero schierati i falangiti
macedoni (“la principale forza del suo esercito”, commenta
Livio), armati delle lunghissime sarisse. Alla sinistra dei Macedoni,
altre truppe leggere armate di giavellotti, archi e fionde, furono
schierate proprio ai piedi della montagna, così da avere il
vantaggio della posizione sopraelevata e di poter tirare al fianco
non protetto dei Romani. Infine, alla destra dei Macedoni, presso la
palude, pose gli elefanti, dietro di loro la cavalleria e il resto
dell’esercito.
Una
volta iniziata la battaglia, i primi a lanciarsi all’attacco furono
i fanti leggeri di Antioco, che assalirono i Romani da tutti i lati.
Glabrione resistette, quindi ordinò ai suoi di contrattaccare e
avanzare, mentre la fanteria leggera nemica si rifugiava dietro alla
falange.
Appiano
descrive in termini molto vividi lo spettacolo che i Romani dovettero
trovarsi di fronte, quando approcciarono i Macedoni e le loro
sarisse: “La falange si aprì e lasciò passare gli armati alla
leggera. Quindi si chiuse e avanzò, le lunghe picche densamente
raggruppate in ordine di battaglia, con le quali i Macedoni dal tempo
di Alessandro e Filippo avevano infuso il terrore in nemici che non
osavano affrontare il fitto schieramento di lunghe picche che si
presentava loro davanti.”
Come
descrive Livio, all’inizio i Macedoni di fronte al terrapieno non
ebbero alcune difficoltà a contenere l’attacco romano, anche
aiutati dai fanti leggeri schierati sul fianco della montagna, che
sganciavano sui Romani “una perfetta nube di proiettili”.
Tuttavia la pressione dei Romani si fece sempre più forte,
costringendo i Macedoni a ripiegare sul terrapieno, circostanza che
però non fece che agevolare il combattimento per questi ultimi.
Livio
narra il feroce combattimento che si venne a creare a questo punto
della battaglia: “[i Macedoni] si ritirarono gradualmente sul
terrapieno, e stando sopra di esso crearono in pratica un secondo
terrapieno con le loro lance spianate. Il terrapieno, con la sua
moderata altezza, non solo offriva una posizione più alta dalla
quale combattere, ma permetteva loro anche di raggiungere i nemici
più in basso con le loro lunghe lance. Molti, nel loro temerario
tentativo di scalare il terrapieno, venivano infilzati […]”.
I
Romani avrebbero dovuto sostenere perdite imponenti e ritirarsi, se a
quel punto non fosse comparso Marco Porcio Catone su una collina che
sovrastava il campo seleucide. La missione notturna era riuscita:
aveva sorpreso gli Etoli sul Callidromo mentre dormivano e aveva
forzato le difese, trovandosi ora alle spalle di Antioco con i suoi
duemila fanti. Flacco, dal canto suo, era stato meno fortunato,
poiché sul Tichio e sulla Rodunzia i Greci si erano ben fortificati.
I
Macedoni e il resto delle truppe all’inizio non si resero conto che
le truppe che scendevano verso di loro non erano Etoli che giungevano
in loro soccorso, ma Romani che li stavano attaccando. Se ne
accorsero solo quando finalmente riconobbero le loro armi e le loro
insegne.
I
soldati di Antioco, realizzato che sarebbero stati accerchiati e non
sapendo che la forza di Catone era relativamente modesta,
abbandonarono le armi e si diedero alla fuga.
I
Romani si lanciarono all’inseguimento, ma le fortificazioni
apprestate da Antioco e gli elefanti causarono un caos incredibile.
Come narra Livio, “L’inseguimento fu impedito dalle
fortificazioni del campo e dallo spazio ristretto attraverso il quale
gli inseguitori dovevano passare, ma gli elefanti erano l’ostacolo
più grande, poiché era difficile per la fanteria superarli, e
impossibile per la cavalleria; i cavalli spaventati creavano più
confusione che in una battaglia vera e propria.” Ad aggiungersi a
questo, l’inseguimento fu anche rallentato dal saccheggio
dell’accampamento nemico.
Antioco
III, inseguito dalla cavalleria romana nei giorni successivi, riuscì
infine a fuggire e a lasciare la Grecia via nave, con al suo seguito
solo i cinquecento uomini della sua guardia. Il resto del suo
esercito era stato annientato o catturato.
A
fronte delle perdite quasi totali dei Seleucidi tra morti e feriti,
per i Romani fu una vittoria schiacciante: secondo Livio, i Romani
avrebbero perso appena 200 uomini. Vista la dura battaglia presso il
terrapieno, la cifra è probabilmente esagerata al ribasso, ma rende
bene la straordinaria vittoria che i Romani avevano ottenuto.
260
d.C. : disperata battaglia contro i Goti
La
seconda battaglia che i Romani dovettero sostenere alle Termopili si
svolse quasi quattro secoli e mezzo dopo la vittoria su Antioco, e
questa volta fu combattuta in difesa e in condizioni davvero
disperate.
L’episodio
è narrato dallo storico Dexippo (o Dessippo), in un frammento
scoperto solo nel 2010. La datazione di questo scontro in realtà non
è chiara, e le interpretazioni più accreditate variano tra il 254 e
il 262-263 d.C.
Tutto
ebbe inizio con un’incursione di Goti in Tracia e Macedonia, le cui
campagne subirono le loro devastazioni. Gli invasori assalirono anche
Tessalonica, ma sia le mura che i difensori si rivelarono un
avversario troppo duro. Così i Goti – chiamati “Sciti” nella
fonte – abbandonarono l’assedio e si riunirono per decidere il da
farsi.
Alla
fine prevalse la decisione di dirigersi a sud, per saccheggiare Atene
e giungere persino in Acaia, “immaginando le offerte votive d’oro
e d’argento e i molti beni processionali dei santuari greci: poiché
avevano appreso che la regione era straordinariamente ricca in tal
senso”.
I
Goti non avrebbero avuto da temere, poiché in quel momento nessun
esercito romano avrebbe potuto fermarli. Tuttavia, gli abitanti della
Grecia erano pronti ad opporre resistenza, al comando di Mariano, che
era stato nominato dall’imperatore Gallieno per governare la Grecia
“dentro le Porte” – Mariano era proconsole dell’Acaia,
provincia romana che aveva i suoi confini settentrionali proprio in
corrispondenza delle Termopili.
I
cittadini della provincia, probabilmente proprio su ordine di
Mariano, ricostruirono le mura di Atene, abbattute da Silla quasi tre
secoli prima, e per finanziare l’impresa vennero coniate un gran
numero di nuove monete bronzee.
Rimaneva
il problema più grosso di tutti, ovvero quello di organizzare un
esercito che potesse efficacemente opporsi ai Goti. Mariano non poté
fare altro che reclutare una milizia costituita dai provinciali che
aveva a disposizione. Dovendo sfruttare il terreno per massimizzare
le difese, fece radunare queste leve improvvisate alle Termopili.
L’armamento
di questa milizia era a dir poco di fortuna, per la maggior parte
ricavato da attrezzi per i lavori agricoli e per la caccia. Dexippo
così elenca: “Alcuni portavano piccole lance, altri asce, altri
lance di legno coperte di bronzo e con la punta di ferro, o qualunque
cosa con la quale ogni uomo si riusciva ad armare”.
Una
volta radunata la milizia, questa fortificò il passo (“fortificò
completamente il perimetro”), e attese l’arrivo dei Goti.
Purtroppo,
in effetti di questa battaglia non conosciamo altro. Il frammento di
Dexippo si conclude con un discorso, incompleto, che Mariano fa ai
suoi per incoraggiarli, ricordando loro gli antenati greci e romani
che avevano lì valorosamente combattuto in passato (con riferimento,
ovviamente, alle battaglie del 480 a.C. e del 191 a.C.).
Se
la battaglia ha avuto luogo nel 262, tuttavia, possiamo ipotizzare
che Mariano e la sua coraggiosa milizia siano riusciti a respingere i
Goti. Sappiamo che tra la fine di quell’anno e l’inizio del
successivo, gli invasori, per quanto carichi di bottino, lasciarono
la Grecia per dirigersi su altri obiettivi, e senza essere penetrati
nell’Attica o nel Peloponneso.
Vittoria
sui Bulgari (997): la battaglia dello Spercheo
La
terza battaglia combattuta dai Romani alle Termopili avvenne nel 997,
nel contesto della guerra tra Basilio II e lo tsar Samuele di
Bulgaria – guerra che fu infine vinta dall’imperatore romano nel
1014, cosa che gli fece guadagnare l’appellativo di “Bulgaroctono”.
Alla
fine del X secolo, il passo delle Termopili non aveva l’aspetto che
ancora descrivevano Livio e Appiano, ma era già più simile alla
modesta piana che è possibile vedere ancora oggi, attraversata dal
fiume Spercheo, che scorre poco più a nord del passo vero e proprio.
Nel
995, nel bel mezzo delle operazioni militari contro i Bulgari,
Basilio II fu costretto ad allontanarsi dal fronte occidentale per
dirigersi a Oriente: in Siria, infatti, i possedimenti romani erano
minacciati dai Fatimidi.
Approfittando
dell’assenza del suo peggior nemico, Samuele decise di muovere
all’attacco, dirigendosi verso la Grecia. Il suo primo obiettivo fu
Tessalonica, dove sconfisse e uccise il doux Gregorio
Taronita.
Così
scrive Giovanni Skylitzes, la nostra fonte principale sugli eventi e
sulla battaglia dello Spercheo: “Quando il duca Gregorio venne a
sapere dell’incursione inviò Asozio, suo figlio, per spiare e per
fare ricognizione dell’esercito [nemico], per fornirgli
informazioni; poi egli stesso andò per la stessa strada, seguendolo.
Asozio uscì e si scontrò con l’avanguardia [nemica], che mise in
fuga, solo per cadere involontariamente in un’imboscata. Venendo a
conoscenza di ciò, Gregorio accorse per aiutare suo figlio, lottando
per liberarlo dalla prigionia, ma anch’egli fu circondato dai
Bulgari; cadde combattendo nobilmente ed eroicamente.”
Venuto
a conoscenza dell’uccisione di Gregorio, Basilio II inviò a
contrastare Samuele uno dei suoi generali più capaci e fidati,
il magistros Niceforo
Urano, con il rango di Domestico delle Scholae in Occidente – di
fatto, comandante in capo di tutto l’esercito romano sul suolo
europeo.
Quando
giunse a Tessalonica, Niceforo venne a sapere che Samuele, dopo la
vittoria, si era spinto ben più a sud, devastando e saccheggiando la
valle di Tempe, la Tessaglia, la Beozia, l’Attica e giungendo
addirittura nel Peloponneso.
Niceforo
decise che si sarebbe mosso il più rapidamente possibile, per
raggiungere o intercettare Samuele sulla via del ritorno. Dopo aver
raggiunto Larissa, lì lascio tutto il materiale delle salmerie non
ritenuto necessario e attraversò a marce forzate la Tessaglia, la
piana di Farsala (l’antica Farsalo) e il fiume Apidano, fino a
raggiungere il fiume Spercheo, all’imboccatura dell’antico passo
delle Termopili. Samuele e i Bulgari erano accampati sulla sponda
opposta.
Tuttavia,
non vi era modo di attaccare subito battaglia, poiché “Vi era una
pioggia torrenziale che cadeva dal cielo; il fiume era in piena e
straripava dalle rive, per cui era fuori questione che potesse
svolgersi uno scontro.”
Niceforo,
tuttavia, non si diede per vinto, intenzionato a cogliere i Bulgari
impreparati. Iniziò quindi a ispezionare il fiume, facendo avanti e
indietro senza sosta, fino a trovare finalmente un punto dove sarebbe
stato possibile attraversare. Quella notte, Niceforo Urano avrebbe
colto la sua vittoria.
Skylitzes
descrive in modo conciso lo scontro: “[Niceforo] risvegliò il suo
esercito di notte, attraversò il fiume e piombò sulle truppe
addormentate di Samuele, cogliendole completamente di sorpresa. La
maggior parte di esse venne uccisa, nessuno che osasse pensare di
fare resistenza. Samuele e suo figlio Romano ricevettero entrambi
gravi ferite e riuscirono a cavarsela nascondendosi tra i morti,
giacendo a terra come se fossero stati uccisi, poi strisciando via
segretamente sulle montagne dell’Etolia durante la notte [si
intende forse la notte successiva]. […] Il magistros liberò
i Romani che erano prigionieri e spogliò i caduti bulgari. Occupò
il campo nemico, prendendo un’enorme quantità di ricchezze. Quindi
tornò a Tessalonica con il suo esercito.”
Non
abbiamo dati sui numeri di questo scontro, se non da una fonte
orientale, il cristiano melkita di origine egiziana Yahya di
Antiochia: egli afferma infatti che Niceforo Urano rientrò a
Costantinopoli con mille teste di Bulgari uccisi e con ben dodicimila
prigionieri.
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