Giudicare ed essere giudicati - estratto -

Il mio giudicare gli altri, dipende necessariamente da ciò che sono, da come mi vedo e anche da come vorrei che gli altri fossero. 
È ancora più ingarbugliato. Ma c’è una domanda che potrebbe mettere un po’ di ordine: «Cosa voglio da questa persona?» 
In realtà la domanda è brutale, ma efficace. Ripeto: è la domanda a essere importante, non la risposta. Le risposte cambiano: vorrei che mi facesse vedere quella gonna (nel caso della commessa) vorrei che mi lasciasse lavorare in pace (nel caso di un collega) che mi prestasse attenzione (nel caso di un amico) vorrei che fosse felice (nel caso dei miei bambini)… 
Quando capiamo sinceramente che la nostra risposta non è quella che pensavamo, occorre recitare per cambiarla. 
Cosa cambia? 
Se stiamo accanto a un persona che vogliamo sia felice, qualunque giudizio possiamo avere su di lei è secondario allo scopo.
 Magari ci pare troppo impaurita dalle cose per diventare felice, così davanti al Gohonzon decidiamo di starle accanto finché non avrà trovato il coraggio di reagire. 
E mettiamo fiducia. 
Ci mettiamo tutto quello che a noi pare non abbia. 
Il nostro giudizio serve soltanto a mettere nella relazione ciò che pare mancare. 
Dico pare, perché possiamo sbagliarci comunque. 
E se sta sbagliando? 
Se sta facendo di tutto per continuare a soffrire?
 Dobbiamo dirglielo, manifestando un giudizio, o tacere? 
È sempre una domanda a darci, scusate il giro di parole, una possibile risposta: «Cosa voglio io ora da questa persona?» 
Se scopro che tacendo sto solo assecondando un mio desiderio, quello di risultarle simpatica, allora trasformo la risposta, e parlo. 
Non è un lavoro da poco. 
Ma è un lavoro in corso. 
Se il mio pensiero costante fosse fare in modo che tutte le persone raggiungessero l’Illuminazione, se la percezione chiara della Buddità fosse al centro di ogni mio giudizio, questo lavoro sarebbe limpido, e leggero. 
Ma è realistico affermare che non è sempre così. L’importante è accorgersene. 
E andare più a fondo, non accontentarsi. Recitare Gongyo e Daimoku per non discriminare gli altri, per scoprire che possiamo innalzare la Torre Preziosa nella nostra vita e che questa potenzialità è in tutte le persone, è il vero significato di lavorare per i diritti umani. 
Tratto da : Il Nuovo Rinascimento n°284 Giu-2003

Commenti

Post popolari in questo blog

S.Osvaldo – 6 aprile 1916 la fine della compagnia della morte

Tutto inizia la sera nella notte del 14 maggio 1916: sta per scatenarsi la Strafexpetion austriaca…

Castagnevizza (Kostanjevica na Krasu), Slovenia il giugno 1917, in mezzo ai cadaveri