La prima guerra mondiale sulla pelle dei soldati
Tempo
balordo. Piogge a dirotto fino a ieri, poi tempeste di vento che
hanno spazzato via nuvole nere gonfie d’acqua, e ora un cielo
azzurro come d’estate. Tuoni, fino a ieri, e da stamattina il rombo
dei cannoni, in una cupa successione di toni, prima profondi e scuri,
poi via via secchi e penetranti; sempre alte le loro tracce fumiganti
sopra il budello di terra, pietre e assi di legno dove sono assiepati
a decine, a centinaia, i fanti del suo reggimento. Da qualche minuto
le artiglierie sollevano fontane di fango più basse: i grossi
calibri hanno ceduto il passo ai cannoni di medio calibro. Presto
sarebbero usciti dalla trincea per lanciarsi contro quella nemica, a
poche centinaia di metri.
Gli
uomini avevano già innestato le baionette sui loro moschetti; Manlio
aveva indossato l’elmetto e stringeva il calcio della sua
rivoltella, ancora nel fodero. Il capitano comandante della sua
compagnia si era issato a metà della scaletta, accanto a lui, e
guardava col binocolo davanti a sé. Ecco, ora gli stava facendo
cenno di affiancarlo e gli porgeva il binocolo: davanti ai suoi
occhi, si apriva uno scenario lunare, sotto quel cielo così
incongruo rispetto al terreno devastato dalle esplosioni continue,
butterato come il dorso di un gigantesco pachiderma. S’intravedevano
i reticoli recisi dagli arditi poco prima dell’alba, e le sagome
nere di alberi secchi riarsi, fra uno spruzzo di terriccio e l’altro.
“Allerti
i suoi uomini, tenente, e al mio segnale fuori come un sol uomo”.
Come le altre volte che aveva vissuto questo momento, il cuore di
Manlio aveva preso a battere forte nel petto, e la mente correva alla
famiglia lontana, a Napoli, dove sotto quello stesso cielo avrebbe
visto, dal balcone di casa, non già una distesa di terra bruciata,
ma lo specchio pacifico del mare, azzurro come quel cielo. Un nuovo
assalto, il settimo in pochi mesi, alla testa di uomini che avrebbero
seguito i suoi passi veloci e il suo esempio. Figli, fratelli,
commilitoni.
Stavolta
però c’era qualcosa di nuovo: uno dei suoi uomini, rannicchiato a
pochi metri da lui, in uno spazio vuoto creatogli intorno dai
compagni, sembrava in preda alle convulsioni. Urlava e piangeva, non
si riusciva a capire cosa dicesse, ma era evidente che il panico si
era impossessato di lui. E’ Sciarrillo, uno dei pochi sopravvissuti
del suo reparto, un ragazzo della Sanità che sulle prime Manlio non
aveva riconosciuto, un volontario che si era fatto crescere dei
baffetti, per sembrare più grande.
“Gli
spari!”, urla il capitano, e ripete: “Gli spari!”. Una calma
improvvisa cala nella testa e nel cuore di Manlio, una calma decisa e
tagliente, che gli fa profferire parole che mai avrebbe immaginato di
rivolgere a un superiore: “Io sono qui per sparare al nemico, non
ai miei uomini”. E subito dopo, lasciando di stucco il capitano, si
era mosso verso il soldato che non riusciva a frenare i singhiozzi,
lo aveva sollevato per il bavero e lo aveva schiaffeggiato. In quel
preciso istante, l’artiglieria aveva cessato il suo cupo concerto:
il capitano, riavutosi dalla sorpresa, aveva stretto il fischietto
fra le labbra e Manlio, con tutto il suo reparto, sciabola in pugno,
si era lanciato fuori dalla trincea al grido “Savoia!”, che
risuonava lungo tutta la linea del terrapieno, ormai alle loro
spalle. Via di corsa, sotto il crepitare della mitraglia, senza
guardare i compagni colpiti cadere di qua e di là, via urlando e
sparando, rotolandosi fra i varchi del filo spinato, quasi passando
fra una gragnuola e l’altra, pronti a dare la morte o a riceverla…
di
G. Del Ninno
Commenti
Posta un commento