I perché di una disfatta
Per
una visione più completa della disfatta di Caporetto, è necessario
anche indagare ed approfondire alcuni elementi di natura tecnica come
l'utilizzo dell'artiglieria. Negli anni precedenti l'inizio della
Prima guerra mondiale e durante il conflitto stesso, si assistette ad
un'importante evoluzione tecnologica che portò anche alla
costruzione di cannoni di vario calibro sempre più potenti ed
efficienti. Inoltre, con l’inizio del conflitto si rese sempre più
evidente che, con la guerra di trincea, era necessario che l'esercito
disponesse di un elevato numero di reggimenti dedicati allo scopo per
rendere possibili le tragiche offensive dei fanti esposte al fuoco
nemico. Lo scopo dell'artiglieria, per una guerra offensiva come
quella italiana fino al 24 ottobre del 1917, era quello di colpire
con estrema violenza sia le prime linee che in profondità le trincee
nemiche. Ci si auspicava che un lungo ed intenso bombardamento, che
poteva superare anche i centomila proiettili sparati al giorno, fosse
in grado di distruggere in buona parte sia le trincee nemiche che
tutti quegli impedimenti, come filo spinato, trappole, postazioni
mitragliatrici, ecc., in grado di bloccare ed uccidere i soldati
durante l'avanzata. Tuttavia, ci si rese presto conto che spesso
questi bombardamenti non riuscivano a dare gli effetti sperati a
causa del progressivo miglioramento dei ripari e delle fortificazioni
che l'esercito difensore attuava. Si trattava di bunker sempre più
corazzati, rifugi scavati sottoterra o nella roccia delle montagne
nei quali potevano trovare riparo i soldati per tutto il tempo
necessario. Si dimostrò così evidente, su tutti i fronti in cui la
guerra di trincea venne combattuta, che tali prolungati bombardamenti
spesso non riuscivano a danneggiare sufficientemente l'esercito
nemico e permettere rapide offensive. Si rivelò necessario attuare
una strategia diversa che permettesse da una parte ridurre le perdite
umane e dall'altra evitare lo spreco di preziose risorse conseguente
l'utilizzo massiccio di munizioni d'artiglieria il cui costo era
assai elevato. Il costo economico veniva anche infatti paragonato ai
risultati ottenuti in termini di nemici uccisi. Un ufficiale della
brigata Caltanissetta raccontava in una conversazione tra colleghi in
un rifugio durante un bombardamento: a un certo punto il dottore
osserva che ogni colpo costa tre o quattro mila lire, mentre il
valore anatomico dell'uomo è, tutto sommato, di una quindicina di
lire. Gli austriaci, in questo momento, stanno spendendo un
patrimonio per fregare, si e no, una dozzina di soldati. Un centinaio
di lire. Venne escogitata quindi dagli esperti tedeschi di
artiglieria tedeschi, come il famoso colonnello Bruchmüller,
un'alternativa che ne prevedeva l'utilizzo in modo diverso. Invece di
preparare un'offensiva
per mezzo di un lungo ed intenso bombardamento delle linee nemiche,
il nuovo sistema prevedeva bombardamenti brevi che inducessero il
nemico a sostare nei rifugi per lungo tempo come l'esperienza in
quella guerra aveva insegnato. A quel punto sarebbe scattata
l'offensiva che avrebbe colto il nemico impreparato e ancora in
attesa nei rifugi sotterranei. Inoltre, questo tipo di bombardamento
prevedeva un utilizzo massiccio di armi a gas, e gli obiettivi non
erano solo le trincee ma anche strade, depositi, linee telefoniche e
punti di accesso obbligati. In questo modo si andava a minare
sensibilmente la capacità logistica e di reazione del nemico,
impedendogli di coordinarsi efficacemente per un'eventuale
controffensiva. Ed è così che iniziò l'offensiva austro-tedesca
nell’area davanti a Tolmino e Santa Lucia, con un bombardamento che
iniziò alle 02:00 di notte, non tanto diretto solo contro le prime
linee ma piuttosto contro le posizioni dell'artiglieria nelle
retrovie, contro i magazzini, le strade e i centralini telefonici.
Solo successivamente alle 06:00 del mattino iniziò il bombardamento
intenso con munizioni di tipo esplosivo sulle trincee in prima linea,
assai concentrato e di breve durata volto a sorprendere gli italiani
obbligandoli a nascondersi nei rifugi. Questo bombardamento durò
poco più di due ore ma fu tale violenza da divenire tambureggiante,
come se per la percezione del rumore le cannonate fossero unite in
una serie di ritmici boati. Gli austriaci alle 07:00 fecero esplodere
una mina che distrusse un importante caposaldo italiano sul Monte
Rosso. Alle 07:30 già i primi battaglioni di punta erano nelle
vicinanze delle prime trincee italiane ormai spianate e si
apprestavano ad avanzare facendo prigionieri i piccoli plotoni di
difensori rimasti. L'impatto psicologico sui difensori fu devastante
e l'obiettivo d’interrompere le comunicazioni riuscì pienamente,
creando enormi difficoltà ai comandi che faticarono a capire a pieno
la gravità della situazione. I reparti italiani, quindi, al sicuro
nei rifugi non potevano sapere cosa succedeva all'esterno e vennero
spesso catturati con relativa facilità dal nemico che, appostatosi
all'esterno, ne sbarrava l'imboccatura. Lo sfondamento quindi
procedette inesorabilmente, solo in parte rallentato da reparti
italiani che combatterono fino all'ultimo per tentare in parte
d’arginare l'avanzata. Oltre alla sorpresa tattica generata dal
tipo di bombardamento, il successo venne garantito anche dalla
superiorità di fuoco della fanteria tedesca dotata di un maggior
numero di mitragliatrici leggere e pesanti rispetto a quelle in
dotazione all’esercito italiano. La profondità dello sfondamento
raggiunse i 27 km in un solo giorno quando ormai alle 10:00 di sera
alcuni plotoni tedeschi giunsero a Robic e a Creda, dove affrontarono
la brigata Vicenza preposta allo sbarramento della valle del
Natisone. Si tratta dello sfondamento più profondo ottenuto in un
unico giorno in tutta la guerra europea, addirittura superiore alla
percorrenza standard di un reggimento in marcia su strada che era
quantificato in circa 20 km al giorno. Erano alle spalle del monte
Matajur, montagna cardine della linea di difesa dell’ala sinistra
della seconda armata italiana, e del monte Stol chiave di volta della
difesa della Stretta di Saga dalla quale si poteva accedere in Valle
Uccea e da lì al Tagliamento. Erano quindi arrivati alle spalle di
tutti i più importanti capisaldi italiani, e soprattutto la presa
del monte Matajur era un’importante vittoria strategica poiché
significava che lo sfondamento era definitivo. Tale vittoria fu
inaspettata e prese di sorpresa anche il quartier generale tedesco,
come scrisse il generale Krauss nel libro “Il miracolo di
Caporetto”. Altro fatto particolare di quella giornata campale fu
la distribuzione della “Pour le Merite”. Per un'avanzata così
impetuosa ci si sarebbe aspettato che diversi ufficiali di quelle
colonne che avanzarono per tale profondità nel territorio nemico
meritassero la massima onorificenza tedesca. Invece l'unica
onorificenza di quel 24 ottobre a un reparto combattente fu quella
data al tenente Ferdinand Schörner del reggimento bavarese della
Guardia per aver portato una mitragliatrice sul Monte Piatto per
facilitare il giorno dopo l’avanzata dell’Alpenkorps verso il
Passo Zagradan e verso il monte Matajur. Questo perché il “Pour le
Merite” era una onorificenza piuttosto selettiva che richiedeva
atti di gran valore continuati nel tempo e non era sufficiente
l'occasionale e fortuita partecipazione al combattimento. Iniziò
così l'invasione austro tedesca per più di 20.000 km² nel
territorio nazionale e che fece arretrare il fronte italiano di 150
km dall'Isonzo e dalle Alpi carniche fin giù al Piave. L'Italia
contò circa 11.000 morti, 30.000 feriti e quasi 300.000 prigionieri
che si arresero o vennero catturati dal nemico. Ci furono altre
battaglie durante la ritirata per tentare di bloccare l'avanzata
nemica, come la battaglia di Cividale, la battaglia di Udine, la
battaglia della Val Resia, la battaglia sul Monte di Ragogna, la
battaglia di Clauzetto, la battaglia nella piana friulana e la
battaglia di Pozzuolo. Oltre ad aver abbandonato sul campo un numero
elevato di pezzi d'artiglieria, furono le dimensioni e le modalità
dell'arretramento a colpire l'immaginazione. Gli uomini della prima
linea vennero indietro in modo disordinato e questo, a sua volta,
trascinò i reparti immediatamente seguenti generando una situazione
caotica dove era difficile mantenere una struttura di comando che
riuscisse a far rispettare i vincoli gerarchici. Si diffusero e
moltiplicarono voci di ogni tipo in merito alla disfatta soprattutto
della seconda armata e tutto il fronte arretrò solo in parte
regolato e indirizzato dai comandi. Il comando supremo diramò le
prime direttive solo fra le 18.00 e le 23.00 del 24 ottobre, quando
ormai era troppo tardi. La sera del 26 ottobre il monte Torre era già
sotto attacco dei primi reparti austro tedeschi, che poi raggiunsero
il Tagliamento, e infine il 9 novembre il Piave. Nel frattempo
milioni di uomini, donne, bambini e soldati in ritirata
attraversarono il Friuli, terreno ormai impossibile da difendere.
Sentimento dominante a molti soldati e ufficiali appartenenti alla
terza e la quarta armata erano lo stupore e sgomento per quanto
accaduto. Lo scrittore Arturo Stanghellini, appartenente alla terza
armata, definiva questo avvenimento come “inspiegabile”.
L'ufficiale scriveva nel suo diario con evidente scoramento, ma anche
con un certo distacco: lo sgomento per la vergognosa fuga della
seconda armata, che ritenne essere qualcosa di abominevole per quanto
egli non poteva sapere come fossero realmente andate le cose.
Tuttavia, considerò quell'evento come un “disastro che non li
tocca” e cioè ritenne che non coinvolgesse tutto l'esercito, e
quindi di certo non la sua armata, ma solo una parte che si marchiò
d'infamia. Sottolinea inoltre il sentimento di vergogna nei vari
incontri che egli ebbe modo di fare personalmente durante la ritirata
dove si sottolinea con estrema durezza lo sprezzo di una parte della
popolazione che si aspettava ben altro atteggiamento dai soldati del
Regio esercito: pallide… ci guardavano senza lacrime. Ho pensato
che la donna non perdona l'uomo che fugge.
Lontano
dai tragici eventi di Caporetto, l’alpino Paolo Monelli ci mostra
come l’ordine d’arretramento arrivò anche alle sue postazioni in
modo incomprensibile e senza adeguate spiegazioni da parte dei
comandi. Obbligato a dirigersi verso le retrovie, abbandona posizioni
mantenute con fatica per dirigersi verso una meta ancora vaga e non
ben definita. Si tratta di un doloroso adeguamento all’attuale
situazione, come spesso accade in guerra, accompagnato dallo sdegno
per la sconfitta subita di cui “solo notizie sgangherate arrivano”.
Venne poi catturato nel dicembre del 1917 e si discostò dagli
atteggiamenti insubordinati di soldati esasperati dal lungo
conflitto, dalle privazioni e dalla ineluttabile costrizione imposta
dalla gerarchia. Caduta la rete degli obblighi, il controllo dei
soldati, basato sulla paura del castigo immediato e sulla forza,
crolla:” già i soldati si scrollano di dosso il fardello della
disciplina, gettano contro l'ufficiale il loro odio, il loro rancore,
la soddisfazione d'essere prigionieri”. Si tratta, da parte sua,
del rifiuto di capire i sentimenti dei soldati, bollati come
colpevoli di inaccettabili atti di ribellione, che proviene da un
pregiudizio con connotati anche di classe. Con Prezzolini abbiamo
invece la visione opposta, dove l’insubordinazione dei soldati non
appare per nulla scandalosa viste le numerose avvisaglie e il
disgregamento morale, matura per cause interne al sistema militare in
cui i comandi li hanno messi. Le condizioni inverosimili cui erano
tenuti a vivere e a morire li hanno portati a compiere questa sorta
di sciopero militare, nozione diffusa in particolare da Bissolati e
comune negli ambienti militari. Ma non si tratta di una rivoluzione
incontrollata, come le paure borghesi di alcuni intellettuali
suggerivano, ma una sorta di sciopero di protesta, inevitabile vista
la criticità della situazione. Anche Ardengo Soffici sottolinea
l’assenza di fini rivoluzionari e considera questo sciopero come il
frutto conclusivo di un naturale istinto che ha spinto il soldato non
a scappare ma a lasciare il suo lavoro. Nelsentimento dello scrittore
toscano c’è un evidente senso di solidarietà populistica, che
Cadorna forse non conobbe mai, e un atteggiamento di comprensione per
il soldato, vittima inconsapevole, a giudizio di Soffici, di errori
non suoi. Una delle cause da indagare per capire lo sfacelo del 24
ottobre è certamente la qualità dei rimpiazzi con cui i reggimenti
vennero ricostituiti dopo le terribili perdite subite nella decima e
undicesima battaglia dell'Isonzo. Molti soldati provenivano dalla
revisione dei riformati con età spesso superiore ai trent'anni.
Quando poi i rimpiazzi erano di classi ancora più anziane la
preparazione era pessima. Erano spesso uomini senza istruzione né
educazione nell'arte militare, non addestrati alle tecniche
d'assalto, al lancio delle bombe, all'utilizzo del fucile ed erano
impiegati prevalentemente in lavori da manovale. Provenivano infatti
da battaglioni territoriali e compagnie presidiarie perlopiù
sedentarie ed impreparate alle le sfide che la guerra richiedeva.
L'istruzione era poi affidata ad ufficiali di scarso valore che non
si curavano né del loro addestramento né del morale, spesso
denutriti venivano spediti in trincea, di rado guidati da uno spirito
patriottico e odiando la vita del militare. Alcuni poi dei soldati
mandati al fronte erano feriti ancora in fase di guarigione, incapaci
di compiere il loro dovere e, poiché malfermi e deperiti, venivano
mandati subito all'ospedale di battaglione una volta giunti sulla
linea del fronte. Il problema della scarsità di uomini abili al
combattimento non era un problema solo italiano, ma pesava anche
sull’esercito tedesco ed austriaco. Alla cattiva qualità della
fanteria si accompagnava poi l'impreparazione degli ufficiali. Nel
1917 la scarsità gli ufficiali era tale che spesso venivano mandati
al fronte giovani poco più che ventenni, forti di un breve
addestramento militare, ma in realtà digiuni di pratiche di guerra e
tattica militare. Molti non riuscirono nemmeno a ricevere il grado
minimo di sottotenente e proprio alla vigilia di Caporetto i
reggimenti ricevettero decine di aspiranti giovanissimi che purtroppo
andarono a gonfiare il numero dei caduti e dei dispersi. Tali
elementi vennero scelti perché dotati di un titolo di studio minimo,
che permetteva loro di essere considerati adeguati a quel ruolo, ma
la differenza d’età con la truppa, dotata di maggiore esperienza,
era assai evidente. I soldati, quindi, non rispettavano quel genere
di ufficiali e non si fidavano di loro. Per quanto riguarda invece i
sottufficiali, va sottolineato che la Prima guerra mondiale mise in
luce una forte corrispondenza strutturale fra società ed esercito. I
paesi più industrializzati che disponevano di una robusta classe
operaia, reclutarono i loro sottufficiali migliori tra i capi reparto
e i capisquadra delle fabbriche perché più avvezzi
all'organizzazione e al comando. I paesi, invece, con una struttura
sociale più arretrata, meno industrializzati e a maggioranza
contadinanza, come l'Italia, ebbero in proporzione meno sottufficiali
qualificati. Questo è certamente un fattore importante perché la
scarsità di buoni ufficiali e sottufficiali è direttamente connessa
una minor flessibilità organizzativa e tattica dei reparti
combattenti. Nell'esercito italiano, infatti,non si attribuì
volentieri responsabilità di comando a sottufficiali o ad ufficiali
che spesso, come si è visto, erano semplici aspiranti diciannovenni
appena arrivati al fronte. Al contrario la tendenza dell'esercito
italiano era quella di concentrare l'iniziativa e la responsabilità
decisionale verso l'alto e ciò era sottolineato da un altro
particolare, apparentemente minore, cioè la limitata distribuzione
delle carte topografiche. Questo comportava una sensibile riduzione
della capacità di manovra che compagnie e plotoni potevano mettere
in atto oltre ad alimentare un evidente sentimento d’inferiorità
alla scoperta che il nemico tedesco e austriaco avesse a disposizione
tutte le carte necessarie. Nell'esercito tedesco, infatti, la libertà
di iniziativa dei comandanti sul campo era considerata un elemento
fondamentale. In assenza di ordini superiori, ufficiali e
sottufficiali erano addestrati a prendere decisioni che gli
permettessero di essere più efficaci sul campo e in grado di
superare agevolmente circostanze impreviste. L'idea di agire in
piccoli gruppi era decisamente incentivata tanto che vennero create
nell’esercito tedesco moltissime squadre definite truppe d'assalto
“Sturmtruppen” che operassero in piena indipendenza. Queste
squadre, ben addestrate e ben comandate, usarono il terreno a loro
vantaggio, la nebbia, il fumo per infiltrarsi nelle posizioni nemiche
senza farsi individuare ed evitando i punti forti delle difese. Il
difensore, scoprendo quindi tardivamente che il nemico era riuscito a
penetrare in profondità nelle sue linee e percependolo nelle sue
retrovie, si sarebbe facilmente demoralizzato e arreso. Si trattava
di tattiche che l'esercito italiano aveva da poco incominciato ad
intuire, visti i tremendi massacri causati dagli attacchi frontali
formati da ondate di uomini contro i reticolati ed esposti al fuoco
delle mitragliatrici. I tedeschi applicarono queste tattiche per la
prima volta a Verdun e furono i francesi a chiamarle per primi
tattiche d’infiltrazione. Parte fondamentale per la riuscita era
tenere esercitazioni col massimo realismo operando su un terreno il
più possibile simile a quello su cui avrebbero dovuto operare sul
campo di battaglia. Anche l'Italia aveva in parte intuito l'utilità
di reparti speciali composti da intrepidi soldati da impiegare in
azioni particolarmente pericolose. Era il caso appunto degli arditi,
corpo d’élite, utilizzato solo per specifiche missioni ma
sollevati dalla responsabilità di aprire la strada alle ondate di
uomini lanciate in massa durante una delle normali offensive.
Comunque, le novità venivano assimilate in fretta durante il
conflitto e già nel dicembre dello stesso anno della disfatta, il
ministro Bissolati era in grado di spiegare ad un giornalista in cosa
consistesse la tattica di infiltrazione che portò alla vittoria del
nemico a Caporetto: Indubbiamente nella guerra gli austro tedeschi
vanno applicando sempre nuovi metodi, ai quali preparano
accuratamente i loro soldati, specie i soldati scelti…Essi hanno
anche la specialità, che a noi manca, delle azioni di piccoli
nuclei. Con questi nuclei, formati di plotoni di 8 o 10 uomini con
mitragliatrici leggere, essi praticano il metodo della infiltrazione;
vale a dire si insinuano qua e là, cercando di arrivare ai nostri
fianchi, e perfino a tergo, nascondendosi fra le rupi i cespugli,
profittando di ogni vantaggio del terreno. Resta però un altro
aspetto su cui è necessario fare chiarezza: per quale motivo i
comandi non hanno agito prontamente applicando quelle strategie note
per bloccare l'avanzata nemica? Un elemento centrale che ha impedito
ai comandi più elevati di essere a conoscenza in tempo reale di
quanto accadeva alle prime linee su buona parte del fronte attaccato
è stata certamente la distruzione delle comunicazioni provocata dal
massiccio bombardamento dell'esercito austriaco e tedesco.
L'impossibilità di comunicare tempestivamente la gravità della
situazione a tutti i livelli della scala gerarchica dell'esercito
dalla prima linea fino a Cadorna stesso rese certamente caotica e
male organizzata la risposta italiana. Come sottolineato
precedentemente, i comandi erano piuttosto restii a lasciare libertà
d'azione ai membri di grado inferiore anche se coinvolti più
direttamente nella battaglia e ciò rendeva più farraginosa la
catena decisionale. Bisogna, infatti, tenere presente che erano molti
i passaggi da fare prima di riuscire a comunicare informazioni fino
al vertice. Questo perché un semplice tenente in prima linea avrebbe
dovuto informare un maggiore al comando, come un capitano, che a sua
volta avrebbe comunicato con il colonnello; questi si sarebbe rivolto
ad un colonnello brigadiere che a sua volta avrebbe dovuto informare
il generale comandante di divisione; a quel punto avrebbero dovuto
informare il generale che comandava quella specifica armata il quale
si sarebbe rivolto direttamente al capo di Stato maggiore, Cadorna, a
Udine. Se a ciò aggiungiamo che a molti di questi livelli le
informazioni sono giunte parziali, errate e/o tardive risulta chiara
quanto difficile potesse essere una chiara determinazione della
situazione. Le accuse della commissione d'inchiesta, all'indomani del
disastro, furono rivolte in particolar modo all'operato dei generali
Capello, Cavaciocchi e Bongiovanni (oltre che a Cadorna) i quali le
rigettarono concordemente su Badoglio e sottolinearono come il
collasso totale delle comunicazioni avesse impedito loro di essere
prontamente informati. Come si vedrà successivamente vi saranno
testimonianze discordanti tra i vari generali in merito a quanto
accaduto quel giorno ma è fin d'ora interessante notare come, ad
esempio, il generale Badoglio decise di agire vista l'impossibilità
di ricevere notizie certe dai suoi subalterni. Egli, infatti, decise
di prendere l'iniziativa muovendosi personalmente in varie parti del
fronte sia a piedi che in auto per parlare con figure chiave come il
comandante della brigata Puglie, Papini, e il comandante della quinta
brigata bersaglieri Boriani. Questa sua iniziativa, per quanto volta
a risolvere il problema della mancanza comunicazione, finì però
anche per aggravare la situazione poiché egli risultò introvabile
per gli altri generali in quel terribile giorno. Questo mette in
risalto anche il diverso carattere di Badoglio, iperattivo ma in
parte controproducente, rispetto a quello di Cavaciocchi e
Bongiovanni, certamente meno impulsivi, ma forse eccessivamente
passivi vista la situazione. Cadorna poi, a Udine, rimase quasi
all'oscuro di quanto accadeva per quasi tutto giorno. Scrisse quel
mattino alla figlia Carla una lettera nella quale, pur tradendo una
certa ansia, ostentava sicurezza e determinazione a voler fermare
l'imminente offensiva che si sapeva avrebbe avuto luogo a breve. Ma
la stessa sera del 24, sotto l'impatto delle terribili notizie, ebbe
un forte crollo psicologico che peggiorò il giorno successivo e reso
evidente dalle stesse parole che telegrafò al governo poco dopo:
”
Io
sono un uomo moralmente morto. Per me tutto è finito”.
Per
un professionista con la sua esperienza, la portata della sconfitta
dovette sembrare evidente specie quando si persuase che l'attacco
avvenuto non si trattò né di un bluff né di un attacco
circoscritto con limitati obiettivi (ritenuti i più probabili al
comando supremo). Cadorna si decise a dare l'ordine per la ritirata,
ma poco dopo lo sospese perché si era forse nuovamente illuso di
poter contenere l'avanzata tedesca, mantenendo così in parte la
linea del fronte. Dopo poche ore, confermò l'ordine di ripiegamento
in direzione ovest di tutto il fronte. Lo stesso quartier generale di
Udine venne in tutta fretta trasferito a Treviso, a Padova e anche
questo aspetto non passò inosservato. Divenne infatti oggetto di
polemica politica alla Camera dei deputati dove Cadorna venne
accusato sia di aver perso la testa sia di vigliaccheria per aver
abbandonato l'esercito. Egli reagì, ricostruendo nel dettaglio le
fasi del concitato trasferimento e sottolineò che lasciò Udine per
ultimo quando ormai le avanguardie tedesche erano a pochi chilometri
dalla città. Comunque, certamente fu un trauma la presa coscienza
che gli austriaci e i tedeschi avessero assemblato una massa di forze
tali da potersi garantire obiettivi operativi su vasta scala. Di
certo questo fu un titanico errore da parte del comando supremo e di
Cadorna e, dopo più di 100 anni di analisi, con l'aiuto di una
enciclopedica bibliografia, è evidente che i segni di una poderosa
offensiva sull'Isonzo furono innumerevoli nelle settimane precedenti
all'attacco. Eppure, in qualche modo, furono trascurati e mal
interpretati fino all'inizio dell'offensiva. Dipese anche da un
preconcetto di Cadorna che si basava sul fatto che il nemico non
avrebbe commesso azioni avventate e lui stesso non si sarebbe mai
permesso (come appunto lanciare un'offensiva poderosa, in un tratto
del fronte decisamente impervio, con l'avvicinarsi della cattiva
stagione). Inoltre non fu smentito da quel gruppo di specialisti che
lo affiancavano nel comando supremo anche perché, come avrebbe
sottolineato il generale Bencivenga, ciò era piuttosto tipico del
clima cortigiano della corte di Udine. Imperativo categorico era non
contraddire Cadorna ed evitare possibilmente di dare interpretazioni
troppo allarmistiche che potessero scostarsi dall'ottimistica visione
del Capo stesso. Questo fatto condizionò sensibilmente anche i
rapporti delle ispezioni presentati il 19 e 20 ottobre dagli addetti
al Comando, dove si sottolinearono le eccellenti condizioni degli
uomini e la robustezza delle linee difensive lungo le trincee del IV
e del XXVII corpo. Considerato che furono in buona parte travolte dal
nemico, ci si chiese quanto fossero attendibili tali ispezioni e
quanto fossero viziate da una descrizione della situazione volta a
presentare al comando supremo solo una versione ottimistica che non
potesse danneggiare la carriera degli ufficiali coinvolti.
Questo dimostra ulteriormente il clima di sfiducia che si era ormai
radicato in parte del corpo ufficiali in merito allo stile di comando
di Cadorna.
Tratto
da Il Capo di Marco Mondini/ Caporetto di Alessandro Barbero/I vinti
di Caporetto di Mario Isnenghi
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