I perché di una disfatta

Per una visione più completa della disfatta di Caporetto, è necessario anche indagare ed approfondire alcuni elementi di natura tecnica come l'utilizzo dell'artiglieria. Negli anni precedenti l'inizio della Prima guerra mondiale e durante il conflitto stesso, si assistette ad un'importante evoluzione tecnologica che portò anche alla costruzione di cannoni di vario calibro sempre più potenti ed efficienti. Inoltre, con l’inizio del conflitto si rese sempre più evidente che, con la guerra di trincea, era necessario che l'esercito disponesse di un elevato numero di reggimenti dedicati allo scopo per rendere possibili le tragiche offensive dei fanti esposte al fuoco nemico. Lo scopo dell'artiglieria, per una guerra offensiva come quella italiana fino al 24 ottobre del 1917, era quello di colpire con estrema violenza sia le prime linee che in profondità le trincee nemiche. Ci si auspicava che un lungo ed intenso bombardamento, che poteva superare anche i centomila proiettili sparati al giorno, fosse in grado di distruggere in buona parte sia le trincee nemiche che tutti quegli impedimenti, come filo spinato, trappole, postazioni mitragliatrici, ecc., in grado di bloccare ed uccidere i soldati durante l'avanzata. Tuttavia, ci si rese presto conto che spesso questi bombardamenti non riuscivano a dare gli effetti sperati a causa del progressivo miglioramento dei ripari e delle fortificazioni che l'esercito difensore attuava. Si trattava di bunker sempre più corazzati, rifugi scavati sottoterra o nella roccia delle montagne nei quali potevano trovare riparo i soldati per tutto il tempo necessario. Si dimostrò così evidente, su tutti i fronti in cui la guerra di trincea venne combattuta, che tali prolungati bombardamenti spesso non riuscivano a danneggiare sufficientemente l'esercito nemico e permettere rapide offensive. Si rivelò necessario attuare una strategia diversa che permettesse da una parte ridurre le perdite umane e dall'altra evitare lo spreco di preziose risorse conseguente l'utilizzo massiccio di munizioni d'artiglieria il cui costo era assai elevato. Il costo economico veniva anche infatti paragonato ai risultati ottenuti in termini di nemici uccisi. Un ufficiale della brigata Caltanissetta raccontava in una conversazione tra colleghi in un rifugio durante un bombardamento: a un certo punto il dottore osserva che ogni colpo costa tre o quattro mila lire, mentre il valore anatomico dell'uomo è, tutto sommato, di una quindicina di lire. Gli austriaci, in questo momento, stanno spendendo un patrimonio per fregare, si e no, una dozzina di soldati. Un centinaio di lire. Venne escogitata quindi dagli esperti tedeschi di artiglieria tedeschi, come il famoso colonnello Bruchmüller, un'alternativa che ne prevedeva l'utilizzo in modo diverso. Invece di preparare
un'offensiva per mezzo di un lungo ed intenso bombardamento delle linee nemiche, il nuovo sistema prevedeva bombardamenti brevi che inducessero il nemico a sostare nei rifugi per lungo tempo come l'esperienza in quella guerra aveva insegnato. A quel punto sarebbe scattata l'offensiva che avrebbe colto il nemico impreparato e ancora in attesa nei rifugi sotterranei. Inoltre, questo tipo di bombardamento prevedeva un utilizzo massiccio di armi a gas, e gli obiettivi non erano solo le trincee ma anche strade, depositi, linee telefoniche e punti di accesso obbligati. In questo modo si andava a minare sensibilmente la capacità logistica e di reazione del nemico, impedendogli di coordinarsi efficacemente per un'eventuale controffensiva. Ed è così che iniziò l'offensiva austro-tedesca nell’area davanti a Tolmino e Santa Lucia, con un bombardamento che iniziò alle 02:00 di notte, non tanto diretto solo contro le prime linee ma piuttosto contro le posizioni dell'artiglieria nelle retrovie, contro i magazzini, le strade e i centralini telefonici. Solo successivamente alle 06:00 del mattino iniziò il bombardamento intenso con munizioni di tipo esplosivo sulle trincee in prima linea, assai concentrato e di breve durata volto a sorprendere gli italiani obbligandoli a nascondersi nei rifugi. Questo bombardamento durò poco più di due ore ma fu tale violenza da divenire tambureggiante, come se per la percezione del rumore le cannonate fossero unite in una serie di ritmici boati. Gli austriaci alle 07:00 fecero esplodere una mina che distrusse un importante caposaldo italiano sul Monte Rosso. Alle 07:30 già i primi battaglioni di punta erano nelle vicinanze delle prime trincee italiane ormai spianate e si apprestavano ad avanzare facendo prigionieri i piccoli plotoni di difensori rimasti. L'impatto psicologico sui difensori fu devastante e l'obiettivo d’interrompere le comunicazioni riuscì pienamente, creando enormi difficoltà ai comandi che faticarono a capire a pieno la gravità della situazione. I reparti italiani, quindi, al sicuro nei rifugi non potevano sapere cosa succedeva all'esterno e vennero spesso catturati con relativa facilità dal nemico che, appostatosi all'esterno, ne sbarrava l'imboccatura. Lo sfondamento quindi procedette inesorabilmente, solo in parte rallentato da reparti italiani che combatterono fino all'ultimo per tentare in parte d’arginare l'avanzata. Oltre alla sorpresa tattica generata dal tipo di bombardamento, il successo venne garantito anche dalla superiorità di fuoco della fanteria tedesca dotata di un maggior numero di mitragliatrici leggere e pesanti rispetto a quelle in dotazione all’esercito italiano. La profondità dello sfondamento raggiunse i 27 km in un solo giorno quando ormai alle 10:00 di sera alcuni plotoni tedeschi giunsero a Robic e a Creda, dove affrontarono la brigata Vicenza preposta allo sbarramento della valle del Natisone. Si tratta dello sfondamento più profondo ottenuto in un unico giorno in tutta la guerra europea, addirittura superiore alla percorrenza standard di un reggimento in marcia su strada che era quantificato in circa 20 km al giorno. Erano alle spalle del monte Matajur, montagna cardine della linea di difesa dell’ala sinistra della seconda armata italiana, e del monte Stol chiave di volta della difesa della Stretta di Saga dalla quale si poteva accedere in Valle Uccea e da lì al Tagliamento. Erano quindi arrivati alle spalle di tutti i più importanti capisaldi italiani, e soprattutto la presa del monte Matajur era un’importante vittoria strategica poiché significava che lo sfondamento era definitivo. Tale vittoria fu inaspettata e prese di sorpresa anche il quartier generale tedesco, come scrisse il generale Krauss nel libro “Il miracolo di Caporetto”. Altro fatto particolare di quella giornata campale fu la distribuzione della “Pour le Merite”. Per un'avanzata così impetuosa ci si sarebbe aspettato che diversi ufficiali di quelle colonne che avanzarono per tale profondità nel territorio nemico meritassero la massima onorificenza tedesca. Invece l'unica onorificenza di quel 24 ottobre a un reparto combattente fu quella data al tenente Ferdinand Schörner del reggimento bavarese della Guardia per aver portato una mitragliatrice sul Monte Piatto per facilitare il giorno dopo l’avanzata dell’Alpenkorps verso il Passo Zagradan e verso il monte Matajur. Questo perché il “Pour le Merite” era una onorificenza piuttosto selettiva che richiedeva atti di gran valore continuati nel tempo e non era sufficiente l'occasionale e fortuita partecipazione al combattimento. Iniziò così l'invasione austro tedesca per più di 20.000 km² nel territorio nazionale e che fece arretrare il fronte italiano di 150 km dall'Isonzo e dalle Alpi carniche fin giù al Piave. L'Italia contò circa 11.000 morti, 30.000 feriti e quasi 300.000 prigionieri che si arresero o vennero catturati dal nemico. Ci furono altre battaglie durante la ritirata per tentare di bloccare l'avanzata nemica, come la battaglia di Cividale, la battaglia di Udine, la battaglia della Val Resia, la battaglia sul Monte di Ragogna, la battaglia di Clauzetto, la battaglia nella piana friulana e la battaglia di Pozzuolo. Oltre ad aver abbandonato sul campo un numero elevato di pezzi d'artiglieria, furono le dimensioni e le modalità dell'arretramento a colpire l'immaginazione. Gli uomini della prima linea vennero indietro in modo disordinato e questo, a sua volta, trascinò i reparti immediatamente seguenti generando una situazione caotica dove era difficile mantenere una struttura di comando che riuscisse a far rispettare i vincoli gerarchici. Si diffusero e moltiplicarono voci di ogni tipo in merito alla disfatta soprattutto della seconda armata e tutto il fronte arretrò solo in parte regolato e indirizzato dai comandi. Il comando supremo diramò le prime direttive solo fra le 18.00 e le 23.00 del 24 ottobre, quando ormai era troppo tardi. La sera del 26 ottobre il monte Torre era già sotto attacco dei primi reparti austro tedeschi, che poi raggiunsero il Tagliamento, e infine il 9 novembre il Piave. Nel frattempo milioni di uomini, donne, bambini e soldati in ritirata attraversarono il Friuli, terreno ormai impossibile da difendere. Sentimento dominante a molti soldati e ufficiali appartenenti alla terza e la quarta armata erano lo stupore e sgomento per quanto accaduto. Lo scrittore Arturo Stanghellini, appartenente alla terza armata, definiva questo avvenimento come “inspiegabile”. L'ufficiale scriveva nel suo diario con evidente scoramento, ma anche con un certo distacco: lo sgomento per la vergognosa fuga della seconda armata, che ritenne essere qualcosa di abominevole per quanto egli non poteva sapere come fossero realmente andate le cose. Tuttavia, considerò quell'evento come un “disastro che non li tocca” e cioè ritenne che non coinvolgesse tutto l'esercito, e quindi di certo non la sua armata, ma solo una parte che si marchiò d'infamia. Sottolinea inoltre il sentimento di vergogna nei vari incontri che egli ebbe modo di fare personalmente durante la ritirata dove si sottolinea con estrema durezza lo sprezzo di una parte della popolazione che si aspettava ben altro atteggiamento dai soldati del Regio esercito: pallide… ci guardavano senza lacrime. Ho pensato che la donna non perdona l'uomo che fugge.
Lontano dai tragici eventi di Caporetto, l’alpino Paolo Monelli ci mostra come l’ordine d’arretramento arrivò anche alle sue postazioni in modo incomprensibile e senza adeguate spiegazioni da parte dei comandi. Obbligato a dirigersi verso le retrovie, abbandona posizioni mantenute con fatica per dirigersi verso una meta ancora vaga e non ben definita. Si tratta di un doloroso adeguamento all’attuale situazione, come spesso accade in guerra, accompagnato dallo sdegno per la sconfitta subita di cui “solo notizie sgangherate arrivano”. Venne poi catturato nel dicembre del 1917 e si discostò dagli atteggiamenti insubordinati di soldati esasperati dal lungo conflitto, dalle privazioni e dalla ineluttabile costrizione imposta dalla gerarchia. Caduta la rete degli obblighi, il controllo dei soldati, basato sulla paura del castigo immediato e sulla forza, crolla:” già i soldati si scrollano di dosso il fardello della disciplina, gettano contro l'ufficiale il loro odio, il loro rancore, la soddisfazione d'essere prigionieri”. Si tratta, da parte sua, del rifiuto di capire i sentimenti dei soldati, bollati come colpevoli di inaccettabili atti di ribellione, che proviene da un pregiudizio con connotati anche di classe. Con Prezzolini abbiamo invece la visione opposta, dove l’insubordinazione dei soldati non appare per nulla scandalosa viste le numerose avvisaglie e il disgregamento morale, matura per cause interne al sistema militare in cui i comandi li hanno messi. Le condizioni inverosimili cui erano tenuti a vivere e a morire li hanno portati a compiere questa sorta di sciopero militare, nozione diffusa in particolare da Bissolati e comune negli ambienti militari. Ma non si tratta di una rivoluzione incontrollata, come le paure borghesi di alcuni intellettuali suggerivano, ma una sorta di sciopero di protesta, inevitabile vista la criticità della situazione. Anche Ardengo Soffici sottolinea l’assenza di fini rivoluzionari e considera questo sciopero come il frutto conclusivo di un naturale istinto che ha spinto il soldato non a scappare ma a lasciare il suo lavoro. Nelsentimento dello scrittore toscano c’è un evidente senso di solidarietà populistica, che Cadorna forse non conobbe mai, e un atteggiamento di comprensione per il soldato, vittima inconsapevole, a giudizio di Soffici, di errori non suoi. Una delle cause da indagare per capire lo sfacelo del 24 ottobre è certamente la qualità dei rimpiazzi con cui i reggimenti vennero ricostituiti dopo le terribili perdite subite nella decima e undicesima battaglia dell'Isonzo. Molti soldati provenivano dalla revisione dei riformati con età spesso superiore ai trent'anni. Quando poi i rimpiazzi erano di classi ancora più anziane la preparazione era pessima. Erano spesso uomini senza istruzione né educazione nell'arte militare, non addestrati alle tecniche d'assalto, al lancio delle bombe, all'utilizzo del fucile ed erano impiegati prevalentemente in lavori da manovale. Provenivano infatti da battaglioni territoriali e compagnie presidiarie perlopiù sedentarie ed impreparate alle le sfide che la guerra richiedeva. L'istruzione era poi affidata ad ufficiali di scarso valore che non si curavano né del loro addestramento né del morale, spesso denutriti venivano spediti in trincea, di rado guidati da uno spirito patriottico e odiando la vita del militare. Alcuni poi dei soldati mandati al fronte erano feriti ancora in fase di guarigione, incapaci di compiere il loro dovere e, poiché malfermi e deperiti, venivano mandati subito all'ospedale di battaglione una volta giunti sulla linea del fronte. Il problema della scarsità di uomini abili al combattimento non era un problema solo italiano, ma pesava anche sull’esercito tedesco ed austriaco. Alla cattiva qualità della fanteria si accompagnava poi l'impreparazione degli ufficiali. Nel 1917 la scarsità gli ufficiali era tale che spesso venivano mandati al fronte giovani poco più che ventenni, forti di un breve addestramento militare, ma in realtà digiuni di pratiche di guerra e tattica militare. Molti non riuscirono nemmeno a ricevere il grado minimo di sottotenente e proprio alla vigilia di Caporetto i reggimenti ricevettero decine di aspiranti giovanissimi che purtroppo andarono a gonfiare il numero dei caduti e dei dispersi. Tali elementi vennero scelti perché dotati di un titolo di studio minimo, che permetteva loro di essere considerati adeguati a quel ruolo, ma la differenza d’età con la truppa, dotata di maggiore esperienza, era assai evidente. I soldati, quindi, non rispettavano quel genere di ufficiali e non si fidavano di loro. Per quanto riguarda invece i sottufficiali, va sottolineato che la Prima guerra mondiale mise in luce una forte corrispondenza strutturale fra società ed esercito. I paesi più industrializzati che disponevano di una robusta classe operaia, reclutarono i loro sottufficiali migliori tra i capi reparto e i capisquadra delle fabbriche perché più avvezzi all'organizzazione e al comando. I paesi, invece, con una struttura sociale più arretrata, meno industrializzati e a maggioranza contadinanza, come l'Italia, ebbero in proporzione meno sottufficiali qualificati. Questo è certamente un fattore importante perché la scarsità di buoni ufficiali e sottufficiali è direttamente connessa una minor flessibilità organizzativa e tattica dei reparti combattenti. Nell'esercito italiano, infatti,non si attribuì volentieri responsabilità di comando a sottufficiali o ad ufficiali che spesso, come si è visto, erano semplici aspiranti diciannovenni appena arrivati al fronte. Al contrario la tendenza dell'esercito italiano era quella di concentrare l'iniziativa e la responsabilità decisionale verso l'alto e ciò era sottolineato da un altro particolare, apparentemente minore, cioè la limitata distribuzione delle carte topografiche. Questo comportava una sensibile riduzione della capacità di manovra che compagnie e plotoni potevano mettere in atto oltre ad alimentare un evidente sentimento d’inferiorità alla scoperta che il nemico tedesco e austriaco avesse a disposizione tutte le carte necessarie. Nell'esercito tedesco, infatti, la libertà di iniziativa dei comandanti sul campo era considerata un elemento fondamentale. In assenza di ordini superiori, ufficiali e sottufficiali erano addestrati a prendere decisioni che gli permettessero di essere più efficaci sul campo e in grado di superare agevolmente circostanze impreviste. L'idea di agire in piccoli gruppi era decisamente incentivata tanto che vennero create nell’esercito tedesco moltissime squadre definite truppe d'assalto “Sturmtruppen” che operassero in piena indipendenza. Queste squadre, ben addestrate e ben comandate, usarono il terreno a loro vantaggio, la nebbia, il fumo per infiltrarsi nelle posizioni nemiche senza farsi individuare ed evitando i punti forti delle difese. Il difensore, scoprendo quindi tardivamente che il nemico era riuscito a penetrare in profondità nelle sue linee e percependolo nelle sue retrovie, si sarebbe facilmente demoralizzato e arreso. Si trattava di tattiche che l'esercito italiano aveva da poco incominciato ad intuire, visti i tremendi massacri causati dagli attacchi frontali formati da ondate di uomini contro i reticolati ed esposti al fuoco delle mitragliatrici. I tedeschi applicarono queste tattiche per la prima volta a Verdun e furono i francesi a chiamarle per primi tattiche d’infiltrazione. Parte fondamentale per la riuscita era tenere esercitazioni col massimo realismo operando su un terreno il più possibile simile a quello su cui avrebbero dovuto operare sul campo di battaglia. Anche l'Italia aveva in parte intuito l'utilità di reparti speciali composti da intrepidi soldati da impiegare in azioni particolarmente pericolose. Era il caso appunto degli arditi, corpo d’élite, utilizzato solo per specifiche missioni ma sollevati dalla responsabilità di aprire la strada alle ondate di uomini lanciate in massa durante una delle normali offensive. Comunque, le novità venivano assimilate in fretta durante il conflitto e già nel dicembre dello stesso anno della disfatta, il ministro Bissolati era in grado di spiegare ad un giornalista in cosa consistesse la tattica di infiltrazione che portò alla vittoria del nemico a Caporetto: Indubbiamente nella guerra gli austro tedeschi vanno applicando sempre nuovi metodi, ai quali preparano accuratamente i loro soldati, specie i soldati scelti…Essi hanno anche la specialità, che a noi manca, delle azioni di piccoli nuclei. Con questi nuclei, formati di plotoni di 8 o 10 uomini con mitragliatrici leggere, essi praticano il metodo della infiltrazione; vale a dire si insinuano qua e là, cercando di arrivare ai nostri fianchi, e perfino a tergo, nascondendosi fra le rupi i cespugli, profittando di ogni vantaggio del terreno. Resta però un altro aspetto su cui è necessario fare chiarezza: per quale motivo i comandi non hanno agito prontamente applicando quelle strategie note per bloccare l'avanzata nemica? Un elemento centrale che ha impedito ai comandi più elevati di essere a conoscenza in tempo reale di quanto accadeva alle prime linee su buona parte del fronte attaccato è stata certamente la distruzione delle comunicazioni provocata dal massiccio bombardamento dell'esercito austriaco e tedesco. L'impossibilità di comunicare tempestivamente la gravità della situazione a tutti i livelli della scala gerarchica dell'esercito dalla prima linea fino a Cadorna stesso rese certamente caotica e male organizzata la risposta italiana. Come sottolineato precedentemente, i comandi erano piuttosto restii a lasciare libertà d'azione ai membri di grado inferiore anche se coinvolti più direttamente nella battaglia e ciò rendeva più farraginosa la catena decisionale. Bisogna, infatti, tenere presente che erano molti i passaggi da fare prima di riuscire a comunicare informazioni fino al vertice. Questo perché un semplice tenente in prima linea avrebbe dovuto informare un maggiore al comando, come un capitano, che a sua volta avrebbe comunicato con il colonnello; questi si sarebbe rivolto ad un colonnello brigadiere che a sua volta avrebbe dovuto informare il generale comandante di divisione; a quel punto avrebbero dovuto informare il generale che comandava quella specifica armata il quale si sarebbe rivolto direttamente al capo di Stato maggiore, Cadorna, a Udine. Se a ciò aggiungiamo che a molti di questi livelli le informazioni sono giunte parziali, errate e/o tardive risulta chiara quanto difficile potesse essere una chiara determinazione della situazione. Le accuse della commissione d'inchiesta, all'indomani del disastro, furono rivolte in particolar modo all'operato dei generali Capello, Cavaciocchi e Bongiovanni (oltre che a Cadorna) i quali le rigettarono concordemente su Badoglio e sottolinearono come il collasso totale delle comunicazioni avesse impedito loro di essere prontamente informati. Come si vedrà successivamente vi saranno testimonianze discordanti tra i vari generali in merito a quanto accaduto quel giorno ma è fin d'ora interessante notare come, ad esempio, il generale Badoglio decise di agire vista l'impossibilità di ricevere notizie certe dai suoi subalterni. Egli, infatti, decise di prendere l'iniziativa muovendosi personalmente in varie parti del fronte sia a piedi che in auto per parlare con figure chiave come il comandante della brigata Puglie, Papini, e il comandante della quinta brigata bersaglieri Boriani. Questa sua iniziativa, per quanto volta a risolvere il problema della mancanza comunicazione, finì però anche per aggravare la situazione poiché egli risultò introvabile per gli altri generali in quel terribile giorno. Questo mette in risalto anche il diverso carattere di Badoglio, iperattivo ma in parte controproducente, rispetto a quello di Cavaciocchi e Bongiovanni, certamente meno impulsivi, ma forse eccessivamente passivi vista la situazione. Cadorna poi, a Udine, rimase quasi all'oscuro di quanto accadeva per quasi tutto giorno. Scrisse quel mattino alla figlia Carla una lettera nella quale, pur tradendo una certa ansia, ostentava sicurezza e determinazione a voler fermare l'imminente offensiva che si sapeva avrebbe avuto luogo a breve. Ma la stessa sera del 24, sotto l'impatto delle terribili notizie, ebbe un forte crollo psicologico che peggiorò il giorno successivo e reso evidente dalle stesse parole che telegrafò al governo poco dopo:
Io sono un uomo moralmente morto. Per me tutto è finito”.
Per un professionista con la sua esperienza, la portata della sconfitta dovette sembrare evidente specie quando si persuase che l'attacco avvenuto non si trattò né di un bluff né di un attacco circoscritto con limitati obiettivi (ritenuti i più probabili al comando supremo). Cadorna si decise a dare l'ordine per la ritirata, ma poco dopo lo sospese perché si era forse nuovamente illuso di poter contenere l'avanzata tedesca, mantenendo così in parte la linea del fronte. Dopo poche ore, confermò l'ordine di ripiegamento in direzione ovest di tutto il fronte. Lo stesso quartier generale di Udine venne in tutta fretta trasferito a Treviso, a Padova e anche questo aspetto non passò inosservato. Divenne infatti oggetto di polemica politica alla Camera dei deputati dove Cadorna venne accusato sia di aver perso la testa sia di vigliaccheria per aver abbandonato l'esercito. Egli reagì, ricostruendo nel dettaglio le fasi del concitato trasferimento e sottolineò che lasciò Udine per ultimo quando ormai le avanguardie tedesche erano a pochi chilometri dalla città. Comunque, certamente fu un trauma la presa coscienza che gli austriaci e i tedeschi avessero assemblato una massa di forze tali da potersi garantire obiettivi operativi su vasta scala. Di certo questo fu un titanico errore da parte del comando supremo e di Cadorna e, dopo più di 100 anni di analisi, con l'aiuto di una enciclopedica bibliografia, è evidente che i segni di una poderosa offensiva sull'Isonzo furono innumerevoli nelle settimane precedenti all'attacco. Eppure, in qualche modo, furono trascurati e mal interpretati fino all'inizio dell'offensiva. Dipese anche da un preconcetto di Cadorna che si basava sul fatto che il nemico non avrebbe commesso azioni avventate e lui stesso non si sarebbe mai permesso (come appunto lanciare un'offensiva poderosa, in un tratto del fronte decisamente impervio, con l'avvicinarsi della cattiva stagione). Inoltre non fu smentito da quel gruppo di specialisti che lo affiancavano nel comando supremo anche perché, come avrebbe sottolineato il generale Bencivenga, ciò era piuttosto tipico del clima cortigiano della corte di Udine. Imperativo categorico era non contraddire Cadorna ed evitare possibilmente di dare interpretazioni troppo allarmistiche che potessero scostarsi dall'ottimistica visione del Capo stesso. Questo fatto condizionò sensibilmente anche i rapporti delle ispezioni presentati il 19 e 20 ottobre dagli addetti al Comando, dove si sottolinearono le eccellenti condizioni degli uomini e la robustezza delle linee difensive lungo le trincee del IV e del XXVII corpo. Considerato che furono in buona parte travolte dal nemico, ci si chiese quanto fossero attendibili tali ispezioni e quanto fossero viziate da una descrizione della situazione volta a presentare al comando supremo solo una versione ottimistica che non potesse danneggiare la carriera degli ufficiali coinvolti. Questo dimostra ulteriormente il clima di sfiducia che si era ormai radicato in parte del corpo ufficiali in merito allo stile di comando di Cadorna.
Tratto da Il Capo di Marco Mondini/ Caporetto di Alessandro Barbero/I vinti di Caporetto di Mario Isnenghi

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