I rematori delle navi romane. Uomini liberi e schiavi…liberati

Quando pensiamo ai “motori” nelle navi da guerra romane, la nostra mente non può che andare alle vele e, soprattutto, ai rematori.
A causa di opere di fiction e narrativa, come il celebre film “Ben Hur”, spesso ancora si crede che i rematori delle navi da guerra romane fossero schiavi, incatenati ai banchi di voga.
Ciò, però, non potrebbe essere più distante dalla realtà. 
Nella norma, infatti, quello dei rematori (𝘳𝘦𝘮𝘪𝘨𝘦𝘴) non è una condanna come sarà per i galeotti di età moderna, ma è a tutti gli effetti un vero servizio militare, compiuto esclusivamente da uomini liberi. 
All’inizio dell’epopea navale di Roma, con la cattura di Anzio nel IV sec. a.C., navi e uomini per le flotte romane, e in particolare proprio i rematori, sono principalmente forniti dai 𝘴𝘰𝘤𝘪𝘪 𝘯𝘢𝘷𝘢𝘭𝘦𝘴 – un termine che presto finirà per essere utilizzato in modo esteso anche per i cittadini romani addetti al servizio ai remi. 
Infatti, in età repubblicana, ci informa Polibio, anche i Romani potevano essere arruolati in marina. 
Al momento del 𝘥𝘪𝘭𝘦𝘤𝘵𝘶𝘴 (la chiamata alle armi e arruolamento), venivano destinati alla flotta, e ai remi, quei cittadini romani di censo troppo basso, ergo non arruolabili nelle legioni, con un reddito inferiore ai quattrocento assi – salvo casi eccezionali, nei quali sarebbero comunque obbligati a servire in fanteria. 
All’inizio, i liberti non potevano essere reclutati nelle forze di marina, nemmeno come rematori – e del resto sappiamo che almeno usualmente i liberti, almeno quelli romani, non potevano nemmeno arruolarsi nell’esercito. 
Esistono tuttavia delle eccezioni, causate da occasioni straordinaria emergenza, come la Seconda Guerra Punica – che, come abbiamo già avuto modo di vedere, porta addirittura all’arruolamento di ben due legioni di schiavi. 
Tito Livio, in particolare, tramanda che nel 217 a.C., dopo il disastro del Trasimeno e dopo che un convoglio romano di vettovaglie, in partenza per il fronte spagnolo, viene catturato dai Cartaginesi presso il porto di Cosa, fu concesso l’arruolamento (anche in marina) anche a “liberti che avevano figli e in età da arruolamento”. 
Sempre durante la guerra annibalica, nel 214 a.C., viene attuata una misura ancora più straordinaria, con la quale i cittadini più abbienti, in base al loro patrimonio, devono fornire un certo numero di schiavi come marinai e rematori – da uno a otto a testa, con tanto di alcuni mesi di paga (quando non un intero anno), equipaggiamento militare fornito dal padrone e vettovaglie per un mese. 
Anche questi schiavi, tuttavia, non sono utilizzati come tali sulle navi romane, bensì sono prima liberati. I Romani si erano posti due anni prima un problema molto simile con i 𝘷𝘰𝘭𝘰𝘯𝘦𝘴, che, pur non liberati subito, almeno di facciata si erano arruolati volontariamente. 
Del resto, nel mondo antico sarebbe stato impensabile che uno schiavo fosse arruolabile o capace di combattere. Secondo Romani ed Elleni, solo eserciti di liberi possono vincere le guerre. 
Un soldato romano non si batte per obbedire al suo comandante, ma obbedendogli. L’autorità del generale non è quella di un padrone sui suoi schiavi. 
Dopo la Seconda Guerra Punica, ai liberti è concesso di continuare a servire nella flotta romana. Sempre Tito Livio infatti riporta che nel 191 a.C., in occasione della guerra contro Antioco III di Siria, che numerosi liberti sono arruolati specificatamente come 𝘴𝘰𝘤𝘪𝘪 𝘯𝘢𝘷𝘢𝘭𝘦𝘴 – ergo, come rematori. 
Allo stesso modo, i rematori sono ora reclutati esplicitamente (anche se non sappiamo se esclusivamente) tra i liberti anche nella successiva terza guerra macedonica (171-168 a.C.). 
Ancora, sempre liberti sono i ben 20.000 rematori che Ottaviano mette insieme, secondo Svetonio, in preparazione per le fasi finali della guerra contro Sesto Pompeo nel 36 a.C. 
Per la precisione, sono 20.000 schiavi liberati per l’occasione. 
Ad ogni modo, tolti i liberti e gli schiavi liberati per l’occasione, ancora nel periodo del Principato i rematori sono usualmente forniti da alleati e ausiliari nelle province. Quello del rematore è, a tutti, gli effetti, un servizio militare.  
Questo ovviamente spiega anche perché i rematori delle navi militari romane non siano certi maltrattati, come mostrato nei film e come nel nostro immaginario – escluse, naturalmente, eventuali punizioni e sanzioni per mancanze, proprio come nell’esercito. 
Ergo, possiamo smettere di immaginarli in catene o presi ingiustamente a frustate: è solo un luogo comune difficile da scardinare. 
Guidati nel ritmo di voga dall’𝘩𝘰𝘳𝘵𝘢𝘵𝘰𝘳, i rematori sono uomini fondamentali per il buon funzionamento della nave e del suo utilizzo in battaglia, per cui si cerca anche di proteggerli come si può. 
Tra gli equipaggiamenti pensati anche per questo scopo sono attestati, per esempio in Cesare, grandi teloni di pelle (𝘱𝘦𝘭𝘭𝘦𝘴, “𝘲𝘶𝘪𝘣𝘶𝘴 𝘦𝘳𝘢𝘯𝘵 𝘵𝘦𝘤𝘵𝘢𝘦 𝘯𝘢𝘷𝘦𝘴”, con i quali erano ricoperte le navi). 
Questi teli servono anche a coprire la parte laterale sporgente della nave, l’apposticcio, ovvero quella sezione della nave dove prendono posto proprio i rematori.

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