Il mattone di Roma
I
Romani per quanto attiene all’edilizia abitativa, lungo tutta la
fase storica repubblicana (III-I secolo a. C.), utilizzano per le
strutture di elevazione il laterizio crudo sottoforma di grandi
mattoni (i famosi mattoni lidium, citati e descritti accuratamente da
Vitruvio e da Plinio nelle loro opere letterarie: argilla frammista
spesso a paglia, manipolata e trasformata in manufatti regolari
simili ai mattoni orientali semplicemente essiccati al sole) mentre
impiegano materiali lapidei in opere murarie isodome e i vari opus
murari (a base di conglomerato cementizio e paramenti in pietra più
o meno regolarizzati) nelle architetture pubbliche.
Nella
tecnica costruttiva romana l’introduzione di elementi di argilla
cotta fu molto tarda rispetto all’impiego della pietra e per alcuni
secoli – fino almeno al I secolo a. C. – investì quasi
unicamente le terrecotte architettoniche di rivestimento delle
incavallature lignee dei templi, le tegole dei manti di copertura, le
suspensurae pavimentali unitamente alle pareti ventilate degli
ambienti termali o domestici riscaldati. Con materiali laterizi di
scarto, o di recupero, si realizzarono pure le stesure pavimentali in
cocciopesto (l’opus signinum).
Dal
processo di trasferimento in ambito murario di elementi nati per la
realizzazione di manti di copertura derivarono, molto probabilmente,
sia la configurazione piatta a piccolo spessore dei mattoni romani,
sia il procedimento applicativo nelle murature che ne prevedeva un
uso del tutto particolare. Dalle tegole piatte di ampie dimensioni si
arriverà al mattone romano cotto (molto diverso da quello che oggi a
noi è familiare) fabbricato in grossi formati da tagliare in
cantiere in sottomultipli molto differenziati per dar vita a quella
che sarà la originale e caratteristica modalità costruttiva di
epoca imperiale: l’opus testaceum. Una muratura composta con
materiale laterizio all’esterno e riempimento concretizio
all’interno.
I Romani, lungo le diverse fasi dell’età
imperiale, ma con una standardizzazione dimensionale che avviene già
nel I secolo d. C., usarono per le loro costruzioni dei mattoni cotti
quadrati, abitualmente di tre formati relazionati al piede romano,
unità di misura base (29,6 cm): bipedales (2 piedi romani di lato);
sesquipedales (1,5 piedi romani); bessales (2/3 piedi romani). Più
raramente usarono il pedales (1 piede romano). Lo spessore dei
mattoni oscillava fra i 3,5 e i 4,5 cm, eccezionalmente fino ai 6-7
cm.
I
bessales (e generalmente anche i sesquipedales) erano destinati ad
essere tagliati in forma triangolare per la formazione delle cortine
esterne in opus testaceum con funzione di casseforme.
Oltre
che nelle murature in piano dell’opus testaceum, l’impiego di
questi mattoni quadrati si diffuse nelle ghiere degli archi e delle
piattabande, nelle costolature delle volte, nelle pavimentazioni in
tutto cotto. Gli scarti (risultanti dal taglio dei mattoni) e le
polveri di laterizio continuarono ad essere impiegati con grande
genialità applicativa nella realizzazione di cocciopesti
pavimentali, nei rivestimenti parietali impermeabili di cisterne e
serbatoi d’acqua, nella composizione di malte idrauliche o anche
mescolati nel conglomerato.
La
successione delle fasi utili alla costruzione della muratura in opus
testaceum prevedeva:
la
realizzazione delle due cortine parallele in mattoni mediante l’uso
di mattoni fratti, laterculi semilateres, di foggia triangolare;
Il
getto e la battitura del conglomerato per assicurare un adeguato
costipamento dell’impasto;
l’interposizione
(ogni 4-5 piedi romani: 1,20-1,50 m) di mattoni interi di più
grande formato (in genere bipedales) con ruolo di elementi
trasversali di legatura, di ripartizione dei carichi e con ufficio
di interruzione orizzontale della massa di conglomerato, consentendo
di ridurre la pressione laterale sulle cortine in laterizio che,
conseguentemente, non necessitavano in fase di costruzione di
onerose opere provvisionali.
L’uso
del laterizio cotto nella realizzazione di murature, per almeno
centocinquanta anni (fino ai primi decenni del II secolo d. C.),
individuerà un dispositivo tecnico di costruzione che scompare sotto
gli strati dei rivestimenti protettivi od ornamentali; molte delle
cortine murarie in laterizio di epoca romana che ammiriamo oggi nei
siti archeologici con la loro estrema cura esecutiva sono, in realtà,
finalizzate ad accogliere rivestimenti a base di intonaci, stucchi,
tessere musive, pietre, marmi in lastre.
Nella prima opera di
maturità della nuova architettura romana, affrancatasi
definitivamente dall’influenza greca, qual è la Domus Aurea di
Nerone (64-68 d. C.), si legge sia questo ruolo eminentemente
costruttivo e privo di linguaggio autonomo del laterizio cotto, sia
il valore architettonico del dispositivo tecnico dell’opus
testaceum capace di assecondare la grande rivoluzione di Roma:
l’innovazione spaziale degli organismi edilizi attraverso la
continuità strutturale tra le ossature murarie di elevazione e
quelle voltate in forma di superfici curve e avvolgenti.
La
captazione della luce che scende dall’alto, zenitalmente e
obliquamente nella scenografica sala ottagonale e nella corona di
ambienti ad essa collegati, si interseca nella domus neroniana con il
lavoro sulla composizione murale di quella cultura progettuale
tipicamente romana fatta di divisioni, di connessioni, di
interrelazioni tra spazi contigui.
Oltre che lavorare
nell’orizzontalità planimetrica degli ambienti, nella concatenatio
di spazi (esaltati in base a dimensioni differenziate, a
configurazioni variate, a contrasti luminisitici), la tecnica
progettuale romana si indirizza anche verso l’enfatizzazione della
verticalità.
Dalle domus, di impianto ed influenza ellenistici,
con peristili e muri che non si elevano oltre i due piani,
progressivamente i Romani sviluppano l’idea palaziale (recuperando
quando già approfondito nelle residenze regali di tradizione
micenea) che si dilata, cresce e si eleva in altezza – come nella
Domus Augustana della fine del I secolo d. C. e, poi, nelle insulae
collettive multipiano di Ostia del II secolo d. C. – ad assumere
una forte accentuazione verticalizzata dove l’ordine murario, il
valore della parete e dei mattoni cresce notevolmente di importanza
ed impatto architettonico.
Inizia così nel I secolo d. C. il
lavoro sul contrasto scalare e la monumentalizzazione dimensionale,
impostato sulla contrapposizione tra assetti orizzontali e verticali
fino ad arrivare al grande capolavoro dell’imperatore Adriano che
ricostruisce, tra il 118 e il 128 d. C., il Pantheon portatore in
esterno di un duplice livello di figuratività: la frontalità del
pronao (che conserva e ripropone l’aulicità degli ordini colonnari
di tradizione greca, stilemi dell’architettura accademica) e il
dispositivo retrostante della rotonda in opus testaceum lasciato a
vista che forma l’involucro murario di uno spettacolare spazio
interno voltato largo 43 metri con luci libere mai raggiunte fino
allora e una doppia circolarità che può essere letta in pianta e
anche in alzato.
Nel
Pantheon il dispositivo dell’opus testaceum fodera muri grandiosi e
poderosi in cui i mattoni formano una casseratura di contenimento
della massa cementizia che si alleggerisce progressivamente man mano
che si procede verso l’alto della costruzione, attraverso l’impiego
di materiali inerti più leggeri, fino all’adozione di scorie
vulcaniche molto porose nella zona sommitale della cupola in
corrispondenza dell’oculo.
Il
Pantheon è il manufatto più mirabilmente conservato della romanità
capace di restituirci una visione realistica e meravigliosa
dell’architettura monumentale d’interni di epoca imperiale; in
esterno l’opera, allo stesso tempo, attraverso la rotonda
testimonia come i mattoni lasciati a vista non ricevano un
trattamento architettonico particolare come se ancora fossero alla
ricerca di un linguaggio espressivo autonomo – di uno Stile –
consono al nuovo materiale della Roma imperiale.
Ma
altrove, non lontano dal Pantheon, un’opera utilitaria – sia pur
in sordina – ha in realtà inaugurato in quegli stessi decenni lo
stadio sperimentale dello Stile laterizio di Roma.
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