Venezia FC: Paolino abita davanti allo stadio. La storia d’amore tra Paolo Poggi, il Venezia e i suoi tifosi
Nel
gennaio del 2000 la Roma di Fabio Capello acquista il ventinovenne
Poggi dall’Udinese: l’occasione della vita in una piazza affamata
di scudetto. Oltre ad una concorrenza in attacco d’altissimo
livello (Totti, Montella, Delvecchio, giusto per fare i primi tre
nomi), non scatta alcuna chimica con l’allenatore, che lo fa
scendere in campo solo in 11 occasioni.
Nell’estate
del 2000 approda in giallorosso anche Batistuta e lo spazio davanti
si restringe ancora di più; nel gennaio successivo Poggi va quindi
in prestito a Bari. In Puglia riprende a fare gol (4 in metà
campionato) e soprattutto assist, ma non bastano a salvare i
pugliesi.
Al
termine di quella stagione 2000/01 viene ceduto al Parma e da qui,
nuovamente in prestito, arriva in un Piacenza alla ricerca della
salvezza nella massima serie Suo
partner d’attacco, nel 4-4-2 di Walter Alfredo Novellino, il
mitologico Dario Hubner, il “bisonte di Muggia”: con 24 centri,
fondamentali nel garantire ai biancorossi emiliani la permanenza in
serie A, conquisterà il titolo di capocannoniere del campionato,
terza volta per un partner d’attacco di Paolino dopo Bierhoff ed
Amoroso (e se tre indizi fanno una prova..).
La
coppia Poggi-Hubner è perfettamente assortita: Darione, tra una
sigaretta e l’altra, pensa a buttarla dentro, mentre a muoversi tra
le linee per trovare il corridoio giusto c’è Paolino da
Sant’Elena. Sigla solo tre reti, tutte nel mese di dicembre, ma
sono, per fortuna o purtroppo, indimenticabili.
La
prima arriva il 2 dicembre 2001 allo stadio Franchi di Firenze:
pronti, via e il pressing del duo d’attacco del Piacenza costringe
all’errore la difesa viola, che aveva appena ricevuto palla dopo il
calcio d’inizio battuto dalla stessa Fiorentina. Stavolta è
Darione, con un tocco furbo in pressione, a servire la palla a
Paolino, il quale si invola e appena dentro l’area fa partire un
destro che si insacca potente e preciso sotto la traversa: sono
passati appena 8 secondi e qualche decimo e, tutt’oggi, quello
rimane il gol più rapido mai segnato in serie A.
Le
altre due reti arrivano a 14 giorni di distanza, nel recupero della
sesta giornata disputata il 19 dicembre anziché a fine settembre,
per una serie di rinvii scaturiti dagli attentati dell’11/9
statunitense. Di fronte, al Pierluigi Penzo di Sant’Elena, a non
più di 150 metri in linea d’area dalla casa dove è nato, si
trovano il Venezia di Paolino e il Piacenza di Poggi, la squadra per
la quale non ha mai nascosto l’amore incondizionato e il suo
presente, fatto di una casacca biancorossa da difendere come ogni
professionista deve fare. Il Venezia è già con l’acqua alla gola,
sembra un’annata a tinte fosche e infatti sarà così (e forse pure
peggio); in quel dicembre, le speranze di salvezza degli
arancioneroverdi passano in gran parte attraverso lo scontro diretto
con il Piacenza. Le premesse (il “ritorno a casa” di Poggi e
dell’ex tecnico Novellino, un Venezia che con la grinta di Beppe
Iachini in panchina, subentrato da poco, sembra in crescita) paiono
perfette; e infatti gli arancioneroverdi giocano bene, nonostante un
clima gelido sia letteralmente (ricordo le difficoltà di equilibrio
per il ghiaccio, specie sulla fascia sotto la tribuna), sia
metaforicamente, complice la contestazione dei tifosi rivolta
comunque non tanto alla squadra, quanto alla società (era già
chiaro il disimpegno di Zamparini, che infatti l’estate seguente
depauperò il club portando via giocatori e dirigenti in direzione
Palermo). A dirla tutta, il Venezia in quell’occasione gioca una
delle sue migliori partite e sulle tribune applausi e cori spontanei
prendono via via il posto della contestazione: squadra e pubblico
sembrano dire, insieme, che il Venezia c’è e vuole rimanere
aggrappato sino alla fine alla serie A con le unghie e con i denti.
Al vantaggio nel primo tempo di Maniero (minuto 35), segue il
pareggio piacentino a firma Gautieri dopo 10’ della seconda
frazione; il Venezia non demorde e trova la rete del nuovo vantaggio
con Magallanes, appena 3’ dopo aver subìto la parità. I tre punti
sembrano quasi in tasca, qualcuno addirittura inizia a stilare
mentalmente la classifica che scaturirebbe in virtù del successo
arancioneroverde, la permanenza nella massima serie non appare una
chimera come invece un paio d’ore prima. La pressione del Piacenza
è relativa e non sembra poter mettere in discussione il successo di
un Venezia che si difende senza troppi affanni; e invece, a 9 minuti
dalla conclusione, ecco quel volto familiare infliggere la prima
coltellata al costato arancioneroverde, utile al Piacenza per
raggiungere la parità. Mica finita, perché subito dopo (minuto 38
del secondo tempo) el bocia de sant’eeena colpisce
al cuore i lagunari per la seconda volta. Due gol belli, a cui
Paolino reagisce senza esultare, con la faccia di chi ha fatto il suo
dovere ma non avrebbe voluto, non così, non oggi, non di fronte ad
un Venezia derelitto, affondato definitivamente da quella doppietta,
sicuramente la più amara della sua carriera. Il buio più pesto cala
così sulla squadra di mister Iachini, sul Penzo, sul rientro a casa
di ogni tifoso, giunto allo stadio magari sin dal principio
abbastanza disilluso, eppure devastato dal copione di quel pomeriggio
beffardo e carogna, emblema perfetto di una stagione nata male e
conclusa peggio.
Sugli
spalti, dopo i cori affettuosi e ironici fatti in precedenza (“Ed è
la Sud che te lo chiede, e Paolo Poggi facci un gooool”, presto
tramutato in “E Paolo Poggi un autogol” a cui il nostro risponde
con saluto e sorriso), qualcuno tira fuori anche la rabbia nei
confronti del bocia: “Ghesboro Poggi, proprio oggi ti gavevi da
far doppietta, itamorti!!”; oppure “Xe inutie che no ti
esulti, ti ne ga mandà in serie B!!”, anche se in realtà
tutti sanno che in serie B ci saremmo andati comunque, anzi, ci si
era già in un certo senso. Paolino alza le mani quasi a chiedere
scusa, ma non è certo colpa sua se si sta scivolando mestamente
verso il baratro; più della rabbia, in quel momento sul Penzo regna
lo sconforto, a cui i reciproci applausi dopo il 90° tra Poggi e il
pubblico lagunare aggiungono un tocco romantico e nostalgico, utile
ad accentuare la sensazione di paradosso scaturita dalla trama di
quel match balordo. Come del disinfettante su una ferita appena
aperta: serve, lo sai che serve, ma brucia da morire.
Paolino
quella sera non tornerà a casa con il resto dei compagni, ma lascerà
il Penzo a piedi e, dopo un ponte e qualche calle, arriverà a casa,
non più quella dei genitori bensì la “sua” di uomo adulto,
sempre rigorosamente in laguna. Uscendo dallo stadio, Poggi lo
sentirà tutto il dramma sportivo dei veneziani calciofili, sentirà
l’umore di una piazza abbandonata a sé stessa da un padre-padrone
come Zamparini che si è stancato del suo giocattolo e lo sta
lasciando morire con sadico cinismo: “salvaci tu!” gli urla
qualcuno durante il corto tragitto verso casa.
Non
so se sia in quel momento, o solo qualche mese dopo quando il disegno
di Zamparini si concretizzò, che in lui matura la consapevolezza di
dover tornare a casa anche da un punto di vista professionale; a me
piace pensarlo con la borsa in spalla, sulla via di ritorno,
attorniato da sguardi amici e conosciuti; e riconoscere, in quegli
stessi sguardi, una chiamata di aiuto, alla quale la medesima sera
decide di rispondere presente. Come un super-eroe.
L’estate
del 2002, per la Venezia calcistica, è l’incubo che si
materializza: dopo la retrocessione e l’addio alla serie A,
Zamparini lascia, come oramai era evidente da alcuni mesi. Lo fa
nella peggiore maniera possibile: decide di usare il “metodo
Cartagine”, spargendo sale affinché nulla possa più crescere;
acquista il Palermo in serie B e porta con sé i giocatori del
Venezia, che dalla sera alla mattina cambiano squadra come nulla
fosse, senza una reale compravendita, come fossero nanetti da
giardino da trasferire da un domicilio all’altro.
La
società arancioneroverde viene abbandonata nelle mani di Franco Dal
Cin, personaggio nebuloso del mondo del pallone a cui Zamparini
lascia un club ormai costituito solo da debiti e qualche scarto.
Leggere la parte sportiva dei giornali locali, in quell’estate, è
un esercizio di masochismo, ma le vere pugnalate alla schiena
arrivano dall’indifferenza generale, perché Venezia non è piazza
da muovere le grandi testate e tutto si consuma nel silenzio dei
quotidiani nazionali e delle loro firme, che anzi spesso plaudono al
nuovo corso del Palermo: una corazzata costruita da Zamparini per
salire subito in serie A.
Ben
diverse le prospettive del Venezia: già allestire una squadra sembra
un successo, si naviga a vista con poco entusiasmo e ancor meno
risorse. Dal Cin (assieme al figlio) costruisce una rosa fatta di
giocatori svincolati e stranieri sconosciuti, mettendo alla guida di
quel gruppo sgangherato un volto noto alla piazza: Gianfranco
Bellotto, in passato già allenatore degli arancioneroverdi nella
serie B degli anni Novanta. È un nome capace di trasmettere fiducia,
perlomeno per raggiungere una salvezza che comunque appare tutto
fuorché scontata, dopo l’estate più nera del calcio veneziano.
Fiducia
che assume maggiore concretezza quando Dal Cin, in un modo o
nell’altro, riesce a convincere il Parma (detentore del cartellino)
a lasciar andar via in prestito Poggi; anzi, sarebbe meglio dire che
lo stesso Poggi riesce a convincere il Parma, dato che l’attaccante
bussa alla porta dei dirigenti ducali per chiedere di essere lasciato
libero di tornare nella sua Venezia a dare una mano. Per farlo, è
necessaria anche una forte riduzione del suo ingaggio, insostenibile
per le disastrate casse della società arancioneroverde.
Non
solo, perché Paolino si trasforma anche in dirigente e non è un
caso se, ad esempio, pure Alessandro Calori (suo compagno a Udine,
una carriera sui campi della serie A) si fa convincere dall’amico
accettando la sfida veneziana. Sulle spalle di Poggi e Bellotto (due
cuore arancioneroverdi, ciascuno a suo modo) gravano le speranze dei
tifosi.
Si
badi bene, mica speranze di promozione o chissachè: il tifoso
veneziano medio, nell’estate del 2002, prega la dea Eupalla
affinché il campionato alle porte possa portare, se non proprio
gioie, perlomeno qualche sventura in meno di quello precedente: una
salvezza- anche all’ultimo minuto dell’ultima giornata- e la
prospettiva di non fallire miseramente subito dopo, sono il massimo a
cui aspirare ai nastri di partenza della stagione 2002/03.
Una
missione che quella banda sgangherata, assemblata in poche settimane
e senza alcun soldo, pescando qua e là tra i calciatori disoccupati
della penisola, riuscì a compiere (ovviamente all’ultima giornata)
al termine di uno dei campionati che ricordo con maggiore gioia.
Sarà
che sentirsi soli contro tutti aiuta l’empatia, sarà che ci stava
Paolino, sarà che a novembre, nel primo faccia a faccia contro il
Palermo di Zamparini, quel gruppo fantastico riuscì nell’impresa
di espugnare il Barbera (0-2, gol di Brncic, l’uomo da una sola
vocale, e di Poggi, chi altri sennò?), regalandoci pura e magnifica
estasi vendicativa; non so cosa fu, ma fu qualcosa di elettrico, in
grado di far meritare al Venezia 2002/03 un posto sul mio
personalissimo podio delle squadre arancioneroverdi preferite.
Terminato
il prestito, nell’estate del 2003 Poggi tornerà al Parma, per poi
passare all’Ancona neopromosso in serie A. Una parentesi durata
pochi mesi: a gennaio 2004 il suo Venezia ha ancora bisogno di aiuto,
serve tornare in laguna a confutare per la seconda volta la tesi per
cui in patria nessuno può essere profeta.
L’Ancona
in cui Poggi ha la sfortuna di capitare, è una delle farse
societarie e tecniche del calcio italiano di quella fase; difficile
trovare lungo la penisola qualcosa di meno serio, perlomeno a livello
dirigenziale e organizzativo, impresa in cui comunque Paolino riesce.
Basta infatti rivolgere lo sguardo verso la sua Venezia per trovare
una società in condizioni forse peggiori dell’Ancona in cui milita
per pochi mesi.
A
gennaio fa le valigie per scendere di categoria, abbassarsi
nuovamente lo stipendio e tornare in laguna, con l’obiettivo di
portare la squadra arancioneroverde verso un’altra difficile
salvezza. Sembrerà un traguardo banale, ma il nostro sa bene che
retrocedere equivarrebbe a sicuro fallimento della società e del
titolo sportivo, per cui la permanenza in categoria non è fine a sé
stessa, ma significa ben altro; innanzitutto, e scusate se è poco,
sopravvivenza.
Durante
la pausa invernale la squadra, affidata ad inizio campionato ad
Angelo Gregucci, naviga nei bassifondi della classifica e l’apporto
di Poggi appare fondamentale per riportare entusiasmo e far crescere
il tasso tecnico e d’esperienza della rosa.
Pochi
giorni dopo il suo secondo ritorno in laguna, arriva al Penzo, in un
pomeriggio assolato di inizio febbraio, l’Atalanta, capolista
imbattuta e già con un piede in serie A; un pareggio contro la Dea,
per il Venezia che annaspa, sarebbe già grasso che cola. Gli
arancioneroverdi però, con Poggi in campo, diventano più coraggiosi
di quelli visti nel girone d’andata. L’Atalanta non trova spazi
e, in avvio di ripresa, ecco scaturire sotto la Curva Sud, sotto il
mio sguardo, uno dei gol più belli a cui abbia assistito dal vivo.
La
palla arriva a Paolino spalle alla porta, a quattro o cinque metri
dall’area di rigore, un po’ spostato sul lato destro
dell’attacco; il numero 71 arancioneroverde (da qualche anno ha
abbandonato lo “storico” 11 per passare all’anno di nascita) si
trova attorniato da almeno tre giocatori bergamaschi, uno dei quali,
ricordo come fosse ieri, è Marcolini, onesto centrocampista di rossa
capigliatura con una discreta carriera all’attivo.
Sempre
spalle alla porta, con un tacco Poggi fa passare la palla sotto le
gambe di Marcolini, spostando in questo modo la sfera verso il centro
e avvicinandola di qualche metro all’area, praticamente sul
semicerchio. Da lì, Paolino da Sant’Elena, fa partire un tiro a
giro che accarezza il palo e si infila in porta, con Taibi immobile
ad osservare: una delle gioie più grandi provate allo stadio!
La
partita terminò con l’imprevedibile successo del Venezia in virtù
di quella splendida rete; e se per caso voleste controllare in
internet, più di uno scarno tabellino è difficile trovare.
Sì,
insomma, su varie piattaforme potrete trovare diverse immagini di
molti Venezia-Atalanta, i più conclusi con la vittoria ospite; ecco,
quelli con le vittorie ospiti ci sono, mentre del successo targato
Poggi c’è il nulla totale, ma vi assicuro che poche cose sono
scandite così bene nella mia memoria.
Forse
sì, il cappello da doge e il mantello da super-eroe, che sono quasi
sicuro indossasse il nostro in quell’occasione, possono essere
frutto di fantasia; difatti, ho evitato di citarli sino a qua. Il
resto, però, è tutto vero, compresa la salvezza ottenuta poi da
quel Venezia dopo un doppio spareggio con il Bari (1-0 pugliese
all’andata, 2-0 lagunare nel ritorno del Penzo).
Come
ormai tradizione, tuttavia, a fine campionato la società- ancora
capeggiata da Dal Cin- non fece nulla per trattenere Poggi il quale,
messo di fronte ad un progetto sportivo imbarazzante, partirà in
direzione Mantova, club ambizioso di C1 dove ritroverà il “bisonte”
Hubner, partecipando da protagonista ad un biennio d’oro del calcio
virgiliano.
Mama
Madona dei venessiani – Ti te ricordi secoi fa? – L’ambasciatore
dei mantovani – a giugno ea peste el na portà”: canta così
Alberto D’Amico, nella bellissima canzone“Mama Madona dei
venessiani”,struggente lirica dedicata alla Madonna della
Salute e al voto (costruire una chiesa in onore della Vergine) che
fecero i veneziani nel diciassettesimo secolo, affinché terminasse
il morbo. Non so se fu proprio colpa dell’ambasciatore mantovano
(il paziente zero della peste?); di certo, secoli dopo, Paolo Poggi
compie il percorso inverso, con inversi risultati rispetto allo
sfortunato ambasciatore. Venezia fa partire uno dei suoi figli
prediletti, Doge calcistico che si farà ben volere anche in terra
virgiliana.
A
Mantova- stagione 2004/05- Paolo riabbraccia come detto Dario Hubner
e, pur in serie C1, trova una piazza affamata di calcio, una
presidenza in quel momento apparentemente illuminata (solo qualche
anno dopo il patron Fabrizio Lori si rivelerà invece essere uno dei
tanti approfittatori saliti sul carro dello sport più amato) e un
progetto sportivo ambizioso, con una squadra che centra al primo
colpo la promozione attraverso i playoff anche grazie ad una
fantastica rovesciata di Poggi nella fase decisiva della stagione. Il
“bisonte” (di quattro anni più anziano di Paolo, nonché dedito
a grappe e sigarette in misura maggiore rispetto al nostro) lascerà
il professionismo, mentre Poggi proseguirà l’esperienza virgiliana
per un’altra stagione, godendosi la serie B conquistata sul campo.
Una
serie B- stagione 2005/06- che il Mantova onora alla grande
riuscendo, da neopromossa, a stupire tutti arrivando sino alla
finalissima playoff per salire in A contro il Torino. Alla fine, sono
i granata a conquistare la massima serie e non basta al Mantova un
gol di Poggi nella gara di ritorno per difendere il 4-2 dell’andata:
i virgiliani vengono infatti sconfitti 3-1 al Delle Alpi e
abbandonano i sogni di gloria.
Il
richiamo della laguna, nel frattempo, si è fatto più forte per
Paolo ed in società, complice un sopraggiunto fallimento, qualcosa è
cambiato: il Doge può finalmente tornare a casa.
di
Tommaso Vianello
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