L'urlo di Spartaco, l'uomo che fece tremare Roma

Nacque in Tracia, terra aspra e selvaggia, dove i venti dei Balcani urlano come lupi tra i monti. Spartaco non era un uomo libero quando la Storia lo incontrò: era uno schiavo, spogliato del nome e della dignità, gettato nella fornace dell’Impero Romano. 
In Campania, dove il sole brucia i campi e l’arena assetata di sangue reclamava spettacolo, egli divenne gladiatore, un corpo addestrato alla morte per il piacere di altri uomini.
Era il I secolo avanti Cristo, il tempo in cui Roma, ubriaca di conquiste, estendeva il proprio dominio su quasi tutto il mondo conosciuto. Con le legioni tornavano dalle campagne militari immense ricchezze e masse di schiavi, mentre i piccoli contadini italici, schiacciati dalla concorrenza delle grandi tenute schiavistiche, cadevano nella rovina. 
I loro campi deserti, le case abbandonate, spingevano folle disperate verso le città, dove vivevano di espedienti e di carità. Per placare la fame e l’ozio delle plebi urbane, i magistrati distribuivano pane e offrivano spettacoli gladiatori: corpi di schiavi sacrificati per l’intrattenimento del popolo.
Fu proprio da una di queste scuole, a Capua, che nacque la scintilla della ribellione. Ottanta gladiatori, armati di coltelli da cucina, rovesciarono i loro carcerieri e corsero verso la libertà, arroccandosi sulle pendici del Vesuvio. Tra loro c’era Spartaco, che divenne subito il loro capo naturale, affiancato da Crisso ed Enomao, guerrieri prigionieri di guerre lontane. Al loro fianco si raccolsero contadini impoveriti, schiavi fuggitivi e uomini senza patria, fino a formare un’armata di disperati.
Roma all’inizio sorrise di disprezzo, come di fronte a un gioco da ragazzi. Ma in breve tempo, quell’orda di ribelli crebbe fino a quaranta mila uomini, armati alla meglio ma animati da un unico sogno: la libertà. Spartaco, con un esercito che presto superò i centomila, decise di guidarli verso nord, verso le Alpi, verso la terra promessa della liberazione. 
Ma il dissenso con Crisso ed Enomao divise l’armata. I ribelli in Puglia, guidati dai due luogotenenti, vennero sterminati, mentre Spartaco sconfisse clamorosamente i Romani presso Modena. Poi, inspiegabilmente, tornò verso sud. Forse voleva spingere la ribellione nel cuore stesso di Roma, forse era spinto dall’illusione di un futuro diverso per i suoi uomini.
Fu allora che Roma comprese l’entità del pericolo e affidò poteri straordinari a Marco Licinio Crasso. Con dieci legioni egli mosse contro Spartaco, mentre l’esercito ribelle cominciava a sgretolarsi sotto il peso della fame, della paura e delle ambizioni personali. 
Spartaco tentò di raggiungere la Sicilia con l’aiuto dei pirati cilici, ma fu tradito. Crasso lo accerchiò vicino a Reggio, con una palizzata lunga cinquantacinque chilometri: un muro di legno contro uomini che volevano solo vivere liberi.
Il sogno stava finendo. Spartaco ruppe l’assedio, ma la sua armata era ormai una moltitudine sbandata. L’ultima battaglia si consumò in Lucania: un massacro. Spartaco cadde combattendo, il suo corpo non fu mai trovato, come se la Storia volesse consegnarlo al mito piuttosto che alla tomba. 
I seimila prigionieri catturati furono crocifissi lungo la via Appia, una linea infinita di dolore e terrore, monito a chiunque osasse sfidare Roma. Gli ultimi superstiti furono infine massacrati in Etruria da Pompeo.
Eppure, il nome di Spartaco sopravvisse al tempo, simbolo eterno della lotta degli oppressi contro i loro padroni, eco di libertà che riecheggia ancora nei secoli, nei canti dei popoli e nei sogni di chi non si arrende.
Da Scripta Manent

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