Il “fardello dell’uomo romano”. Plinio e i Cauci
Cosa
pensavano i Romani del loro ruolo nel mondo? In che prospettiva si
ponevano nel pensare loro stessi e gli altri popoli?
La
risposta a questo quesito non è univoca, e cambia a seconda della
mente che la esprime e del periodo storico.
Si
pensi per esempio a come tra fine del I e II sec. d.C., scrittori
come Tacito mettano in bocca a personaggi non romani un pensiero
celebre come “Dove [i Romani] fanno il deserto, lo chiamano pace”.
Si
tratta, forse, di un raro esempio di autocritica, all’interno di
una letteratura latina spesso celebrativa – ma del resto questo
approccio sembra radicato in Tacito.
Tuttavia,
più che esprimere il pensiero dominante, Tacito pare rappresentare
una minoranza, che del resto in precedenza non sembra trovare molte
altre espressioni (simili pensieri, anche se declinati in modo molto
diverso e non riferiti alla romanità nel suo complesso, si possono
trovare in Lucano).
Specie
a partire dal periodo augusteo, infatti, buona parte dell’élite
intellettuale romana non ha dubbi sul ruolo di Roma nel mondo: un
ruolo di conquistatrice e dominatrice, con la missione
universalistica di ricondurre tutti i popoli sotto l’aquila
dell’Urbe.
Una
consapevolezza che forse è riassunta al meglio dai celebri versi di
Virgilio:
“Tu regere imperio populos Romane memento / (hae
tibi erunt artes) pacisque imponere morem, / parcere subiectis et
debellare superbos”
(“Ricorda, o Romano, di dominare le
genti: queste saranno le tue arti, stabilire le norme alla pace,
risparmiare i sottomessi e debellare i superbi”).
Un
pensiero molto ben espresso anche da Tito Livio, quando fa dire, in
modo decisamente anacronistico, a un generale romano del II sec.
a.C.: “[…] voi [legionari romani] aprirete l’Asia e la Siria e
i più floridi regni del lontano Oriente alla supremazia di Roma.
Cosa allora ci impedirà di estendere il nostro dominio da Gades
[Cadice] al Mar Rosso, senza alcun limite se non l’Oceano che
circonda il mondo, e facendo guardare l’intera razza umana a Roma
con una reverenza solo seconda a quella che ha verso gli dèi?”
Parole
che, alla luce dell’estensione delle conquiste romane quando Livio
scrive, definiscono molto bene l’orizzonte imperiale del periodo.
Un
simile pensiero è ben espresso anche dalla generazione successiva a
Livio, ed è estremamente ben rappresentato da un passo di Plinio il
Vecchio dal libro XVI della Storia Naturale, nel quale è descritta
la popolazione germanica dei Cauci.
Plinio
ha un’esperienza diretta con la Germania, i Germani e i loro stili
di vita, avendo partecipato come comandante di ausiliari a una
campagna in Germania condotta da Domizio Corbulone nel 47.
Per
suoi contemporanei come Lucano, i Germani rappresentano la libertà –
una libertà che ha abbandonato Roma a causa delle guerre civili e
che è sfociata nel Principato -, in uno stereotipo che avrà vita
fortunatissima nel corso dei secoli.
Ebbene,
questa è una libertà che Plinio non capisce e che anzi, disprezza.
Si chiede che tipo di libertà sia quella dei Cauci, che vivono in
miseria e di stenti, quando sotto il governo di Roma vivrebbero
solamente meglio, e imputando la “libertà” dei Cauci a un mero
capriccio della fortuna (nel senso antico del termine).
Così
Plinio:
“In
quel luogo, gente miserabile, i Cauci, occupano alti tumuli o tribune
costruite con le loro mani secondo la loro esperienza dell’alta
marea. […] Non hanno bestiame, non si nutrono di latte, come le
genti vicine, non combattono contro animali feroci, essendo lontani
da ogni forma di vegetazione.
Con erba o giunchi palustri
annodano corde per fare reti per i pesci; mettono a seccare più al
vento che al sole fango raccolto con le loro mani; e con la terra
scaldano i cibi e le loro viscere, gelate dal vento del nord.
Non
hanno alcuna bevanda, se non acqua piovana, che conservano in buche
all’ingresso delle loro case.
Con erba o giunchi palustri
annodano corde per fare reti per i pesci; mettono a seccare più al
vento che al sole fango raccolto con le loro mani; e con la terra
scaldano i cibi e le loro viscere, gelate dal vento del nord.
Non
hanno alcuna bevanda, se non acqua piovana, che conservano in buche
all’ingresso delle loro case.E queste genti, se oggi fossero vinte dal popolo romano, direbbero di essere in schiavitù!
Non c’è dubbio: la fortuna risparmia molti per punirli.
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