Processo a Caporetto
Con
la Prima guerra mondiale si assistette ad un conflitto che oltre a
coinvolgere molti paesi lontani dal contesto europeo, sconvolse in
modo significativo la quotidianità dei civili obbligandoli ad
adattarsi velocemente ad una realtà molto diversa da quella a cui
erano abituati. L'economia stessa era subordinata alle esigenze della
guerra e la mobilitazione di masse di uomini, le restrizioni
alimentari, i bombardamenti aerei, la militarizzazione delle
fabbriche ebbero effetti diretti anche sulla vita dei civili che
doveva essere, dalle classi dirigenti, il più possibile controllata.
Per governare efficacemente il dissenso interno fu necessario
elaborare politiche eccezionali, che concessero pieni poteri al
governo e che portarono a importanti limitazioni delle libertà
individuali e dei diritti fondamentali dei cittadini. Il Parlamento
ne uscì fortemente ridimensionato e in un contesto come l'Italia,
dove le forze socialiste e cattoliche godevano di una buona
rappresentanza popolare, era presente ancora solo un modesto senso di
appartenenza nazionale inducendo quindi le autorità militari e
civili a preferire programmi e azioni politiche decisamente
autoritarie. Le misure repressive furono in parte mitigate con
provvedimenti di natura sociale, tra cui l'iscrizione obbligatoria
alla cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e la vecchiaia
ed erogazioni di sussidi per la disoccupazione. Il potere militare
assunse, in diversi settori, il ruolo dello Stato sia in quei
territori interessati dai combattimenti o d’importanza strategica
(attraverso atti giuridici che non necessitavano di alcuna
promulgazione parlamentare) sia per gestire e controllare la
produzione industriale gestita dall'Istituto per la mobilitazione
industriale. Le condizioni lavorative nelle fabbriche peggiorarono
notevolmente, per garantire una produzione adeguata alle necessità
che la guerra imponeva e per assicurare questo obiettivo, gli operai
furono militarizzati e costretti a turni sfiancanti. Con la ferrea
disciplina, applicata anche a donne e a minori, si accompagnava una
forte sorveglianza che mirava a individuare all'interno dei centri di
produzione, e non solo, individui sovversivi come pacifisti,
socialisti, anarchici ecc.. considerati nemici interni allo Stato
tanto quanto i soldati al fronte. Il peggioramento delle condizioni
di vita portò, già a partire dal 1916, un aumento delle proteste
popolari ma dopo la grande disfatta di Caporetto, le politiche
repressive aumentarono considerevolmente non solo per garantire
stabilità ma anche per impedire che si arrivasse alla creazione di
un governo che potesse includere i socialisti, che infatti subirono
una dura campagna di persecuzione. La Regia commissione d'inchiesta
sul ripiegamento dall’Isonzo al Piave che iniziò il proprio lavoro
il 12 gennaio 1918 non fu certo agevolata da tutte queste tensioni
interne. La commissione, voluta da Orlando, era presieduta dal
generale dell'esercito Carlo Caneva e formata da tre parlamentari
interventisti e tre militari.
Come
segretario venne nominato il colonnello Zugaro, affiancato dal
maggiore Marras. Questo lungo e complesso lavoro, durato 17 mesi,
oltre a produrre una quantità enorme di documentazione dopo la
testimonianza di oltre 1000 testimoni tra militari, giornalisti, e
politici in 241 sedute, portò anche diversi scontri sulla stampa e
in Parlamento. Dopo soli tre mesi dall'inizio dei lavori, il ministro
della guerra Zupelli richiese aggiornamenti in merito alle prime
responsabilità emerse per i comandanti coinvolti sottolineando che
si sarebbe accontentato delle ipotesi di colpa ricadenti su pochi
generali, tra cui Cadorna e Capello. Nelle intenzioni del ministro
c’era, forse, la volontà di non coinvolgere prematuramente troppe
figure, ormai chiave, dello stato maggiore (come Badoglio) con la
guerra ancora in corso. La risposta della commissione si rivelò
contenuta e piuttosto generica; prese in considerazione solo i giorni
dal 24 al 26 ottobre evitando di approfondire troppo questioni più
complesse come i problemi durante la ritirata, il morale delle truppe
ecc.. Si produsse quindi una prima e parzialissima bozza di
conclusioni, che rimarrà piuttosto fedele alla relazione ufficiale
finale se non per il caso particolare di Badoglio. Innanzitutto, le
accuse furono rivolte al Comando supremo per l’inadeguatezza delle
linee difensive sul Tagliamento, per una sbagliata utilizzazione
degli elementi materiali e morali e per non aver valorizzato la
figura del sottocapo di Stato maggiore, relegato spesso a mansioni
secondarie e scavalcato dalla segreteria personale di Cadorna. Poi il
comandante della II armata, Luigi Capello, venne accusato di aver
avvisato tardivamente il Comando della minaccia proveniente dalla
propria sinistra, dello stato inefficiente delle truppe e
dell’inaffidabilità di alcuni collegamenti. La commissione gli
riconobbe però come attenuante il precario stato di salute. Il
comandante del XXVII corpo d’armata, Pietro Badoglio, venne
accusato di non aver impiegato efficacemente la brigata Napoli
inviatagli dal Comando col fine di rafforzare la sua ala sinistra.
Questo errore, secondo la commissione, aggravò la posizione del IV
corpo d’armata comandata da Alberto Cavaciocchi che però si
dimostrò altrettanto responsabile a causa del discutibile impiego
delle riserve, nella poca accuratezza nel rappresentare le condizioni
delle truppe ai superiori e per le insufficienti disposizioni per la
ritirata. Infine, per il comandante del VII corpo d’armata Luigi
Bongiovanni, le accuse furono più tenui e si sottolineò il suo
scarso intuito e un’azione sterile di comando. Si constatò quindi
che gli ufficiali citati potevano essere ritenuti indiziati di gravi
responsabilità che causarono l’insuccesso, ma la commissione si
sollevò dalla responsabilità di agire rimandando eventuali
provvedimenti alla fine dell’inchiesta. Le polemiche e i toni che
sono riscontrati all'interno delle varie bozze rispecchiano inoltre
le difficili e spesso confuse relazioni tra il comando supremo e il
governo. Questo fu quindi uno dei fattori di cui la commissione tenne
conto, poiché contribuì a creare un clima adatto per la disfatta.
Ci furono, infatti, molti contrasti tra Cadorna e i diversi membri
del governo tra il 1915 e il 1917. In particolare, Cadorna non
volevaammettere
alcuna ingerenza su questioni essenziali come la direzione politica
della guerra, la gestione degli uomini e l'andamento complessivo del
conflitto. Sia Salandra che Boselli reputavano Cadorna una persona
decisamente scomoda, ma decisero di lasciarlo al suo posto sia per la
difficoltà di trovare un sostituto. Decisamente critico fu anche il
generale Tassoni che lamentò l'esagerato potere concesso a Cadorna,
che definì guerrafondaio e interessato solo a portare l'Italia in
guerra. C'erano anche degli evidenti limiti caratteriali che lo
rendevano inadatto gestire un esercito in una guerra di tali
proporzioni. L'onorevole Riccio, ministro dell’agricoltura, lo
definì inutilmente puntiglioso, sempre alla ricerca di un alibi e
capace solo di creare un ambiente poco sereno attorno a sé. Anche
Bissolati, uno dei fondatori del partito socialista italiano, ebbe la
stessa impressione leggendo le lettere piene di invettive contro il
disfattismo che il generale gli inviava. Nel novembre del 1917
Cadorna venne esonerato dal comando e gli venne affidato il compito
di partecipare al Consiglio supremo interalleato. La commissione
constatò che la posizione di Cadorna era già stata indebolita in
passato con la disfatta nel 1915 del Trentino, che comportò forti
decurtazioni territoriali e metteva a bilancio più di 150.000
perdite tra morti, feriti e prigionieri. Anche quella offensiva
nemica in Trentino poteva essere prevista perché molte erano le
informazioni giunte dagli Uffici informazione ma il generale non la
ritenne una minaccia reale. Agli occhi del comandante supremo invece
il governo era colpevole di agire in modo poco risoluto contro il
dilagare del disfattismo e nella deposizione del 15 maggio nel 1918
Cadorna ricordò che si era raccomandato con Salandra su questo
problema, sottolineando l'impossibilità di fare la guerra con alle
spalle un paese irrequieto. In merito a questo, i governi Boselli e
Orlando potevano vantare l'emanazione del decreto legislativo 1561,
decreto Sacchi, che proibiva scioperi, agevolava la censura e
inaspriva le strategie di repressione. Anche i rapporti coi ministri
della guerra susseguitisi tra il 1915 e il 1917 furono complessi,
eccetto che con il ministro Giardino, sostituto di Morrone, con il
quale il rapporto fu ottimo vista la comunanza di vedute. Egli difese
fermamente Cadorna di fronte alla commissione riguardo agli eventi di
Caporetto e trovava personalmente sconcertante che un generale di
tale statura venisse messo in discussione. Questione delicatissima,
che venne affrontata dalla commissione, è l'accusa di tradimento.
Alcune persone lo reputarono la causa principale della disfatta a
Caporetto come il generale Di Giorgio, il quale ritenne che la
sconfitta non avvenne a causa delle abilità militari austro tedesche
ma per la capacità del nemico di favorire e diffondere il
disfattismo tra le truppe italiane. Secondo Di Giorgio, questa
sfiducia in grado di deprimere sensibilmente lo spirito combattivo
delle truppe fu additabile anche ai socialisti e a tutti quei
cittadini che dimostrarono con atti e discorsi il loro pessimismo.
Anche il generale Tettoni fu dello stesso parere e reputò
insufficiente spiegare queste defezioni semplicemente tramite la
difficoltà della vita di trincea.
Inoltre,
in quell'ottobre e novembre del 1917, il nemico catturò circa
300.000 prigionieri, per un totale a fine della guerra di circa
600.000 soldati italiani catturati. Per molti di questi soldati, la
prigionia fu terribile anche perché l'Italia non condivideva l'idea,
degli altri paesi europei, di sostenere economicamente i propri
prigionieri. Infatti, le forze dell'Intesa nel novembre del 1914 si
adoperarono per un blocco economico per danneggiare l'Austria e la
Germania, che dichiararono di non poter garantire ai prigionieri
adeguata assistenza. La decisione di abbandonare alla loro sorte i
prigionieri fu principalmente di Cadorna e Sonnino, i quali pensavano
che in questo modo i soldati non avrebbero potuto preferire la
prigionia alla dura e rischiosa vita in trincea. Quelli che
riuscirono a tornare, a guerra finita, trovarono un paese che li
temeva e li considerava dei traditori. Molti non dimenticarono di
essere stati abbandonati e aderirono a posizioni politiche che
chiedevano con forza il superamento del liberalismo. Ma in realtà il
rifiuto per la guerra e la vita in trincea era dettato da aspirazioni
personali come la propria famiglia o il ritorno ad una vita serena e
non certo dalla volontà dei soldati di tradire la causa italiana.
Del tradimento però furono certi gli estensori del bollettino del 28
ottobre 1917. In esso si parlava esplicitamente di: “mancata
resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza
combattere o ignominiosamente arresisi al nemico” e Cadorna si
assunse in pieno la responsabilità e le conseguenze che esso
produsse. Egli ritenne doveroso sottolineare che il tradimento era
solo di una parte dell'esercito e si difese dalle accuse di chi
sostenne che era solo un alibi per sottrarsi alle conseguenze della
disfatta. Il bollettino venne infatti letto in presenza del ministro
Giardino e Dallolio i quali non mossero alcuna obiezione alla
spedizione. Ma fu veramente Cadorna a scrivere il bollettino? Il
generale Porro sostenne alla Commissione di essere l’autore del
comunicato alla presenza di alti ufficiali e dei ministri Giardino e
Dallolio, e questo fu confermato anche da padre Semeria, anch’egli
presente alla riunione. Il generale Piccione ipotizzò invece che il
nulla osta fosse arrivato per via telefonica dal capo di Stato
maggiore che in quel momento si trovava non a Treviso, ma a Padova.
Piccione dichiarò di aver incontrato il 27 ottobre Badoglio, il
quale propose di indicare quali fossero le Brigate incriminate di
aver disertato, cioè, la Roma e Le Puglie. Diversa è poi la
dichiarazione del ministro Giardino, il quale smentisce parte del
racconto di Cadorna e di Porro, dicendo di aver letto il comunicato
quando ormai era già partito, evitando di esprimere la propria
opinione per non turbare ulteriormente il capo di Stato maggiore.
Molti testimoni giudicarono comunque il comunicato come precipitoso,
ingiusto e in grado di portare solo disonore alla nazione. Salandra
espresse piena riprovazione e disse che, anche se i fatti si fossero
svolti esattamente comeesposti dal bollettino, sarebbe stato comunque
inopportuno descriverli in quel modo. La commissione sottolineò che
Cadorna non aveva ponderato adeguatamente gli effetti di quel
comunicato e sottovalutato altri fattori fondamentali, di carattere
specificatamente militare, a lui additabili. Ben diversa è la
questione che riguarda Badoglio che non venne nominato nella
relazione finale. Tuttavia la commissione nelle tre bozze precedenti
esponeva duri giudizi che riguardavano il non aver predisposto una
contromanovra in caso di avanzata nemica dalla parte destra del
fiume; il non aver preservato adeguatamente il collegamento con il IV
corpo d'armata; il non aver controllato con forze sufficienti la
linea del Monte Plezia Foni Isonzo; l’aver dato comunicazione
tardiva dell'irruzione nemica compromettendo l'esito del
combattimento sul fronte del IV corpo d'armata e l’aver dato
notizia, senza controllare, della caduta del Globocak la sera del 24
Ottobre. Si tratta di accuse note, inconfutabili e riguardo alla loro
omissione nella relazione finale, non avendo altre prove, si può
solo avvalorare la diffusa tesi sia stato difeso da Diaz e Orlando
perchè persona utile per il proseguimento del conflitto. Anche il
generale Luigi Bongiovanni venne criticato poiché, al contrario di
Badoglio, affermò che nella notte tra il 25 e il 26 ottobre il Monte
Matajur era sotto il controllo della brigata Salerno quando invece
già alle 06:30 del 25 ottobre era stato catturato dai tedeschi. Per
quanto riguarda il generale Porro nella relazione? si riscontrava più
volte la sua assenza al momento delle decisioni più importanti, per
quanto Cadorna stesso giurò di non averlo mai isolato, lasciandogli
incarichi di grande rilievo che però escludevano responsabilità
dirette sulle operazioni militari. Appare quindi contraddittoria la
testimonianza del capo di Stato maggiore, ma avvalorata dal ministro
Giardino, che sottolineava l'importanza di un'unica persona al
comando. Il generale Porro, infatti, era stato messo in quella
posizione dal ministro Zuppelli, secondo Tassoni, perché Salandra
sperava in qualche modo di poter arginare l'impulsività di Cadorna
con un uomo un po’ più moderato. Per quanto alcuni lo
considerassero una persona poco adatta per la sua mansione, con
opinioni pessimiste e troppo protettivo rispetto alla propaganda,
considerata disfattista dei religiosi, conferme sulle sue capacità
vennero dal generale Piccione che ebbe modo di visionare la
professionalità del suo lavoro. Egli sostenne che una delle cause
del suo isolamento furono da attribuire all’arrivismo di
Bencivenga, un uomo ambizioso e desideroso di acquisire consenso
anche a discapito di Porro. Ambizione che si rivelò pericolosa
perché venne accusato, da Porro stesso, sia di essere il vero autore
di molti piani strategici al Comando, sia di aver cercato di
agevolare l’ascesa di Capello. Gli venne inflitta una pena di 3
mesi in fortezza che sarà da Cadorna ridotta a 15 giorni.
Per
la Chiesa, la guerra fu un’opportunità per riaffermare i valori
cattolici nella popolazione per quanto risultasse piuttosto scomodo
avere come nemico principale la cattolicissima Austria. Questo
riavvicinamento agli italiani fu possibile soprattutto nelle piccole
realtà locali dove i Successivamente, su consiglio di Alessandro
Casati, Gallarati Scotti e padre Semeria lo promosse comandante
d’armata, riavvicinandolo al fronte più attivo. A complicare la
situazione fu la precaria condizione di salute di Capello, che lo
costrinse a cure mirate lontane dal fronte, e il suo essere
refrattario ad alleggerire il fronte della Bainsizza, come avrebbe
voluto Cadorna. Molti detrattori insinuarono che la malattia fosse in
realtà solo una scusa per allontanarsi dal fronte anche se i molti
medici che lo visitarono confermarono la sua reale sofferenza.
Capello raccontò nella sua deposizione di svenimenti, di una forte
depressione e il 23 ottobre venne colto da vomito, sangue nelle urine
e crampi. Per il professor Ceconi, egli soffrì di nefrite di guerra
ed espresse dubbi in merito alle sue capacità di comando
(conseguenza che gli altri medici non rilevarono). Anche il generale
Gabba vide Capello a Udine e Cividale e confermò che non stava bene,
che era dimagrito e molto irrequieto. La commissione indagò anche
quest’aspetto e nell’ultima bozza della relazione, ma non nella
relazione finale, evidenziò il fatto che anche altri generali, come
Villani, pur essendo in uno stato precario di salute, si erano
comportati con maggior spirito patriottico e di abnegazione, sebbene
a Capello non fosse possibile fare recriminazioni in merito dal punto
di vista del regolamento. Comunque si ritenne che il suo precario
stato di salute non aveva avuto effetto sulle truppe e, conseguenze
della disfatta, erano da ricercare in altre manchevolezze del
generale o dei suoi sottoposti. Anche il comandante del IV corpo
della seconda armata, Alberto Cavaciocchi venne accusato in merito
alla gestione delle truppe e per l’errata pianificazione
strategica. Il 21 ottobre due disertori austriaci vennero condotti al
cospetto di Cavaciocchi dove consegnarono i piani per l’offensiva
del 24 con anche alcuni disegni in litografia delle posizioni
italiane. A questo evento poté assistere il generale Tassoni, che
testimoniò a favore del collega evidenziando che il Comando era
stato informato sulla questione. Tuttavia, non sembra che la
questione fosse stata presa in seria considerazione dai vertici che
inviarono solamente 7 battaglioni alpini, insufficienti in caso di
attacco del nemico. Tassoni faticò invece a difendere Cavaciocchi
dall’altra accusa, riguardante la scarsa attenzione al morale delle
truppe, la cui disciplina era gestita con piena indipendenza dal
colonnello Boccacci su concessione del generale stesso. Quest’ultimo
era considerato un ufficiale di valore, ma esercitò la disciplina
con eccessivo rigore creando un clima insopportabile per i soldati.
Capello raccontò che la rotta era avvenuta anche per colpa di
Boccacci con soldati e ufficiali che erano disposti anche alla resa
pur di allontanarsi dalle continue vessazioni loro imposte. Pochi
furono gli ufficiali che intervennero in difesa di Boccacci, tra
questi il generale Gandolfo che lo reputò un collaboratore corretto
e affidabile ritenendo le disposizioni del colonello, per quanto
drastiche, necessarie allo stato di guerra. Cadorna fu poi accusato
di aver esageratamente utilizzato e suggerito lo strumento degli 27
esoneri. Era ovviamente accettata l’idea che il Comandante in capo
potesse in qualunquemomento allontanare quelle figure che, per
precise responsabilità, non si erano dimostrate all’altezza del
compito loro assegnato, ma divenne presto evidente che vi fu un abuso
di questo diritto. A trarre vantaggio da questo sistema erano i
giovani ufficiali, in particolare quelli vicini al Comando supremo,
che però di rado si dimostrarono all’altezza del compito assegnato
a causa della scarsa esperienza maturata sul campo. Anche coloro che
inizialmente consideravano utile questo sistema, rividero presto le
proprie posizioni vedendo il clima di terrore e le conseguenze che
esso portava. Per alcuni comandanti le proposte di esonero erano
legate a qualche insuccesso sul campo, scaricando così la colpa sul
sottoposto coinvolto nell’operazione. L’effetto immediato fu che
molti comandanti per evitare di essere a loro volta silurati, termine
molto utilizzato che indicava l’essere rimossi da una carica o
allontanati, obbligarono i loro soldati a combattere ad oltranza
anche in battaglie strategicamente irrilevanti, provocando un inutile
spreco di vite. Cadorna affermò di aver esonerato personalmente solo
una decina di generali mentre tutti gli altri esoneri erano stati
proposti dai diretti superiori e sottolineò che anche in altri
paesi, come in Francia, gli esonerati erano stati in numero
addirittura maggiore. Certo, ammise Porro, il numero in Italia fu
certamente elevato con 170 generali e 540 ufficiali superiori
sottoposti a questa misura, ma disse anche che Cadorna tentò di
fermare gli abusi valutando con attenzione le richieste e inviando
una circolare che invitava i comandanti a ponderare bene le varie
istanze. Tra gli esoneri più irragionevoli si ricorda quello del
generale Secco, allontanato proprio dal Capo di stato maggiore perché
una parte consistente della truppa spalava la neve invece di
combattere; oppure il caso del generale Schenardi, che venne
esonerato dal generale Laderchi da un comando che non poté
esercitare perché la ventinovesima divisione a lui destinata si
stava ancora ricostituendo. Molti silurati però non accettarono
passivamente i provvedimenti, chiesero spiegazioni ed eventualmente
il reintegro, richieste che il generale Diaz, sostituto di Cadorna,
tenne in seria considerazione. Con l’istituzione di una Commissione
consultiva di revisione degli esoneri, che lavorò dal dicembre 1917
fino al febbraio del 1919, si intendeva quindi indagare
approfonditamente tutte le varie situazioni. Questa commissione fu
presieduta inizialmente dal generale Caneva, poi dal senatore
Francesco Mazza e vennero prese in esame circa 1000 richieste di
riabilitazione. Tuttavia, fu necessario tener conto delle esigenze
della guerra, evitando di esacerbare i rapporti tra gli integrati e
coloro che nel frattempo avevano fatto carriera o comunque evitare di
minare la fiducia della truppa per gli ufficiali superiori. Accanto
agli esoneri furono molti anche gli avanzamenti e secondo l’articolo
12 della legge sull’avanzamento, richiamato più volte da Cadorna,
era il merito che avrebbe dovuto far ascendere gli ufficiali più
meritevoli con garanzie scritte dai relativi superiori. Inoltre, come
ricordò alla commissione il generale Squillace, l’ultimo decreto
emanato prevedeva la presenza obbligatoria di un comprovato atto di
valore.
Invece,
per tutto il periodo antecedente ai fatti di Caporetto, si favorirono
avanzamenti soggettivi, spesso a favore di ufficiali che non avevano
dimostrato alcuna particolare capacità e che continuarono, talvolta,
a svolgere le stesse precedenti mansioni. Le varie motivazioni
addotte per giustificare l’avanzamento erano inverosimili e
descrivevano anche semplici ricognizioni in modo esagerato, generando
malessere e disistima in soldati che affrontavano quotidianamente,
senza ricevere encomi, gli orrori della vita in trincea. Anche il
generale Giardino riconobbe uno squilibrio tra il numero di
promozioni concesse agli ufficiali dello Stato maggiore, spesso
neanche appartenenti alla fanteria, rispetto agli ufficiali
inferiori. Molto dure furono anche le dichiarazioni di Badoglio, che
mal digerì le due promozioni conferite al generale Bencivenga che
non aveva, a suo dire, esperienza diretta sul campo. Sulla seconda
armata convergevano poi molte testimonianze, per esempio di Albricci,
Cadorna e del tenente generale Zoppi, che evidenziavano un’esagerato
ricorso a questa misura. Una possibile soluzione la suggerì il
generale Di Giorgio, sottolineando la possibilità di attribuire solo
gradi provvisori e rimandando così alla fine del conflitto
avanzamenti e gestione delle carriere. In questo modo, si sarebbe
evitato di alimentare l’arrivismo di molti ufficiali e caotiche
sovrapposizioni di grado. Problematica che venne in parte risolta con
la revisione delle carriere dopo la disfatta del 24 ottobre e che si
accompagnò a molti altri cambiamenti compreso quello della
propaganda. La sola repressione non era sufficiente per governare i
soldati e diverse figure come Gioacchino Volpe, Giuseppe Lombardo
Radice, Gaetano Salvemini e militanti della cultura e nell’esercito
si adoperarono per un dare contributo essenziale. Nessuno aveva
realmente a cuore la condizione morale e psicologica del soldato che
spesso poteva solo affidarsi al sostegno del cappellano e di qualche
conferenziere, che spendeva parole in cose intangibili come l’amore
per la patria. Dopo l’evento di Caporetto, ci fu una maggiore
attenzione alla psicologia delle truppe e la propaganda venne
rivoluzionata. Il linguaggio utilizzato fece leva sui bisogni primari
dei soldati facendo attenzione a capire maggiormente le loro
difficoltà e comunicando loro messaggi semplici e concreti. La
famiglia, lo svago, la spensieratezza, il riposo si concretizzarono
in maggiori sussidi, licenze più frequenti, comunicazioni con
familiari e reperimento di doni, miglioramento del rancio ecc.. Il
generale Cappello stesso si prodigò per garantire una maggiore
attenzione al problema dell’equilibrio psicologico dei soldati,
senza rinunciare alla coercizione, ma i risultati furono piuttosto
scarsi. L’ufficiale Grazioli e il generale Sachero sottolinearono
l’inefficacia dei sistemi propagandistici sostenuti da Capello e
anche la Commissione preferì sottolineare maggiormente gli
atteggiamenti coercitivi del generale piuttosto che le sue doti
oratorie e organizzative a riguardo:
Il
Generale Capello ama dire di sé che è uno psicologo; se realmente
lo fosse stato, avrebbe saputo temperare il suo carattere per meglio
influire sullo spirito delle truppe. Più che uno psicologo perciò
egli appare un artista, al cui servizio sta la parola talvolta
insinuante, tralaltra vibrante di forza, ma fluente, facile ed
efficace sempre, seppure in qualche momento sappia di recita meglio
che di orazione.
Tratto
da Processo a Caporetto di Luca Falsini
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