Processo a Caporetto

Con la Prima guerra mondiale si assistette ad un conflitto che oltre a coinvolgere molti paesi lontani dal contesto europeo, sconvolse in modo significativo la quotidianità dei civili obbligandoli ad adattarsi velocemente ad una realtà molto diversa da quella a cui erano abituati. L'economia stessa era subordinata alle esigenze della guerra e la mobilitazione di masse di uomini, le restrizioni alimentari, i bombardamenti aerei, la militarizzazione delle fabbriche ebbero effetti diretti anche sulla vita dei civili che doveva essere, dalle classi dirigenti, il più possibile controllata. Per governare efficacemente il dissenso interno fu necessario elaborare politiche eccezionali, che concessero pieni poteri al governo e che portarono a importanti limitazioni delle libertà individuali e dei diritti fondamentali dei cittadini. Il Parlamento ne uscì fortemente ridimensionato e in un contesto come l'Italia, dove le forze socialiste e cattoliche godevano di una buona rappresentanza popolare, era presente ancora solo un modesto senso di appartenenza nazionale inducendo quindi le autorità militari e civili a preferire programmi e azioni politiche decisamente autoritarie. Le misure repressive furono in parte mitigate con provvedimenti di natura sociale, tra cui l'iscrizione obbligatoria alla cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e la vecchiaia ed erogazioni di sussidi per la disoccupazione. Il potere militare assunse, in diversi settori, il ruolo dello Stato sia in quei territori interessati dai combattimenti o d’importanza strategica (attraverso atti giuridici che non necessitavano di alcuna promulgazione parlamentare) sia per gestire e controllare la produzione industriale gestita dall'Istituto per la mobilitazione industriale. Le condizioni lavorative nelle fabbriche peggiorarono notevolmente, per garantire una produzione adeguata alle necessità che la guerra imponeva e per assicurare questo obiettivo, gli operai furono militarizzati e costretti a turni sfiancanti. Con la ferrea disciplina, applicata anche a donne e a minori, si accompagnava una forte sorveglianza che mirava a individuare all'interno dei centri di produzione, e non solo, individui sovversivi come pacifisti, socialisti, anarchici ecc.. considerati nemici interni allo Stato tanto quanto i soldati al fronte. Il peggioramento delle condizioni di vita portò, già a partire dal 1916, un aumento delle proteste popolari ma dopo la grande disfatta di Caporetto, le politiche repressive aumentarono considerevolmente non solo per garantire stabilità ma anche per impedire che si arrivasse alla creazione di un governo che potesse includere i socialisti, che infatti subirono una dura campagna di persecuzione. La Regia commissione d'inchiesta sul ripiegamento dall’Isonzo al Piave che iniziò il proprio lavoro il 12 gennaio 1918 non fu certo agevolata da tutte queste tensioni interne. La commissione, voluta da Orlando, era presieduta dal generale dell'esercito Carlo Caneva e formata da tre parlamentari interventisti e tre militari.
Come segretario venne nominato il colonnello Zugaro, affiancato dal maggiore Marras. Questo lungo e complesso lavoro, durato 17 mesi, oltre a produrre una quantità enorme di documentazione dopo la testimonianza di oltre 1000 testimoni tra militari, giornalisti, e politici in 241 sedute, portò anche diversi scontri sulla stampa e in Parlamento. Dopo soli tre mesi dall'inizio dei lavori, il ministro della guerra Zupelli richiese aggiornamenti in merito alle prime responsabilità emerse per i comandanti coinvolti sottolineando che si sarebbe accontentato delle ipotesi di colpa ricadenti su pochi generali, tra cui Cadorna e Capello. Nelle intenzioni del ministro c’era, forse, la volontà di non coinvolgere prematuramente troppe figure, ormai chiave, dello stato maggiore (come Badoglio) con la guerra ancora in corso. La risposta della commissione si rivelò contenuta e piuttosto generica; prese in considerazione solo i giorni dal 24 al 26 ottobre evitando di approfondire troppo questioni più complesse come i problemi durante la ritirata, il morale delle truppe ecc.. Si produsse quindi una prima e parzialissima bozza di conclusioni, che rimarrà piuttosto fedele alla relazione ufficiale finale se non per il caso particolare di Badoglio. Innanzitutto, le accuse furono rivolte al Comando supremo per l’inadeguatezza delle linee difensive sul Tagliamento, per una sbagliata utilizzazione degli elementi materiali e morali e per non aver valorizzato la figura del sottocapo di Stato maggiore, relegato spesso a mansioni secondarie e scavalcato dalla segreteria personale di Cadorna. Poi il comandante della II armata, Luigi Capello, venne accusato di aver avvisato tardivamente il Comando della minaccia proveniente dalla propria sinistra, dello stato inefficiente delle truppe e dell’inaffidabilità di alcuni collegamenti. La commissione gli riconobbe però come attenuante il precario stato di salute. Il comandante del XXVII corpo d’armata, Pietro Badoglio, venne accusato di non aver impiegato efficacemente la brigata Napoli inviatagli dal Comando col fine di rafforzare la sua ala sinistra. Questo errore, secondo la commissione, aggravò la posizione del IV corpo d’armata comandata da Alberto Cavaciocchi che però si dimostrò altrettanto responsabile a causa del discutibile impiego delle riserve, nella poca accuratezza nel rappresentare le condizioni delle truppe ai superiori e per le insufficienti disposizioni per la ritirata. Infine, per il comandante del VII corpo d’armata Luigi Bongiovanni, le accuse furono più tenui e si sottolineò il suo scarso intuito e un’azione sterile di comando. Si constatò quindi che gli ufficiali citati potevano essere ritenuti indiziati di gravi responsabilità che causarono l’insuccesso, ma la commissione si sollevò dalla responsabilità di agire rimandando eventuali provvedimenti alla fine dell’inchiesta. Le polemiche e i toni che sono riscontrati all'interno delle varie bozze rispecchiano inoltre le difficili e spesso confuse relazioni tra il comando supremo e il governo. Questo fu quindi uno dei fattori di cui la commissione tenne conto, poiché contribuì a creare un clima adatto per la disfatta. Ci furono, infatti, molti contrasti tra Cadorna e i diversi membri del governo tra il 1915 e il 1917. In particolare, Cadorna non volevaammettere alcuna ingerenza su questioni essenziali come la direzione politica della guerra, la gestione degli uomini e l'andamento complessivo del conflitto. Sia Salandra che Boselli reputavano Cadorna una persona decisamente scomoda, ma decisero di lasciarlo al suo posto sia per la difficoltà di trovare un sostituto. Decisamente critico fu anche il generale Tassoni che lamentò l'esagerato potere concesso a Cadorna, che definì guerrafondaio e interessato solo a portare l'Italia in guerra. C'erano anche degli evidenti limiti caratteriali che lo rendevano inadatto gestire un esercito in una guerra di tali proporzioni. L'onorevole Riccio, ministro dell’agricoltura, lo definì inutilmente puntiglioso, sempre alla ricerca di un alibi e capace solo di creare un ambiente poco sereno attorno a sé. Anche Bissolati, uno dei fondatori del partito socialista italiano, ebbe la stessa impressione leggendo le lettere piene di invettive contro il disfattismo che il generale gli inviava. Nel novembre del 1917 Cadorna venne esonerato dal comando e gli venne affidato il compito di partecipare al Consiglio supremo interalleato. La commissione constatò che la posizione di Cadorna era già stata indebolita in passato con la disfatta nel 1915 del Trentino, che comportò forti decurtazioni territoriali e metteva a bilancio più di 150.000 perdite tra morti, feriti e prigionieri. Anche quella offensiva nemica in Trentino poteva essere prevista perché molte erano le informazioni giunte dagli Uffici informazione ma il generale non la ritenne una minaccia reale. Agli occhi del comandante supremo invece il governo era colpevole di agire in modo poco risoluto contro il dilagare del disfattismo e nella deposizione del 15 maggio nel 1918 Cadorna ricordò che si era raccomandato con Salandra su questo problema, sottolineando l'impossibilità di fare la guerra con alle spalle un paese irrequieto. In merito a questo, i governi Boselli e Orlando potevano vantare l'emanazione del decreto legislativo 1561, decreto Sacchi, che proibiva scioperi, agevolava la censura e inaspriva le strategie di repressione. Anche i rapporti coi ministri della guerra susseguitisi tra il 1915 e il 1917 furono complessi, eccetto che con il ministro Giardino, sostituto di Morrone, con il quale il rapporto fu ottimo vista la comunanza di vedute. Egli difese fermamente Cadorna di fronte alla commissione riguardo agli eventi di Caporetto e trovava personalmente sconcertante che un generale di tale statura venisse messo in discussione. Questione delicatissima, che venne affrontata dalla commissione, è l'accusa di tradimento. Alcune persone lo reputarono la causa principale della disfatta a Caporetto come il generale Di Giorgio, il quale ritenne che la sconfitta non avvenne a causa delle abilità militari austro tedesche ma per la capacità del nemico di favorire e diffondere il disfattismo tra le truppe italiane. Secondo Di Giorgio, questa sfiducia in grado di deprimere sensibilmente lo spirito combattivo delle truppe fu additabile anche ai socialisti e a tutti quei cittadini che dimostrarono con atti e discorsi il loro pessimismo. Anche il generale Tettoni fu dello stesso parere e reputò insufficiente spiegare queste defezioni semplicemente tramite la difficoltà della vita di trincea.
Inoltre, in quell'ottobre e novembre del 1917, il nemico catturò circa 300.000 prigionieri, per un totale a fine della guerra di circa 600.000 soldati italiani catturati. Per molti di questi soldati, la prigionia fu terribile anche perché l'Italia non condivideva l'idea, degli altri paesi europei, di sostenere economicamente i propri prigionieri. Infatti, le forze dell'Intesa nel novembre del 1914 si adoperarono per un blocco economico per danneggiare l'Austria e la Germania, che dichiararono di non poter garantire ai prigionieri adeguata assistenza. La decisione di abbandonare alla loro sorte i prigionieri fu principalmente di Cadorna e Sonnino, i quali pensavano che in questo modo i soldati non avrebbero potuto preferire la prigionia alla dura e rischiosa vita in trincea. Quelli che riuscirono a tornare, a guerra finita, trovarono un paese che li temeva e li considerava dei traditori. Molti non dimenticarono di essere stati abbandonati e aderirono a posizioni politiche che chiedevano con forza il superamento del liberalismo. Ma in realtà il rifiuto per la guerra e la vita in trincea era dettato da aspirazioni personali come la propria famiglia o il ritorno ad una vita serena e non certo dalla volontà dei soldati di tradire la causa italiana. Del tradimento però furono certi gli estensori del bollettino del 28 ottobre 1917. In esso si parlava esplicitamente di: “mancata resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico” e Cadorna si assunse in pieno la responsabilità e le conseguenze che esso produsse. Egli ritenne doveroso sottolineare che il tradimento era solo di una parte dell'esercito e si difese dalle accuse di chi sostenne che era solo un alibi per sottrarsi alle conseguenze della disfatta. Il bollettino venne infatti letto in presenza del ministro Giardino e Dallolio i quali non mossero alcuna obiezione alla spedizione. Ma fu veramente Cadorna a scrivere il bollettino? Il generale Porro sostenne alla Commissione di essere l’autore del comunicato alla presenza di alti ufficiali e dei ministri Giardino e Dallolio, e questo fu confermato anche da padre Semeria, anch’egli presente alla riunione. Il generale Piccione ipotizzò invece che il nulla osta fosse arrivato per via telefonica dal capo di Stato maggiore che in quel momento si trovava non a Treviso, ma a Padova. Piccione dichiarò di aver incontrato il 27 ottobre Badoglio, il quale propose di indicare quali fossero le Brigate incriminate di aver disertato, cioè, la Roma e Le Puglie. Diversa è poi la dichiarazione del ministro Giardino, il quale smentisce parte del racconto di Cadorna e di Porro, dicendo di aver letto il comunicato quando ormai era già partito, evitando di esprimere la propria opinione per non turbare ulteriormente il capo di Stato maggiore. Molti testimoni giudicarono comunque il comunicato come precipitoso, ingiusto e in grado di portare solo disonore alla nazione. Salandra espresse piena riprovazione e disse che, anche se i fatti si fossero svolti esattamente comeesposti dal bollettino, sarebbe stato comunque inopportuno descriverli in quel modo. La commissione sottolineò che Cadorna non aveva ponderato adeguatamente gli effetti di quel comunicato e sottovalutato altri fattori fondamentali, di carattere specificatamente militare, a lui additabili. Ben diversa è la questione che riguarda Badoglio che non venne nominato nella relazione finale. Tuttavia la commissione nelle tre bozze precedenti esponeva duri giudizi che riguardavano il non aver predisposto una contromanovra in caso di avanzata nemica dalla parte destra del fiume; il non aver preservato adeguatamente il collegamento con il IV corpo d'armata; il non aver controllato con forze sufficienti la linea del Monte Plezia Foni Isonzo; l’aver dato comunicazione tardiva dell'irruzione nemica compromettendo l'esito del combattimento sul fronte del IV corpo d'armata e l’aver dato notizia, senza controllare, della caduta del Globocak la sera del 24 Ottobre. Si tratta di accuse note, inconfutabili e riguardo alla loro omissione nella relazione finale, non avendo altre prove, si può solo avvalorare la diffusa tesi sia stato difeso da Diaz e Orlando perchè persona utile per il proseguimento del conflitto. Anche il generale Luigi Bongiovanni venne criticato poiché, al contrario di Badoglio, affermò che nella notte tra il 25 e il 26 ottobre il Monte Matajur era sotto il controllo della brigata Salerno quando invece già alle 06:30 del 25 ottobre era stato catturato dai tedeschi. Per quanto riguarda il generale Porro nella relazione? si riscontrava più volte la sua assenza al momento delle decisioni più importanti, per quanto Cadorna stesso giurò di non averlo mai isolato, lasciandogli incarichi di grande rilievo che però escludevano responsabilità dirette sulle operazioni militari. Appare quindi contraddittoria la testimonianza del capo di Stato maggiore, ma avvalorata dal ministro Giardino, che sottolineava l'importanza di un'unica persona al comando. Il generale Porro, infatti, era stato messo in quella posizione dal ministro Zuppelli, secondo Tassoni, perché Salandra sperava in qualche modo di poter arginare l'impulsività di Cadorna con un uomo un po’ più moderato. Per quanto alcuni lo considerassero una persona poco adatta per la sua mansione, con opinioni pessimiste e troppo protettivo rispetto alla propaganda, considerata disfattista dei religiosi, conferme sulle sue capacità vennero dal generale Piccione che ebbe modo di visionare la professionalità del suo lavoro. Egli sostenne che una delle cause del suo isolamento furono da attribuire all’arrivismo di Bencivenga, un uomo ambizioso e desideroso di acquisire consenso anche a discapito di Porro. Ambizione che si rivelò pericolosa perché venne accusato, da Porro stesso, sia di essere il vero autore di molti piani strategici al Comando, sia di aver cercato di agevolare l’ascesa di Capello. Gli venne inflitta una pena di 3 mesi in fortezza che sarà da Cadorna ridotta a 15 giorni.
Per la Chiesa, la guerra fu un’opportunità per riaffermare i valori cattolici nella popolazione per quanto risultasse piuttosto scomodo avere come nemico principale la cattolicissima Austria. Questo riavvicinamento agli italiani fu possibile soprattutto nelle piccole realtà locali dove i Successivamente, su consiglio di Alessandro Casati, Gallarati Scotti e padre Semeria lo promosse comandante d’armata, riavvicinandolo al fronte più attivo. A complicare la situazione fu la precaria condizione di salute di Capello, che lo costrinse a cure mirate lontane dal fronte, e il suo essere refrattario ad alleggerire il fronte della Bainsizza, come avrebbe voluto Cadorna. Molti detrattori insinuarono che la malattia fosse in realtà solo una scusa per allontanarsi dal fronte anche se i molti medici che lo visitarono confermarono la sua reale sofferenza. Capello raccontò nella sua deposizione di svenimenti, di una forte depressione e il 23 ottobre venne colto da vomito, sangue nelle urine e crampi. Per il professor Ceconi, egli soffrì di nefrite di guerra ed espresse dubbi in merito alle sue capacità di comando (conseguenza che gli altri medici non rilevarono). Anche il generale Gabba vide Capello a Udine e Cividale e confermò che non stava bene, che era dimagrito e molto irrequieto. La commissione indagò anche quest’aspetto e nell’ultima bozza della relazione, ma non nella relazione finale, evidenziò il fatto che anche altri generali, come Villani, pur essendo in uno stato precario di salute, si erano comportati con maggior spirito patriottico e di abnegazione, sebbene a Capello non fosse possibile fare recriminazioni in merito dal punto di vista del regolamento. Comunque si ritenne che il suo precario stato di salute non aveva avuto effetto sulle truppe e, conseguenze della disfatta, erano da ricercare in altre manchevolezze del generale o dei suoi sottoposti. Anche il comandante del IV corpo della seconda armata, Alberto Cavaciocchi venne accusato in merito alla gestione delle truppe e per l’errata pianificazione strategica. Il 21 ottobre due disertori austriaci vennero condotti al cospetto di Cavaciocchi dove consegnarono i piani per l’offensiva del 24 con anche alcuni disegni in litografia delle posizioni italiane. A questo evento poté assistere il generale Tassoni, che testimoniò a favore del collega evidenziando che il Comando era stato informato sulla questione. Tuttavia, non sembra che la questione fosse stata presa in seria considerazione dai vertici che inviarono solamente 7 battaglioni alpini, insufficienti in caso di attacco del nemico. Tassoni faticò invece a difendere Cavaciocchi dall’altra accusa, riguardante la scarsa attenzione al morale delle truppe, la cui disciplina era gestita con piena indipendenza dal colonnello Boccacci su concessione del generale stesso. Quest’ultimo era considerato un ufficiale di valore, ma esercitò la disciplina con eccessivo rigore creando un clima insopportabile per i soldati. Capello raccontò che la rotta era avvenuta anche per colpa di Boccacci con soldati e ufficiali che erano disposti anche alla resa pur di allontanarsi dalle continue vessazioni loro imposte. Pochi furono gli ufficiali che intervennero in difesa di Boccacci, tra questi il generale Gandolfo che lo reputò un collaboratore corretto e affidabile ritenendo le disposizioni del colonello, per quanto drastiche, necessarie allo stato di guerra. Cadorna fu poi accusato di aver esageratamente utilizzato e suggerito lo strumento degli 27 esoneri. Era ovviamente accettata l’idea che il Comandante in capo potesse in qualunquemomento allontanare quelle figure che, per precise responsabilità, non si erano dimostrate all’altezza del compito loro assegnato, ma divenne presto evidente che vi fu un abuso di questo diritto. A trarre vantaggio da questo sistema erano i giovani ufficiali, in particolare quelli vicini al Comando supremo, che però di rado si dimostrarono all’altezza del compito assegnato a causa della scarsa esperienza maturata sul campo. Anche coloro che inizialmente consideravano utile questo sistema, rividero presto le proprie posizioni vedendo il clima di terrore e le conseguenze che esso portava. Per alcuni comandanti le proposte di esonero erano legate a qualche insuccesso sul campo, scaricando così la colpa sul sottoposto coinvolto nell’operazione. L’effetto immediato fu che molti comandanti per evitare di essere a loro volta silurati, termine molto utilizzato che indicava l’essere rimossi da una carica o allontanati, obbligarono i loro soldati a combattere ad oltranza anche in battaglie strategicamente irrilevanti, provocando un inutile spreco di vite. Cadorna affermò di aver esonerato personalmente solo una decina di generali mentre tutti gli altri esoneri erano stati proposti dai diretti superiori e sottolineò che anche in altri paesi, come in Francia, gli esonerati erano stati in numero addirittura maggiore. Certo, ammise Porro, il numero in Italia fu certamente elevato con 170 generali e 540 ufficiali superiori sottoposti a questa misura, ma disse anche che Cadorna tentò di fermare gli abusi valutando con attenzione le richieste e inviando una circolare che invitava i comandanti a ponderare bene le varie istanze. Tra gli esoneri più irragionevoli si ricorda quello del generale Secco, allontanato proprio dal Capo di stato maggiore perché una parte consistente della truppa spalava la neve invece di combattere; oppure il caso del generale Schenardi, che venne esonerato dal generale Laderchi da un comando che non poté esercitare perché la ventinovesima divisione a lui destinata si stava ancora ricostituendo. Molti silurati però non accettarono passivamente i provvedimenti, chiesero spiegazioni ed eventualmente il reintegro, richieste che il generale Diaz, sostituto di Cadorna, tenne in seria considerazione. Con l’istituzione di una Commissione consultiva di revisione degli esoneri, che lavorò dal dicembre 1917 fino al febbraio del 1919, si intendeva quindi indagare approfonditamente tutte le varie situazioni. Questa commissione fu presieduta inizialmente dal generale Caneva, poi dal senatore Francesco Mazza e vennero prese in esame circa 1000 richieste di riabilitazione. Tuttavia, fu necessario tener conto delle esigenze della guerra, evitando di esacerbare i rapporti tra gli integrati e coloro che nel frattempo avevano fatto carriera o comunque evitare di minare la fiducia della truppa per gli ufficiali superiori. Accanto agli esoneri furono molti anche gli avanzamenti e secondo l’articolo 12 della legge sull’avanzamento, richiamato più volte da Cadorna, era il merito che avrebbe dovuto far ascendere gli ufficiali più meritevoli con garanzie scritte dai relativi superiori. Inoltre, come ricordò alla commissione il generale Squillace, l’ultimo decreto emanato prevedeva la presenza obbligatoria di un comprovato atto di valore.
Invece, per tutto il periodo antecedente ai fatti di Caporetto, si favorirono avanzamenti soggettivi, spesso a favore di ufficiali che non avevano dimostrato alcuna particolare capacità e che continuarono, talvolta, a svolgere le stesse precedenti mansioni. Le varie motivazioni addotte per giustificare l’avanzamento erano inverosimili e descrivevano anche semplici ricognizioni in modo esagerato, generando malessere e disistima in soldati che affrontavano quotidianamente, senza ricevere encomi, gli orrori della vita in trincea. Anche il generale Giardino riconobbe uno squilibrio tra il numero di promozioni concesse agli ufficiali dello Stato maggiore, spesso neanche appartenenti alla fanteria, rispetto agli ufficiali inferiori. Molto dure furono anche le dichiarazioni di Badoglio, che mal digerì le due promozioni conferite al generale Bencivenga che non aveva, a suo dire, esperienza diretta sul campo. Sulla seconda armata convergevano poi molte testimonianze, per esempio di Albricci, Cadorna e del tenente generale Zoppi, che evidenziavano un’esagerato ricorso a questa misura. Una possibile soluzione la suggerì il generale Di Giorgio, sottolineando la possibilità di attribuire solo gradi provvisori e rimandando così alla fine del conflitto avanzamenti e gestione delle carriere. In questo modo, si sarebbe evitato di alimentare l’arrivismo di molti ufficiali e caotiche sovrapposizioni di grado. Problematica che venne in parte risolta con la revisione delle carriere dopo la disfatta del 24 ottobre e che si accompagnò a molti altri cambiamenti compreso quello della propaganda. La sola repressione non era sufficiente per governare i soldati e diverse figure come Gioacchino Volpe, Giuseppe Lombardo Radice, Gaetano Salvemini e militanti della cultura e nell’esercito si adoperarono per un dare contributo essenziale. Nessuno aveva realmente a cuore la condizione morale e psicologica del soldato che spesso poteva solo affidarsi al sostegno del cappellano e di qualche conferenziere, che spendeva parole in cose intangibili come l’amore per la patria. Dopo l’evento di Caporetto, ci fu una maggiore attenzione alla psicologia delle truppe e la propaganda venne rivoluzionata. Il linguaggio utilizzato fece leva sui bisogni primari dei soldati facendo attenzione a capire maggiormente le loro difficoltà e comunicando loro messaggi semplici e concreti. La famiglia, lo svago, la spensieratezza, il riposo si concretizzarono in maggiori sussidi, licenze più frequenti, comunicazioni con familiari e reperimento di doni, miglioramento del rancio ecc.. Il generale Cappello stesso si prodigò per garantire una maggiore attenzione al problema dell’equilibrio psicologico dei soldati, senza rinunciare alla coercizione, ma i risultati furono piuttosto scarsi. L’ufficiale Grazioli e il generale Sachero sottolinearono l’inefficacia dei sistemi propagandistici sostenuti da Capello e anche la Commissione preferì sottolineare maggiormente gli atteggiamenti coercitivi del generale piuttosto che le sue doti oratorie e organizzative a riguardo:
Il Generale Capello ama dire di sé che è uno psicologo; se realmente lo fosse stato, avrebbe saputo temperare il suo carattere per meglio influire sullo spirito delle truppe. Più che uno psicologo perciò egli appare un artista, al cui servizio sta la parola talvolta insinuante, tralaltra vibrante di forza, ma fluente, facile ed efficace sempre, seppure in qualche momento sappia di recita meglio che di orazione.
Tratto da Processo a Caporetto di Luca Falsini

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