La società romana dopo la conquista dell'Italia (RIASSUNTO)
Dallo
scrittore e agronomo romano Varrone apprendiamo che dopo la metà del
V sec. i Romani iniziarono la coltivazione di nuovi cereali, cioè
grano, farro, orzo e avena. Evidentemente già in quell'epoca essi
disponevano di un aratro composto. La pastorizia (ad eccezione che
nell'Italia meridionale) era poco sviluppata: il bestiame grosso
veniva impiegato generalmente come forza da traino. Le campagne dei
grandi proprietari terrieri venivano coltivate col lavoro dei servi e
degli schiavi, ma in quell'epoca il numero di questi ultimi nelle
singole proprietà era ancora limitato. Si era molto sviluppato anche
l'artigianato. La ricostruzione di Roma dopo l'invasione dei Galli
presume già di per sé lo sviluppo dell'attività edilizia. La città
perdette gradualmente le sue caratteristiche rustiche: si
cominciarono a lastricare le vie e ad abbellire le piazze con
monumenti; lo spiazzo del mercato venne cinto da porticati in pietra.
Alla fine del IV sec. aumentò il numero degli edifici pubblici e
particolarmente dei templi. L'architettura romana portò al completo
sviluppo il sistema della copertura a volta, appreso dagli Etruschi.
La coniazione delle monete dimostra che presso i Romani si erano
andati sviluppando il commercio e le relazioni monetarie. La moneta
romana (l'asse) fu dapprima di rame; ma dopo la vittoria su Pirro si
iniziò la coniazione delle monete d'argento (dracma, denaro) e dalla
fine del III sec. quella delle monete d'oro. La penetrazione dei
Romani nell'Italia meridionale incrementò gli scambi commerciali tra
Roma e le ricche città greche. Dal III sec. iniziò a svilupparsi a
Roma il capitale commerciale e usurario. La base dell'economia romana
era però ancora costituita dall'agricoltura. La sottomissione
dell'Italia meridionale contribuì all'espansione dell'agricoltura in
tutta la penisola, favorita dalla politica di colonizzazione adottata
dai Romani, che doveva servire non solo per risolvere la questione
agraria, cioè per porre rimedio alla miseria dei contadini privi di
terra, ma anche per rafforzare il potere di Roma nelle regioni più
distanti dalla capitale. Nelle colonie poste vicino
al mare o ai confini venivano assegnate ai colonizzatori delle
parcelle di terra relativamente piccole. Viceversa, in quelle più
spiccatamente agricole, nell'entroterra, i lotti assegnati erano più
vasti. Inoltre nel campo dell'economia agraria romana la proprietà
terriera statale venne sempre di più sostituita da quella privata
individuale. La sottrazione di terre appartenenti allo Stato da parte
di privati era avvenuta già nel passato, ma se allora si era
conservata l'apparenza dell'affitto da parte dello Stato, viceversa,
nel IV, e particolarmente nel III sec., una buona parte di queste
terre divenne proprietà stabile dei possessori. In tal modo i membri
delle famiglie patrizie e anche delle più ricche famiglie plebee
divennero proprietari di notevoli appezzamenti di terra. Questo
procedimento non solo favorì la concentrazione della proprietà
terriera, ma provocò anche una recrudescenza nella lotta fra grandi
e piccoli proprietari terrieri.
La
struttura sociale della popolazione
Dal
IV al III sec. il sistema della schiavitù prese sempre più piede
nella società romana. Il numero degli schiavi aumentò in seguito
alle guerre quasi continue. Già la conquista di Veio aveva fornito
ai Romani un gran numero di schiavi; e la loro quantità aumentò
vertiginosamente dopo le guerre sannitiche. La legge del 357 a.C.,
sull'imposta per la liberazione degli schiavi, sta a testimoniare
quanto fosse alto il livello di sviluppo dello schiavismo. La
condizione degli schiavi era estremamente penosa, poiché dal punto
di vista giuridico lo schiavo non era considerato come un essere
umano, ma come un oggetto da sfruttare, uno strumento da far
lavorare, con le buone o, molto più spesso, con le cattive. Il suo
proprietario aveva su di lui potere di vita e di morte. Tutti gli
schiavi erano assolutamente privi di ogni diritto ed erano
indistintamente esclusi dalla vita civile e politica. Tuttavia i
cittadini liberi non erano uguali tra loro. La classe sociale dei
grandi proprietari di terre e di schiavi nei secoli IV e III a.C. era
rappresentata a Roma da un nuovo, privilegiato gruppo di nobili, da
una nuova aristocrazia formatasi dalla fusione avvenuta fra i patrizi
e lo strato superiore dei plebei. Questi costituivano il ceto più
elevato (“ordo”) e i loro rappresentanti esercitavano le funzioni
delle più alte magistrature e formavano il senato. Padroni di
schiavi ve n'erano anche tra i piccoli e medi proprietari, i
contadini ricchi, i proprietari di botteghe artigianali e i mercanti,
anche se costoro non appartenevano al ceto privilegiato. La classe
dei liberi produttori si componeva essenzialmente della massa della
plebe cittadina e rurale, cioè dei contadini romani e degli
artigiani delle città. Formalmente, nel III sec. tutti i plebei
erano uguali ai nobili di fronte alla legge, ma in realtà essi non
avevano alcuna possibilità di prender parte all'amministrazione
dello Stato o di svolgere un qualsiasi ruolo importante nella vita
del Paese. Quindi si può dire che nella struttura della società
romana nel III sec. vi era una parte non esigua della popolazione
libera che aveva diritti limitati. A questa categoria appartenevano
anche i liberti, cioè gli schiavi liberati, i quali non avevano il
diritto di esser eletti alle magistrature e potevano votare soltanto
ai comizi tributi. Ai cittadini senza pienezza di diritti politici
appartenevano anche i cosiddetti “cittadini latini”, che pur
potevano esercitare liberamente le loro attività.
La
struttura dello Stato
Ufficialmente
la repubblica romana del III sec. a.C. era governata dai cittadini
romani che avevano tutti i pieni diritti politici. Il popolo
esercitava questi diritti nelle assemblee chiamate comizi. A Roma
esistevano tre tipi di comizi:
a)
curiati (riunioni di patrizi), che già dall'inizio della repubblica
avevano perduto ogni significato politico (rimase loro soltanto il
formale conferimento del potere supremo detto imperium ai magistrati
scelti e la decisione su alcuni problemi riguardanti i diritti
familiari);
b)
centuriati (riunione di patrizi e plebei secondo il censo e le
centurie), che fino alla fine della repubblica prendevano le
decisioni riguardanti la pace e la guerra ed eleggevano le più alte
cariche Stato;
c)
tributi (assemblee basate sul principio territoriale), i quali, dopo
la legge di Ortensio, si occupavano principalmente di legislazione
(questa era la più democratica delle assemblee popolari a Roma).
In
realtà i semplici membri dei comizi erano privati quasi totalmente
della facoltà di prendere delle iniziative politiche. Infatti
soltanto i magistrati avevano il diritto di convocare i comizi, di
presiederli e di presentare le proposte per le decisioni. In linea di
principio la discussione sui problemi non era ammessa e i
partecipanti procedevano alle votazioni o alle elezioni per centurie
o per tribù subito dopo la lettura della lista dei candidati o dopo
la lettura del progetto di legge. Molto più importante invece era il
senato, baluardo dell'aristocrazia romana e suprema istituzione
statale. Il numero dei suoi membri oscillava fra 300 e 600, ma verso
la fine della repubblica arrivò a circa 900. I senatori, designati
dai censori, erano scelti fra gli ex-magistrati, secondo un ordine
gerarchico: al primo posto i consoli, poi i pretori e così via. Il
diritto di convocare il senato spettava ai magistrati superiori:
consoli, dittatore, pretori, fino ai tribuni della plebe. Il potere
del senato era vastissimo: la conferma dei magistrati eletti,
l'amministrazione dei beni e delle finanze dello Stato, le decisioni
di pace e di guerra, la direzione della politica interna, la cura e
la supervisione dei riti religiosi, ecc. Nel senato si svolgeva una
discussione scrupolosa dei problemi e la votazione delle proposte. Il
potere esecutivo era detenuto dai magistrati. Il compimento di doveri
relativi alla carica di magistrato rappresentava un altissimo onore e
non soltanto veniva esercitato gratuitamente, ma comportava anche
delle notevoli spese personali. Il magistrato era inviolabile e fino
a quando esercitava il suo ufficio non poteva essere né destituito,
né tanto meno chiamato in giudizio. I magistrati romani assumevano i
loro poteri attraverso le elezioni e le magistrature erano
collegiali. Anche l'elezione comportava grandi spese per i candidati,
poiché prima delle elezioni, secondo le consuetudini, essi dovevano
offrire ai loro concittadini banchetti e trattenimenti, ecc. Un
qualsiasi cittadino romano poteva presentarsi candidato alle
elezioni; di fatto soltanto i più agiati rappresentanti della
nobiltà riuscivano a farsi eleggere. Le magistrature erano divise in
superiori (console, dittatore, pretore, censore, tribuno della plebe)
e inferiori (tutte le rimanenti). Inoltre venivano distinte in
ordinarie, cioè abituali e continue (console, tribuni della plebe,
censori, edili, questori), e straordinarie (il dittatore, il suo
aiutante, il comandante della cavalleria, i triumviri, i decemviri).
L'unica magistratura non collegiale era la dittatura; gli unici
magistrati eletti per un periodo maggiore di un anno erano i censori.
Una notevole influenza sulla vita politica di Roma veniva esercitata
anche dai collegi sacerdotali: pontefici, flamini, salii, fratelli
arvali ecc. I sacerdoti superiori erano eletti nei comizi, gli altri
invece nei relativi collegi, oppure erano scelti o nominati dai
pontefici. In sostanza lo Stato romano rappresentava una tipica
repubblica aristocratico-schiavistica, ove il potere dominante veniva
esercitato dalla nobiltà (attraverso il senato) e dalle varie
magistrature, mentre i comizi avevano un'importanza abbastanza
secondaria.
L'amministrazione
dell'Italia conquistata
Il
tratto più caratteristico dell'organizzazione amministrativa
dell'Italia conquistata dai Romani erano le differenze esistenti nei
rapporti tra la capitale e le varie popolazioni soggette. Anzitutto i
terreni conquistati dai Romani e requisiti ai nemici vinti e
successivamente assegnati per la coltivazione a cittadini romani non
sempre si trovavano su territori direttamente confinanti con gli
antichi possessi romani. Al contrario spesso si praticava il
trasferimento di cittadini romani su terre generalmente molto
distanti da Roma, sulle quali s'impiantavano le cosiddette “colonie”
dei cittadini romani. Di fronte alla legge questi cittadini erano
considerati cittadini romani e godevano dei pieni diritti. Perciò le
colonie non avevano un'amministrazione propria, ma erano amministrate
da funzionari romani, alla cui elezione dovevano partecipare tutti i
cittadini romani viventi nelle colonie stesse. Successivamente, a
causa dell'eccessiva distanza da Roma, nacque la necessità di
concedere un'autonomia amministrativa interna ad alcune colonie di
cittadini romani. In condizioni diverse si trovavano invece i
cosiddetti “municipi”. Erano queste le comunità già da tempo
ammesse a far parte dello Stato romano. Esse conservavano il diritto
all'amministrazione interna autonoma (propri magistrati, tribunali
autonomi ecc.); inoltre più tardi i cittadini di queste comunità
ebbero diritti uguali a quelli dei cittadini romani, compreso il
diritto di essere eletti consoli. Di questi diritti dei municipi
godevano la maggioranza delle comunità dei Latini, antichi alleati
di Roma, i quali erano stati anche annoverati fra le tribù romane.
Una categoria a parte era rappresentata dalle “comunità senza
diritto al voto”. Le libere popolazioni di queste comunità avevano
gli stessi diritti dei cittadini romani per quanto si riferisce alla
proprietà, ai matrimoni e così via, ma erano prive dei diritti
politici e non potevano partecipare alle assemblee popolari romane.
Nell'ambito della vita interna, queste comunità avevano il diritto
all'amministrazione autonoma, ma spesso erano soggette al controllo
dei magistrati romani. La parte maggiore delle comunità dipendenti
era rappresentata dagli “alleati” di Roma. Così venivano
chiamate le comunità che formalmente conservavano l'indipendenza
politica, ma erano legate a Roma da patti particolari che stabilivano
la loro posizione caso per caso. Certune, conformemente ai patti,
dovevano aiutare i Romani soltanto nel caso di attacco nemico; altre
comunità dovevano invece partecipare a tutte le guerre condotte dai
Romani (questa seconda forma di accordi appariva senza dubbio la più
frequente). Gli alleati non avevano il diritto di condurre una
politica estera autonoma. I loro obblighi consistevano nella
fornitura e nel mantenimento di fanti e di cavalieri nelle quantità
convenute; quando la città alleata era posta in vicinanza del mare
la fornitura si riferiva anche alle navi, le quali dovevano essere
mantenute a spese degli alleati. Le truppe di ogni singola comunità
formavano speciali reparti militari dipendenti dal comando romano, al
quale dovevano assoluta obbedienza. Di condizioni simili a quelle
degli “alleati” godevano anche le “colonie latine”, cioè le
colonie fondate da Roma in collaborazione con le città amiche latine
sulle terre conquistate dai Romani. Come gli alleati, anche queste
città avevano il diritto all'autonomia interna. Gli abitanti di
queste colonie latine in tempo di guerra prestavano servizio non
nelle legioni, ma in speciali reparti di alleati; però, nel caso di
trasferimento a Roma, essi ottenevano i pieni diritti dei cittadini
romani, e in ciò stava la differenza essenziale rispetto al
trattamento riservato agli alleati. Le comunità conquistate dai
Romani (o che si erano arrese senza condizioni) perdevano qualsiasi
autonomia ed erano amministrate dai funzionari di Roma. Le
popolazioni di queste comunità avevano diritti assai limitati.
Solitamente, nei casi in cui la comunità nemica di Roma veniva
distrutta, la terra appartenente alla popolazione locale era
incorporata nella proprietà dello Stato e gli abitanti ridotti in
schiavitù. In virtù di questa organizzazione (basata sulla formula
divide et impera) l'Italia non aveva alcuna omogeneità territoriale.
Ciononostante la situazione storica garantiva una sufficiente
solidità all'egemonia romana su tutto il territorio. La diversità
degli accordi di Roma con le singole comunità dipendenti diminuiva
il pericolo di formazione di un fronte unico contro la città.
Storia
Romana l'impero romano dalla Monarchia alla Repubblica. Università
degli Studi Cà Foscari di Venezia relatore prof. Francesca Rohr.
Partecipante come uditore
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