Memorie di guerra – Puntata 3
La
carretta serviva per qualche ammalato o ferito. Il corredo era
limitato a quanto indossato perché la nostra riserva, ai piedi del
monte, lì era stata abbandonata. Io, più fortunato, avevo anche una
mantella che lasciai sulla carretta ai più bisognosi.
I
ponti sul Tagliamento erano stati già fatti saltare, salvo quello di
Casarsa destinato comunque alla stessa sorte.
Io
e il capitano ci portammo avanti con le biciclette con la speranza di
poter fare qualche prelevamento e rifornimento per il resto della
batteria che sarebbe poi sopraggiunto.
A
Casarsa iniziò un bombardamento aereo nemico micidiale. Il ponte fu
colpito e la carretta incolonnata dietro altri mezzi rimase di là,
perduta. Molte bombe caddero anche sulla linea ferroviaria e sulla
stazione ove erano ammassate colonne di profughi.
I
superstiti della batteria ci raggiunsero, con altre batterie. Dopo
molti giorni, verso la fine di novembre, arrivammo a Rovigo in
condizioni pietose, dopo notti passate all’addiaccio o – meno
sfortunatamente – in qualche stalla o fienile con nessun oggetto di
corredo per cambio.
A
Rovigo fu possibile accamparci alla bell’e meglio, tanto era enorme
la massa di uomini. Il morale era questo: gli uomini erano stanchi,
depressi, sfiniti, angosciati dal pensiero di ritornare alla riscossa
quando le forze erano allo stremo.
Venimmo
in fretta di nuovo equipaggiati, inquadrati in formazione di batterie
e di gruppi (di reggimenti) e armati di fucili 92 e qualche
mitragliatrice. Queste nuove formazioni vennero denominate
“fucilieri” ovvero “bombardieri fucilieri”.
Io
ero nell’ambito del 2° Reggimento, 105° Gruppo.
Venne previsto
che queste formazioni di fucilieri avessero anche un reparto
“zappatori” composto da circa 80 uomini. Di questo reparto
zappatori interno al 105°gruppo venne dato il comando a me, col
grado di “aiutante di battaglia”.
Il
reparto era costituito da uomini mandati dalle batterie, quelli
presumibilmente meno desiderati nelle batterie. Il comando era, sulla
carta, dato ad un ufficiale che in pratica non aveva mai portato in
linea gli uomini perché comandato per altri servizi: ecco perché
dico che il comando del reparto (che rispondeva al comandante di
gruppo, maggiore Cardassi) di fatto restò al sottoscritto.
Era
un reparto di lavoro, quello degli zappatori, molto esposto ai
pericoli. Principalmente impiegato per stendere e aggiustare i
reticolati davanti alla prima linea, a pochi metri dal nemico.
Prima
della fine del dicembre 1917 eravamo al Piave (San Donà, Fossalta,
Cava Zuccherina) e più precisamente il giorno di Natale.
I turni,
in prima linea, duravano più di un mese.
Sul
Piave stemmo sei mesi con pochi giorni di riposo.
Per
il riposo si andava a Sambughè, dove vi era una piccola riserva ed
il tragitto lo si faceva a piedi, via Treviso-Meolo.
A
giugno sentimmo il bisogno di un riposo più lungo e allora, anziché
proseguire fino a Sambughè ci fermammo a Casale sul Sile.
La
notte fra il 15 e il 16 giugno, il nemico, con un bombardamento
infernale ed uso di lacrimogeni, infranse la linea del Piave e passò
il fiume in più parti, con le pattuglie più avanzate che si
spinsero fin nelle vicinanze di Meolo.
All’alba
del 16 giugno, il 105°Gruppo, maggiore Cardassi in testa, reparto
zappatori e, a seguire, in colonna, le batterie del gruppo,
distribuito un rancio unico per la giornata, si mosse a piedi da
Casale sul Sile in direzione Meolo.
Lungo
il percorso avemmo l’impressione di una seconda Caporetto. Poche le
truppe che con noi avanzavano e più massicce quelle che si
ritiravano (forse tra di esse artiglierie che andavano a prendere
posizioni più arretrate) e movimento di profughi.
Fummo
sorpassati da un drappello di Cavalleria al trotto con l’ufficiale
in testa in guanti bianchi che ci trasmise una sensazione di vigoria
e di spirito positivo; ma li perdemmo.
Arrivammo
a Meolo in mattinata, fummo spiegati in aperta campagna oltre le case
abbandonate e colpite.
L’ordine,
trasmesso di bocca in bocca, era di cercare di raggiungere il Piave
mantenendo stretto collegamento fra i singoli reparti in aperta
campagna, avventurandoci tra le accidentalità del terreno segnato da
numerosi piccoli corsi d’acqua, senza punti di riferimento ché,
davanti a noi non c’era più nessuna linea di resistenza, il nemico
era nascosto in mezzo ai campi di frumento alto ed accovacciato in
fossatelli e cespugli.
Il mio reparto zappatori doveva tenere un
buon pezzo di linea e di resistenza a qualsiasi costo, a destra
collegato con un reparto di fanteria (81^Bisagno), e a sinistra con
una batteria del nostro gruppo (bombardieri fucilieri), la 313^.
Si
cercava di non farsi vedere, si scavavano buche, ci si metteva
carponi; di giorno si cercava di stare nascosti il più possibile.
C’erano delle mitragliatrici piazzate sugli alberi che non si
vedevano, ma colpivano, oltre a tiro continuo di artiglieria. Di
notte si avanzava alla cieca. In qualche casa abbandonata trovammo
dei nostri finiti a pugnalate dal nemico prima di retrocedere.
Forse
il nemico preparava una linea di resistenza più arretrata; tutto si
ignorava. Ordini non ne arrivavano o non potevano arrivare.
Il
tempo era inclemente. Un caldo eccessivo con continui e forti
temporali accompagnati dalle artiglierie nemiche che facevano duello
costante con le nostre.
Arrivammo così al giorno 21 giugno senza
alcuna visita di un superiore.
Nel pomeriggio, dopo un
bombardamento più forte del solito, sorprendentemente il reggimento
di fanteria alla nostra destra si lanciò all’assalto al grido di
Savoia!
In
mezzo ai miei uomini rimasi per qualche attimo incerto ed esitante:
il collegamento perso alla destra ci esponeva al rischio di esser
presi alle spalle (e l’austriaco usava sgozzare il sopraffatto
nemico); il portarli all’assalto poteva significare portarli al
macello perché non sapevamo la consistenza dell’avversario.
Bisognava decidere, e decisi.
Saltai
fuori con tutti i miei uomini dalle buche e dal fossatello e andammo
all’assalto al grido di Savoia! ripetuto dal collegamento di
sinistra.
Nessuno
esitò; vidi entusiasmo e coraggio. Il nemico prese la via di
fuga.
Trovammo dei mitraglieri legati sulle piante per dare ai
compagni tempo di difesa. Passammo un fiumiciattolo con le stesse
passerelle che erano servite a loro per portarsi avanti e per poi
ritirarsi. Attraversammo campi di grano ostacolati da fili metallici
che avevano teso, invisibili, per frenare la nostra avanzata.
Del
terrapieno della ferrovia che porta a San Donà e Trieste
l’attraversamento sembrava impossibile perché investito da
infernale tiro di mitragliatrici che faceva sobbalzare la ghiaia. Ma
lo passammo senza perdita alcuna: passammo a piccoli gruppi, di
corsa, senza esitazioni. La nostra salvezza fu la gran vicinanza col
nemico, l’essere alle loro calcagna: si ritiravano con affanno
forse pensando all’avanzamento di grandi forze nostre, che invece
non erano che un pugno di uomini.
Arrivammo all’argine di Scolo
Peressina, un fiumiciattolo ove il nemico aveva improvvisato una
linea di resistenza, proprio davanti a Fossalta. A Fossalta il nemico
stava formando un quadrato per ripassare il Piave. Le due artiglierie
producevano un inferno di fuoco da ambo le parti. A ridosso di
quell’argine di Scolo Peressina, in un attimo di sosta del
combattimento, arrivò un portaordini con un bigliettino, un rotolo
di carta di 2 cm in cui sorprendentemente lessi: “fermatevi, avete
il cambio”. Era evidente che chi dava quell’ordine non conosceva
la nostra posizione così avanzata.
Eravamo sfiniti di stanchezza
e di disagi, febbricitanti, armati di soli fucili e di un grande
spirito del dovere e forza di resistenza. Il mio reparto di uomini da
sacrificio si trovò in quel momento bersaglio delle due artiglierie
perché la nostra non aveva saputo allungare in tempo la gittata
delle granate. E avemmo perdite, fatalmente.
Giuseppe Milani
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