La strage - 12 dicembre 1969, piazza Fontana a Milano

[ …] 12 dicembre 1969. Alle 16 e 37 una bomba esplode all’interno del
salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Non è una piazza come un’altra. È a un passo dal Duomo e a una manciata di metri da via Larga, dove il mese prima, durante la battaglia scoppiata nel giorno dello sciopero generale, un poliziotto stramazza a terra senza vita. A cento metri, in via Passo del Perdono, c’è anche l’Università Statale.
Il primo bilancio dell’attentato alla Banca Nazionale è di 13 morti e un centinaio di feriti. Una carneficina che, nei giorni che seguono, si appesantisce fino a contare 16 vittime.
Sempre il 12 dicembre, altri tre ordigni esplodono a Roma, causando 17 feriti.
Una bomba scoppia nei corridoi della Banca Nazionale del Lavoro, nei pressi della battutissima via Veneto, e due esplosioni hanno come obiettivo l’Altare della Patria, al Vittoriano.
Un altro attentato viene sventato ancora a Milano, alla Banca
Commerciale di piazza della Scala. Soltanto il caso ha voluto che non si trasformasse in un altro inferno. Il congegno a orologeria ha fatto cilecca.
Gli inquirenti mischiano subito le carte. Bussano alla porta degli anarchici meneghini.
Nella notte del 15 dicembre, Giuseppe Pinelli, uno degli animatori più in vista del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, vola giù da una finestra della questura milanese durante un “concitato” interrogatorio. Muore poche ore dopo all’ospedale Fatebenefratelli. La versione ufficiale non poteva che essere quella del suicidio. Ma non ci crede nessuno.
Lo stesso giorno sbattono in galera un innocente: l’anarchico Pietro Valpreda, messo in mezzo da un tassista che racconta di averlo portato sul luogo della strage. Valpreda sarebbe sceso con una valigetta e sarebbe tornato sul taxi senza. Fino al 1972 Valpreda è il mostro. Con millecentodieci giorni in cella a Regina Coeli.
Anche per gli attacchi dell’8 e il 9 agosto 1969 si segue lo stesso canovaccio. Vengono subito scaraventati in prima pagina gli anarchici. Salvo poi rimangiarsi tutto incriminando una falange di fascistoni nordisti.
In quella notte esplosero otto bombe depositate su diversi treni presso le stazioni di Chiari, Grisignano, Caserta, Alviano, Pescara, Pescina e Mira, mentre altri due ordigni vennero ritrovati inesplosi nelle stazioni di Milano Centrale e Venezia Santa Lucia.
Un’azione di terrore al cubo che non causò morti, ma 12 feriti. È il
debutto in società della tattica delle bombe che uccidono.
Piazza Fontana, la “madre di tutte le stragi”, Peteano, Piazza della Loggia, il treno Italicus. Ma se la manovalanza di questi attentati è nera, i mandanti vivono nei piani alti dei palazzi romani o negli angusti uffici politici di servizi segreti infetti.
La missione è quella di cambiare le carte in tavola. L’autunno caldo degli operai fa tremare la Democrazia cristiana che detta legge da sempre.
La paranoia è sempre la stessa: la paura che i comunisti cavalchino gli scioperi di cinque milioni di lavoratori. In ballo non c’è solo il vile denaro del contratto di lavoro. Quello che spaventa di più gli industrialotti italiani sono le pretese delle tute blu, delle teste calde dei metalmeccanici.
Due più di tutte: la riduzione dell’orario di lavoro a quaranta ore settimanali e il diritto di assemblea in fabbrica; il “Potere Operaio”.
Dopo anni e anni di fuffa, sulla strage di Piazza Fontana che più di ogni altro episodio ha sfregiato la storia di questo paese, non esiste ancora uno straccio di verità processuale.
Come stanno le cose, lo sanno pure i sassi. I processi partono da Roma, poi per competenza territoriale vengono traslocati a Milano e quindi sballottati a Catanzaro. Tra di loro lo chiamano iter giudiziario. E mentre gli anni passano, la memoria si annacqua.
Nel frattempo: «I fascisti sono tutti liberi con quello stile inaugurato dalla fuga di Kappler, per cui quando uno è dentro lo si aiuta tranquilla- mente a uscire.
Sono liberi quelli di Ordine Nuovo e Ordine Nero, è libero (anzi, riabilitato) il golpista Edgardo Sogno, sono definitivamente insabbiate le inchieste sulla Rosa dei Venti e sul golpe Borghese».
Sì, perchè tra ieri e oggi, le stesse menti disturbate che hanno concepito lo stragismo, hanno sceneggiato dei putsch militari, stoppati solo all’ultimo momento.
I nomi in codice: Piano Solo, Golpe Borghese, Golpe Bianco. Le date cerchiate sul calendario: giugno-luglio 1964, 8 dicembre 1970, 10 agosto 1974. Gli ideatori: il generale dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo; il principe fascista Junio Valerio Borghese; il partigiano bianco Edgardo Sogno.
Tutti hanno un debole per dittatori e macellai in divisa: Salazar in Portogallo, Franco in Spagna, i colonnelli in Grecia. Mica quattro amici al bar. Macchinazioni ideate o per sventare improbabili atti insurrezionali o, più verosimilmente, per impedire che qualcuno traghettasse al governo, dopo i socialisti, anche i comunisti italiani.
Per i tribunali, tutto questo non è mai successo. Radisol se l’è spulciate bene queste pagine indegne di storia. Per questo non si fida di chi si pavoneggia con la difesa dello “Stato Democratico”.
«Democratico, ma de che!».
Tanto per dire. Il comandante in capo dell’Arma dei Carabinieri, Giovanni De Lorenzo, mette a puntino uno schema denominato Piano Solo, termine utilizzato per indicare come l’affare riguardi “solo” i carabinieri. Una brigata meccanizzata fornita di carri armati americani M47 e di autoblinde corazzate M113.
Il Piano Solo prevede operazioni di rastrellamento e arresto di personalità segnalate in una lista nera di 731 nominativi scomodi, l’occupazione delle sedi della Rai, delle redazioni di alcuni giornali di sinistra, dell’Associazione Nazionale Partigiani, eccetera.
Tutto questo, fra il giugno e il luglio del ’64, con il presidente della Repubblica, Antonio Segni, che incarica Aldo Moro di formare il nuovo governo, dopo la caduta del primo “democristiani+socialisti” capitanato da Moro, con Pietro Nenni, storico leader del Psi, come suo vice.
I palazzi della politica traballano, anche perché a Segni i socialisti stanno fortemente sullo stomaco. Fino al punto da convocare al Quirinale il generale De Lorenzo... per dirsi cosa, resta un mistero.
Anni dopo una commissione parlamentare accerterà che il piano andò a monte per la scarsa adesione degli immediati sottoposti di De Lorenzo a Milano, Roma e Napoli.
Roma, 8 dicembre 1970. Alle ore 7 e 59, dagli studi della Teulada i telespettatori avrebbero dovuto ascoltare, sul primo canale, il seguente comunicato: «Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di Stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato e ha portato l’Italia verso lo sfacelo economico e morale ha cessato di esistere.
Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della Nazione, sono con noi, mentre possiamo assicurarvi, che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi volevano servire la Patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi.
Nel riconsegnare nelle vostre mani, il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno d’amore: Italia! Italia! Viva l’Italia!».
Tutta farina del sacco del principe Borghese, uno che l’8 Settembre del ’43, dopo il tracollo fascista, sceglie di restare al servizio di Adolf Hitler. Come un invasato, con i volontari della Decima Mass, continua a guerreggiare contro gli anglo-americani che avanzano da Sud.
È difficile a dirsi ma l’Italia degli esaltati non si è fatta mancare niente. A un superfascio come Borghese, fa da contrappunto una medaglia d’oro della Resistenza, il partigiano bianco Edgardo Sogno, che sogna l’avvento di una seconda Repubblica autoritaria e presidenziale per premiare i buoni e punire i cattivi.
Scrive Sogno di suo pugno: «Il colpo va organizzato coi criteri del Blitz- krieg77 sabato durante le ferie, con le fabbriche chiuse e le masse disperse in villeggiatura. Il nuovo governo deve agire in modo energico, spietato, senza tentennamenti».
Anche la data era fissata: sabato 10 agosto 1974. Ma pure a questo giro, per ragioni sconosciute a noi comuni servi della gleba, non se ne è fatto nulla.
Che è anche più inquietante: perchè nessuno è disposto a mollare l’osso in cambio di nulla. Sono uomini abituati al ricatto: a subirlo o a esercitarlo. Coprono o rivelano.
Di sicuro, per nome e per conto della ragion di Stato, carte, indizi e testimonianze, si smarriranno in qualche buio sgabuzzino e tutto passerà in cavalleria.
L’implacabile decorso del tempo s’incaricherà di sbianchettare la memoria e magari di assicurare una pensione honoris causa a chi di dovere. Un vitalizio non si nega a nessuno.
da RADISOL IL SOGNO DELLA RIVOLUZIONE NELL'ITALIA DEL 1978 romanzo, Alfredo Facchini, edizioni Red Star Press - Hellnation Libri

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