La seconda battaglia dell'Isonzo [vissuta dagli austriaci parte IV]

Nonostante il numero impressionante di morti e feriti registrato dal VII corpo d'armata, la terza giornata cominciò con un nostro contrattacco, che si proponeva di strappare al nemico il settore del fronte est di Sdraussina, perduto il 18 luglio, per poi respingerlo fino all'Isonzo. I tre battaglioni del 96° reggimento fanteria, designati per l'azione, si erano trovati in condizioni terribili durante le ultime quarantott'ore. Esposti senza riparo al fuoco pesante dell'artiglieria avversaria sul terreno scoperto del San Michele, attendevano fin dalla notte precedente l'ordine di avanzare. Con lo spuntare dell'alba, i nostri erano stati esposti più che mai alla tempesta di fuoco dei cannoni nemici dietro il monte Fortin, 
sicchè, quando fu possibile iniziare l'attacco, era ormai giorno fatto. Si lanciarono arditamente verso i ripari di sacchi a terra degli italiani e nonostante il pesante fuoco di sbarramento si spinsero fino ad un centinaio di metri dalla linea nemica.
Anche il 3° reggimento Honved, che si trovava a sud dei croati, fu trascinato dal loro impeto e parve che stavolta l'eroismo dei combattenti del Carso venisse ripagato da un successo travolgente. Invece, la certezza si mutò di colpo in disperazione. Il nemico irruppe in forze preponderanti dai ripari, obiettivo della conquista, e si gettò contro gli attaccanti. Gli uomini del 96° reggimento si accorsero troppo tardi di essersi insaccati in un attacco nemico contro il monte San Michele, accuratamente preparato. I battaglioni italiani, appoggiati dal tiro velocissimo delle loro batterie che ricacciavano davanti a sé gli sparuti resti dei croati, erano almeno otto. Dopo parecchie ore di fasi alterne delle lotta e di perdite sanguinose dell'una e dell'altra parte, il 96° reggimento riuscì a stabilirsi saldamente davanti a San Martino del Carso, ridotto a un cumulo di macerie, così come riuscirono ad aggrapparsi al terreno gli Honved del 3° reggimento. Nelle prime ore del pomeriggio, la situazione fra San Martino e l'altura trigonometrica del San Michele divenne ancora più minacciosa. La zona era completamente avvolta nel fumo delle granate, i fianchi della collina erano sotto il fuoco serrato delle batterie italiane fino al Vallone. Le truppe del duca d'Aosta entrarono in azione per assolvere lo scopo principale in questa battaglia: la conquista del pilastro angolare settentrionale del nostro fronte carsico, il cui cedimento avrebbe potuto determinare il crollo di tutta la linea.
Ben quarantamila uomini avrebbero dovuto conquistare, con un assalto decisivo, la parte settentrionale dell'altopiano di Doberdò, cioè il settore fra il San Michele e il Sei Busi, aprendo in tal modo la strada per Gorizia e per Trieste. L'ala meridionale della 2° armata italiana aveva il compito di espugnare simultaneamente le posizioni dei difensori fra il Sabotino e il Podgora in modo che il nemico, avendo perduto tutto il settore centrale del fronte, fosse costretto a una ritirata generale. Soltanto una minima parte di questo vasto piano fu realizzata con successo: riuscendo, però, proprio nel punto più scabroso, con un effetto poco meno che catastrofico per i difensori, i quali vennero a trovarsi in una situazione disperata. Mentre gli attacchi del nemico s'infrangevano contro le tenace resistenza da noi opposta fra il Sei Busi e la Quota 197, altre truppe italiane, dell'XI corpo d'armata, guadagnavano terreno, a palmo a palmo, verso il monte San Michele, dove i resti dei battaglioni della 17° divisione di fanteria e della 20° divisione Honved, magiari, croati e sirmi stavano sostenendo una battaglia senza speranze. Ricoveri e reticolati non esistevano più, i radi cespugli erano stati spazzati via da un pezzo, il terreno era disseminato di pietrame frantumato. Il tiro delle batterie italiane infuriava da tre lati, le nuvole delle esplosioni salivano sempre più alte, lungo i pendii, verso la sommità spianata dell'altura. Il fuoco era diretto in modo ineccepibile e proteggeva gli attaccanti come un baluardo opposto alle mitragliatrici e alle bombe a mano degli ungheresi. Ma anche la nostra artiglieria stava lavorando a pieno ritmo. Dalla valle del Vipacco i mortai pesanti battevano come martelli fiammeggianti nel folto delle schiere nemiche. I cannoni a lunga gittata di una batteria bavarese fiancheggiavano furiosamente il versante nordoccidentale con il loro tiro rapido. Grappoli di shrapnel e di granate, provenienti da sud e da nord, scoppiavano sul terreno antistante alla vetta, coperto da una coltre sempre più spessa di fumo.
Allo sbocco del Vallone, seimila uomini della 93° divisione di fanteria erano pronti a intervenire per salvare le sorti della battaglia. Il nemico, intanto, sembrava per nulla disposto a lasciarsi strappare di mano la vittoria ormai vicina. Anche il fianco orientale si trovava sotto la tempesta di ferro dei suoi cannoni. Non uno dei seimila sarebbe riuscito a toccare la vetta se avessero dato inizio all'attacco in quel momento. La linea di combattimento si spostava lentamente. Il perno era costituito da San Martino del Carso, sempre in preda alle fiamme; a nord i difensori indietreggiavano a passo a passo. Erano allo stremo della resistenza. Alle 17.30, gli ultimi valorosi, che stavano lottando da lunghe ore senza riposo , senza cibo e senz'acqua, per il possesso di questa collina martoriata quota 275 e subito dopo anche la vetta più a est. Il San Michele era in mano italiana.
Le dodici battaglie dell'Isonzo di Fritz Weber – edizioni Mursia

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