La seconda battaglia dell'Isonzo [vissuta dagli austriaci – parte I]
Fin
dagli inizi della seconda grande battaglia cominciarono sull'Isonzo
quel rombo e quell'urlo incessanti, che a volte si rafforzano a volte
si indebolivano, ma che non si placarono mai del tutto. L'aria
tremava fino a grande distanza, sotto la pioggia dei cannoni e
soltanto la fine di questo malaugurato fronte riportò la calma.
Lungo le linee avanzate, là dove gli avversari si trovavano a
portata di voce, l'attività non fu mai così intensa come in questi
undici giorni intercorsi fra la prima e la seconda battaglia
dell'Isonzo. I difensori rizzavano di nuovo i muriccioli di pietre
sovrapposte e i ripari di sacchi a terra, intrecciavano reticolati
mobili e, tutte le notti, li trascinavano sulla terra di nessuno
antistante, legandoli insieme per formare nuovi sbarramenti. Sorsero
anche i ricoveri fatti di lamiere messe insieme in tutta fretta e
coperte con uno strato di ciottoli, addossati ai pendii delle doline,
più simili a conigliere che a rifugi destinati all'uomo, angusti,
bassi, tetri e ben presto zeppi di pidocchi e di tanfo. Eppure queste
buche erano meglio di nulla, servivano in primo luogo a proteggere
dai frammenti metallici degli shrapnel e dalle schegge delle granate,
ma soprattutto davano agli occupanti una certa sensazione di essere
al sicuro nell'inferno del fuoco tambureggiante.
Le
caverne e i muri di cemento armato, i ricoveri retti da travi
portanti di ferro, i camminamenti e le trincee scavati nella roccia
erano assai lontani, per il momento. Ci sarebbero volute ancora
parecchie settimane, considerando la particolare durezza del calcare
carsico e la scarsità di perforatrici, prima di riuscire a scavare
almeno una piccola parte delle caverne necessarie. Nuovi reparti
vennero dislocati sul Carso: tutto il VII corpo d'Armata, che fino a
quel momento aveva stazionato in Carinzia. Con l'arrivo del VII
corpo, la forza dell'armata di Boroevic salì a centotremila fucili,
milleottocentocinquanta cavalleggeri, duecentotrentasei
mitragliatrici e quattrocentotrentuno cannoni. Era tutto quanto
l'Austria-Ungheria poteva opporre per il momento al nemico sul fronte
sudoccidentale. Cadorna non si accontentò di ripetere la prima,
inutile offensiva con le stesse forze. Mentre in Giugno la porta
isontina sarebbe dovua essere valicata da centocinquantacinquemila
uomini, adesso la fanteria comprendeva duecentosessantamila uomini
articolati in ventitrè divisioni, di cui almeno diciannove erano
schierate fra Tolmino e l'Adriatico.
Ad
esse bisognava aggiungere tre o quattro divisioni della milizia
mobile e tutta la cavalleria della seconda mobilitazione, raccolta
fra l'Isonzo e il Tagliamento e pronta a entrare in qualsiasi momento
della lotta. Ma ancora più temibile dell'aumento dei reparti
appariva l'aumento dell'artiglieria italiana, soprattutto dei grossi
calibri. La fanteria italiana, con la prima battaglia, era riuscita a
stabilirsi saldamente a distanza d'approccio dalle nostre linee e
adesso procurava di consolidare questo vantaggio approfittando degli
undici giorni di respiro. Verso la metà di luglio, quindi, gli
avversari si fronteggiavano più forti e più risoluti che mai.
Cadorna non aveva cambiato il suo piano. Mirava ancora, come
all'inizio, allo sfondamento delle nostre linee sul Carso e alla
conquista di Gorizia e di Trieste. Soltanto un obiettivo si rendeva
sempre più evidente
in questa serie di compiti: la presa del monte San Michele, punto
chiave di tutto il fronte isontino centro-meridionale. Chi aveva il
possesso di questa collina rocciosa, con la sua sommità spianata,
dominava, da un lato, la conca di Gorizia e, dall'altro, l'altopiano
di Doberdò. Perciò, al duca d'Aosta, comandante della 3° armata
italiana, venne assegnato il compito d'impadronirsi ad ogni costo
dell'altura e di San Martino del Carso, il villaggio che si trovava
ai suoi piedi.
Le
dodici battaglie dell'Isonzo di Fritz Weber – edizioni Mursia
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