Notte. Freddo.
La bocca impastata di fango. Il tentativo di rialzarsi, ma le gambe non
rispondono ai comandi del cervello: la destra gli fa molto male, ma
dalla bocca non gli esce neppure un lamento, e proprio il cervello
riprende a dialogare con la coscienza, freddamente, senza cedere alla
paura, all’angoscia. Era stato colpito, chissà se da una scheggia
o da un proiettile; era sotto i corpi di due, forse tre commilitoni,
che la vita l’avevano perduta, chissà, forse per soccorrerlo: lui
era stato più fortunato. Fortunato? Ricordava abbastanza bene il
momento dell’assalto e poi del colpo che l’aveva abbattuto: più
o meno doveva trovarsi a metà strada fra le due trincee. Avrebbero
recuperato i feriti? Gli era già capitato di aver guidato una
pattuglia che, in una sorta di tregua tacitamente concordata, aveva
riportato indietro i compagni colpiti; ma stavolta?
Aveva
deciso di aspettare le prime luci dell’alba, ma ora sentiva che le
forze gli venivano a mancare: chissà quanto sangue aveva perduto.
No, non poteva permettersi di aspettare: lo doveva alla sua Ginevra,
alla piccola Titina, che gli avrebbe teso le braccine, quando sarebbe
apparso sul vialetto del giardino di casa, al piccolissimo Peppino,
quel fantolino che aveva avuto appena la possibilità di conoscere,
prima di partire per il fronte. Ginevra: se la rimirava con gli occhi
della memoria e dell’amore, davanti al cavalletto, intenta a
dipingere e si vedeva posarle un bacio furtivo – che non vedesse la
bambina! – sui capelli a stento trattenuti da pettini e forcine e
raccolti in un turgido chignon…
Doveva
esserci un fiume, poco distante, laggiù, sulla destra, prima delle
linee nemiche; ma non ne percepiva né il fragore né il fruscio, e
ancora più in là, lontano, una città, Monfalcone, uno degli
obiettivi dell’offensiva… Ma ormai tutto questo, nella landa
fangosa e desolata, cosparsa di corpi inerti, non lo riguardava più;
per lui, in ogni caso, la guerra era finita. Tese l’orecchio: era
un lamento, questo? Si sentiva sempre più debole: doveva tentare
qualcosa. Cercò di piegarsi su un fianco, per mettersi in condizione
di strisciare a pancia sotto, verso la sua trincea, e si meravigliò
di non provare dolore: le gambe non le sentiva più. Scacciò il
pensiero – e l’immagine – di Manlio immobilizzato sulla sedia a
rotelle; strinse i pugni, si morse le labbra e, con uno sforzo
sovrumano, si divincolò da quel groviglio di corpi, gli si spense il
cielo nero e stellato e si accasciò faccia a terra. Doveva riposare
qualche attimo, poi avrebbe cominciato a strisciare, a percorrere a
ritroso quel tratto che poche ore prima aveva attraversato di corsa,
sotto il fuoco nemico.
Ora
il silenzio veniva interrotto da un remoto latrato di un cane e ora…
sì, questo era un lamento, qualcuno stava peggio di lui, e lui non
avrebbe potuto far nulla. Questo pensiero lo avvilì e gli suscitò
un ingiustificato senso di vergogna, di scuorno,
ma
gli dette anche una sferzata di energia: questa fortuna ora doveva
meritarsela, per se stesso, per la sua famiglia, per i suoi
commilitoni, per la Patria e per quel Re nel cui nome aveva comandato
sette assalti alla baionetta, fino a quest’ultimo, fatale.
La
Patria. Si era appena sollevato sui gomiti, e aveva cominciato a
strisciare nel fango, centimetro dopo centimetro. La Patria: un
pensiero astratto, non sapeva come raffigurarsela. Il Re sì, lo
aveva perfino intravisto un paio di volte: durante una sua visita a
Napoli – lui era tra la folla – e al fronte, mentre passava in
rassegna i reparti schierati, fra i quali il suo Reggimento. Ma la
Patria, che cos’era la Patria? E intanto una fitta come una folgore
gli aveva provocato come un corto circuito fra la gamba ferita e il
cervello, azzerando ogni pensiero. La Patria era la bandiera, certo;
era quella terra, quei fiumi che aveva attraversato, quell’uniforme
blu da ufficiale, quel bando di mobilitazione, che lo aveva portato
via dalla sua casa a Materdei, dalla sua famiglia, dal suo lavoro al
Municipio; era quel treno che lo portava, insieme a tanti altri
giovani – e lui era uno dei meno giovani… – verso terre
lontane, ma nostre, italiane, a combattere per difenderle e per
conquistare quelle che italiane erano per lingua e cultura, ma
stavano sotto un altro Sovrano, sotto un’altra bandiera.
Procedeva.
Lentamente, ma procedeva, sui gomiti che adesso gli dolevano.
Combattere. Non aveva pensato, in quel treno, che combattere poteva
significare uccidere o essere ucciso, e a se stesso – non ad altri,
meno che mai a Ginevra e ai figli – doveva confessare che sì,
aveva spento qualche vita. In quegli assalti furibondi, era
impossibile rendersene conto, ma la sua sciabola, la sua rivoltella
erano state fatali per qualcuno con l’uniforme diversa dalla sua,
in quelle trincee, lungo quei terrapieni, fra quei reticolati di filo
spinato.
Ancora
uno sforzo, Manlio, sottotenente Francesco Manlio Conte, ancora uno
sforzo. La trincea dev’essere vicina: gli sembra di sentire dei
bisbigli; ecco, gli veniva in mente, appena a portata di voce,
sarebbe stato opportuno lanciare un grido di aiuto, per evitare che
qualcuno, temendo un’incursione nemica, gli sparasse addosso. No,
doveva gridare ora, con le ultime energie, che ormai – lo sentiva –
stavano per abbandonarlo; e quel grido è l’ultimo ricordo che gli
è rimasto impresso di quella notte.
Il
seguito è il racconto di un ospedale da campo, prima, di un
accidentato viaggio fino a un ospedale “vero”, in muratura, fra
lamenti, medici dai modi spicci e infermiere gentili, bende
insanguinate, remoti rombi di cannone, e poi la neve, quella neve che
non aveva mai visto prima della guerra, come non aveva mai visto
quelle montagne altissime e aspre, quelle rocce acuminate e
bellissime. Ma ora aveva voglia di mare, di famiglia, di climi più
dolci. Aveva voglia di passeggiare con la sua Ginevra, e ormai sapeva
che avrebbe potuto farlo.
Giuseppe
Del Ninno
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