Gli Uomini dalle lunghe Barbe (i Longobardi)

Un intero popolo in marcia composto da guerrieri con mogli, figli, armenti e carriaggi il 2 aprile del 568, giorno di Pasqua, attraversò il Passo del Predil, nelle Alpi Giulie, penetrando in Italia da est.
Gli uomini erano perlopiù biondi, villosi e gagliardi, ma si distinguevano soprattutto perché portavano lunghe barbe e capelli spioventi sulla fronte, sebbene avessero la nuca rasata. Indossavano vesti di lino grezzo, si proteggevano dal freddo con pellicce e calzavano stivaloni di cuoio. Di notte si riposavano in capanne erette per l’occasione, alla bell’e meglio, dentro le quali dormivano ammassati su pelli di capra insieme ai loro familiari.
Si trattava degli “Uomini dalle lunghe Barbe” (i “Longobardi”) che, guidati dal loro re Alboino, si erano lasciati alle spalle le ancor gelide pianure della Pannonia (attuale Ungheria) per dirigersi verso quello che già allora era considerato il “Bel Paese” per ricchezza, bellezze naturali e mitezza del clima.
Come tutti i barbari non sapevano cosa fosse il commercio, ignoravano l’uso della moneta e della scrittura e, come unico patrimonio culturale, possedevano le loro “Saghe”, le leggende cioè che si tramandavano oralmente di padre in figlio per narrare le imprese dei loro mitici eroi.
Era un popolo nomade che contavano in tutto 100.000 – 150.000 individui, di cui lo storico Paolo Diacono (monaco benedettino vissuto nell’VIII secolo) nella sua “Historia gentium Langobardorum” ci narra le origini mitologiche, facendole risalire sino ad Odino.
Nativi della Scania, regione situata nella parte meridionale della Svezia, gli allora “Winnili” avevano intrapreso fra il II ed il I secolo a.C. una prima migrazione verso sud, stabilendosi prima nell’isola di Rügen e poi fra le sponde meridionali del Baltico e il fiume Elba.
Proprio in Germania sarebbero entrati in contatto coi Cherusci, unendosi a loro in una lega anti-romana che, sotto la guida di Arminio, avrebbero inferto nel 9 d.C. - nel folto della foresta di Teutoburgo - una delle peggiori sconfitte militari mai subite dalle legioni imperiali romane, tanto che Tacito li citò nel suo “De Origine situ Germanorum”.
Soltanto fra il IV ed il V secolo si diedero una struttura assimilabile a quella di uno Stato, dopo aver acclamato come re Agilmondo. Alla ricerca di terre sempre più fertili e climi meno rigidi, seguendo il corso del Danubio arrivarono in Pannonia all’inizio del VI secolo, destando la preoccupazione dell’imperatore bizantino Giustiniano I, che non vedeva di buon’occhio la presenza di un popolo tanto bellicoso ai confini delle sue terre.
Sfruttando le armi dell’inganno e della corruzione gli fece dunque muovere contro i Gepidi, che però Alboino, nuovo re longobardo, riuscì a sconfiggere uccidendone in battaglia il capo, Cunimondo, del cranio del quale si sarebbe poi servito a mo’ di coppa per bere del vino e farne bere anche alla moglie Rosmunda, che di Cunimondo era figlia. Per vendetta quest’ultima lo avrebbe fatto ammazzare nel 572 da un sicario, Elmechi, in una storia “noir” da cui Vittorio Alfieri nel 1780 avrebbe tratto ispirazione per scrivere la tragedia omonima, “Rosmunda” per l’appunto.
La traversata dell’Isonzo nell’aprile del 568 fu il passo decisivo col quale i Longobardi si assicurarono il dominio del nord Italia e poi di grande parte della nostra penisola, a quei tempi sottoposta al domino bizantino, col viceré Longino asserragliato a Ravenna che però si guardò bene dall’intervenire.
A ben vedere, davanti all’avanzata delle macchine da guerra costituite dalle “fare” (dal tedesco “fahren”, che significa “andare”), che erano poi “tribù in marcia” all’interno delle quali gli invasori si erano organizzati sotto la guida di impavidi duchi, era praticamente impossibile opporre resistenza.
Ogni singola “fara” infatti, dopo averlo conquistato con le armi in pugno, diventava stanziale su un certo territorio, occupando città già esistenti quali Cividale del Friuli, Aquileia, Treviso, Verona e Bergamo, oppure fondandone di nuove. In effetti, quante località si chiamano con nomi inizianti per “Fara” o “Gualdo” nel nostro Paese?
Così, nell’arco di più o meno due secoli, i Longobardi arrivarono a controllare i due terzi circa della nostra penisola, facendo però attenzione, almeno fino all’inizio dell’VIII secolo, a mantenere integra la loro identità etnica basata su lingua, usi, abiti, acconciature, religione (l’arianesimo) e leggi che sarebbero state raccolte in forma scritta per la prima volta nel 643, nel silenzio del monastero di Bobbio, per ordine di re Rotari.
Ogni contaminazione con la “Romanitas” era non soltanto evitata, ma anche severamente punita, persino con la morte in caso di matrimoni misti.
Soltanto a partire dall’VIII secolo, sotto il regno di Liutprando, con la conversione al cattolicesimo, l’adozione del latino volgare come lingua parlata e la soppressione del divieto dei matrimoni misti, le due etnie coi relativi retaggi culturali avrebbero iniziato a fondersi, mantenendo però una divisione fra un nord sempre più germanizzato e un sud prevalentemente ancorato al mondo latino.
Il Regno settentrionale, con capitale Pavia, perse via via influenza sulle sue propaggini meridionali, costituite dai Principati di Benevento, Capua e Salerno destinati a sopravvivere al primo per circa tre secoli, fino cioè alla calata in Italia dei Normanni nell’XI secolo, mentre già nel 774 Carlo Magno, chiamato in Italia dal Papa, avrebbe sconfitto a Pavia re Desiderio.
Quel popolo tanto fiero ha lasciato, specie nell’attuale “Langobardia”, una traccia non indifferente del suo passaggio, entrata col tempo a far parte della nostra identità nazionale in forma di tracce linguistiche, toponomastica, arte, civiltà ed apparati giuridici che sarebbero sopravvissuti quasi immutati fino all’Età Moderna.
Accompagna questo scritto l’immagine di una “Spatha” con impugnatura aurea di manifattura longobarda, fine VI – inizio VII sec. Museo Archeologico di Nocera Umbra

Commenti

Post popolari in questo blog

Quota 126 del Vippacco

Perchè c'erano tanti falli nella Roma antica?

Scoperto in Germania il “filo spinato” usato da Cesare contro i Galli.