I processi nell'Antica Roma
Alcuni
di voi lettori conosceranno di certo la trasmissione “Un
giorno in Pretura”,
in onda su Rai Tre a partire dal 1988 ed ancora oggi presente in
palinsesto con vere e proprie stagioni annuali. Non tutti però
ricorderanno il complesso ed elaborato dibattito che sorse riguardo a
questa trasmissione televisiva, che vide contrapposte le differenti
posizioni di chi considerava legittimo trasformare la giustizia in
spettacolo e chi invece criticava queste luci della ribalta su
criminali di ogni genere. Da una parte c’era chi sosteneva, e
sostiene tuttora, la piena legittimità del diritto di cronaca e di
informazione, e quindi il diritto del pubblico di conoscere anche ciò
che accade nelle aule dei tribunali, dove spesso si combattono vere e
proprie battaglie in nome della libertà; dall’altro lato erano
numerosi, e lo sono ancora oggi, coloro che sostenevano che portare
l’accusato in televisione avrebbe voluto dire considerarlo già
colpevole, oltre a lusingare e fomentare la morbosità degli
spettatori.
Se
è vero che il clamore conseguente ai giudizi e alle sentenze fa
spesso aumentare la tiratura dei quotidiani e riempire le aule di
cronisti e giornalisti, destando l’attenzione e la curiosità del
pubblico, è altrettanto lapalissiano che tale fatto non sia
certamente nuovo, ma che anzi abbia radici lontane nella storia e
nella tradizione dell’Antica Roma.
All’epoca,
infatti, naturalmente non esisteva la televisione, ma i
processi erano l’occasione perfetta per “fare spettacolo”,
anche considerando l’uso che se ne faceva, rendendoli il modo
perfetto per infamare un concorrente o infangare un avversario
attraverso le calunnie più varie,
finendo per trasformare così un atto di giustizia in una clamorosa
opportunità di divertimento.
I
Romani, si sa, erano un popolo smaliziato e rotto a ogni evenienza, e
proprio per questo avevano nei secoli sviluppato una verso e proprio
“gusto del pettegolezzo”, godendo per ogni turpitudine che ne
lusingasse la morbosità. Le accuse di incestum alle
Vestali, di avvelenamenti a nobili patrizi e persino di empietà
verso gli Dei erano argomenti che riempivano le discussioni nel Foro
e che rimbalzavano, ingigantiti ed esasperati, fino ai confini delle
più lontane Province. In aggiunta a ciò, poiché i
processi si svolgevano spesso all’aperto o nelle Basiliche, che
erano luoghi aperti al pubblico,
nelle piazze o nelle aule si riversava spesso una folla rumorosa e
colorita, che partecipava con entusiasmo alla performance degli
oratori, che si dilettavano a sciorinare e mettere in mostra i panni
sporchi delle migliori famiglie romane.
Era
infatti consuetudine, indipendentemente da quale fosse il crimine di
cui un individuo fosse chiamato a rendere conto e da quale fosse il
ceto di appartenenza dell’imputato, che nel processo
venissero coinvolti
personaggi eminenti e figure di primo piano nella vita della città,
tirati in ballo magari solo per fare effetto sui giudici e riscuotere
gli applausi della folla, vociante e pettegola, che si infiammava nel
sentire parlare di intrighi di letto, peculati, adulteri, corruzioni,
concussioni e scandali vari. La formula risultava ancora più
accattivante poiché, ai tempi dell’Antica Roma, in assenza
dell’istituto della Pubblica Accusa, era spesso il singolo
cittadino che accusava il proprio nemico personale per un’offesa,
per un furto, per il mancato rispetto degli accordi contrattuali o
perché avesse avvelenato o fatto assassinare un antagonista.
Gli
avvocati romani, in tal senso, non andavano tanto per il sottile
quando c’era da attaccare un avversario o da difendere le tesi del
proprio cliente: da buoni “squali”, essi
passavano sopra a chiunque, esaltando qualsiasi vizio della
controparte, cogliendone aspetti di turpitudine anche nelle azioni
apparentemente più innocenti,
chiamando a testimoniare letteralmente chiunque, inclusi amici e
parenti ben disposti a spergiurare anche sulle più conclamate
falsità. La vita politica della Capitale, d’altronde, si fondava
sulle amicizie clientelari, e attraverso l’esercizio dell’oratoria
era più facile fare carriera politica, sia per la risonanza che ne
poteva derivare all’oratore che per i rapporti, personali e
professionali, che si potevano stringere grazie ad essa.
In
sostanza, a
Roma era quasi impossibile distinguere la carriera politica dalle
esercitazioni forensi, ed ogni romano di ceto elevato amava dedicarsi
all’attività di avvocato con lo stesso impegno con cui cercava di
seguire e concludere il proprio cursus
honorum,
ossia la propria carriera politica: le due attività erano anzi così
legate da essere pesantemente interconnesse, con l’una che giovava
inestricabilmente al successo dell’altra. Ecco perché i giovani
patrizi erano soliti seguire le lezioni dei più brillanti avvocati
dell’epoca: ciò non rappresentava solo un modo per completare al
meglio la propria educazione, ma anche perché era il metodo migliore
per intrecciare rapporti e stringere amicizie che potevano tornare
utili in tempo di elezioni.
Il processo
contro Verre,
intentato contro di lui dalle città della Sicilia che aveva
sistematicamente “saccheggiato” durante il proprio governatorato,
o le orazioni
contro Catilina,
accusato di congiura e di alto tradimento verso lo Stato, furono solo
alcuni dei processi che fecero di Cicerone l’uomo
più importante di Roma, tanto da farlo giungere alle porte del
consolato.
Talvolta,
però, le inimicizie che ci si procuravano apparendo nelle aule dei
tribunali potevano causare tristi conseguenze, proprio come quella
accaduta allo stesso Cicerone. L’oratore ricoprì infatti il ruolo
di testimone a sfavore nel processo intentato contro Clodio,
accusato di aver profanato la casa di Cesare durante i riti in onore
della Dea Bona, tanto da trasformarlo in un proprio acerrimo nemico,
che gli fece bruciare la casa e lo costrinse all’esilio. La
vendetta, però, era un piatto da servire freddo: ritornato in patria
dopo quindici mesi, Cicerone
ebbe l’occasione, nell’arringa in difesa del giovane marco Celio
Rufo (accusato di brogli elettorali), di scaricare tutto il suo odio
verso Clodio e
di vendicarsi dei lunghi mesi passati in esilio.
Il
processo in questione divenne uno degli eventi più clamorosi di
Roma, se non addirittura il più importante dell’anno 56 a.C., in
grado di offrire uno spettacolo appassionante per un pubblico avido
di intrighi e desideroso di godere di ogni umana debolezza. Cicerone,
con la sua grande abilità oratoria in grado di mescolare abilmente
sottili allusioni e terribili accuse, trasformò il processo contro
Rufo in una requisitoria contro Clodio, il tribuno responsabile della
sua rovina.
Nella
sua foga oratoria, unita all’odio accumulato nei mesi di esilio,
Cicerone trascinò nel fango anche la sorella del tribuno, Clodia,
ex amante dello stesso Celio Rufo, colpevole di avergli preferito il
giovane poeta Catullo.
La donna, che era una delle figure più appariscenti di Roma tanto
per la bellezza quanto per la cultura e l’intelligenza, divenne il
principale capo di accusa, venendo trasformata in una sorta di
perfida ammaliatrice, responsabile di ogni intrigo e nefandezza,
colpevole di estorsioni e ricatti, pronta a prostituirsi con
qualsiasi giovane e persino ritenuta capace di avvelenare il marito,
morto improvvisamente.
Avvocati
senza scrupoli come Cicerone erano infatti famosi per le loro
arringhe,
spesso cariche di accuse infamanti e oltraggiose: era grazie ad esse,
però, che tali “principi del Foro” infiammavano gli animi di un
popolo petulante e rissoso, in grado di sedersi per ore ad ascoltare
i loro impetuosi discorsi, portandosi appresso il pranzo in un telo
di lino per non dover abbandonare lo spettacolo. Ed ecco gli applausi
e gli schiamazzi ad ogni nuova espressione sarcastica o pungente, in
grado di fustigare socialmente illustri personalità che, almeno per
una volta nella loro vita, si ritrovavano loro malgrado vittime di
invidie personali, intrighi politici o desideri di rivalsa: basti
pensare solo che Catone
il Censore, esempio secolare di morigeratezza e severità, venne
citato in giudizio per ben 44 volte!
L’entusiasmo
del pubblico, poi, aumentava quanto più veniva accentuata la
teatralità dei gesti che accompagnavano le parole. Strapparsi di
dosso gli abiti, abbracciare i figli in tener età, piangere
chiamando a testimoni i patrii Lari erano solo alcuni degli
espedienti usati dagli avvocati con il duplice scopo simultaneo di
suscitare assieme il clamore degli spettatori e la commozione dei
giudici, sperando così magari di vincere cause perse in partenza. Si
pensi all’incisione di Bartolomeo
Pinelli del
1819, raffigurante Coriolano
che,
condannato all’esilio dai Tribuni, mostra al popolo le cicatrici
delle ferite ricevute per la gloria della patria.
Alla
fine della Repubblica, esercitare la
carriera forense a Roma non era ancora una professione, ma piuttosto
una sorta di “servizio sociale con una funzione civile”,
a cui ci si dedicava senza poter percepire alcun onorario, come
stabilito dalla Lex
Cincia del
204 a.C.
Siccome
però anche all’epoca valeva il principio “fatta la legge,
trovato l’inganno”, era consuetudine ripagare gli sforzi
dell’avvocato con cibarie, doni materiali ed offerte di ogni
genere: ovviamente, tutto dipendeva dalla fama dell’avvocato,
poiché per un azzeccagarbugli qualunque potevano bastare un paio di
salsicce, una forma di cacio ed un’anfora di buon vino.
C’era
però anche l’altra faccia della medaglia. Se difendere una persona
considerata innocente era un preciso dovere di ogni cittadino (che
poi avrebbe potuto contare su un voto sicuro in caso di elezioni),
ciò poteva diventare anche una scocciatura infinita, come raccontato
dal poeta Orazio che,
durante le sue passeggiate lungo la Via Sacra, si sentiva
continuamente tirato per la toga ed assediato da postulanti che
richiedevano la sua perizia come avvocato difensore. L’unica
soluzione proposta da Orazio stesso era “di
svignarsela alla chetichella dalla porta di servizio”.
Gli
avvocati (dal
termine advocati,
ossia coloro che venivano chiamati a dare assistenza) non
potevano rappresentare l’accusato,
ma avevano il compito di consigliarlo e di pronunciare la sua arringa
di difesa. L’imputato, prima
di rivolgersi all’avvocato, ascoltava però il parere del iuris
consultus (il
giureconsulto, l’esperto di diritto), che aveva grande familiarità
delle leggi che avevano reso Roma la patria del Diritto. Tale
consultazione, che avveniva di solito nell’atrium o
nel tablinum della
domus del giureconsulto, si svolgeva alla presenza di un gran numero
di curiosi e spesso di studenti di Diritto, desiderosi di afferrare
concetti e sottigliezze, citazioni e giudizi per dispensarli a loro
volta anche ai propri amici e conoscenti.
C’era
quindi una netta distinzione fra l’attività del iuris
consultus,
che impostava le linee da seguire durante il processo, e dell’orator,
che interveniva durante le cause accanto al cliente.
Ovviamente, ciò non impedì a celebri oratori come Catone, Cicerone
o Quintiliano di essere al contempo fini parlatori e profondi
conoscitori del Diritto.
In
tal senso, fra attori smaliziati e parti in causa, il
processo diventava uno spettacolare evento per l’intera comunità,
in cui verità e menzogne, teatralità e simulazioni potevano
intrecciarsi per dare spazio a vere e proprie coreografie sceneggiate
a puntino, per la soddisfazione di un pubblico desideroso di esaltare
ogni propria morbosa fantasia.
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