“De Reditu”. Il viaggio e il ritorno nella letteratura tardo antica

L’opera si compone di due libri, ma il secondo si interrompe bruscamente. Nel 1973 vennero ritrovati due frammenti, i quali fanno cenno a un incontro tra Rutilio Namaziano e tale Marcellino in una località non ben individuata fra Luni e
Albingaunum, e l’altro riguarda proprio la ricostruzione della città di Albingaunum (Albenga). Nonostante l’opera sia giunta incompleta, è proprio l’esistenza del poemetto stesso a darci la certezza del successo e del raggiungimento della destinazione del viaggio da parte di Rutilio Namaziano.
L’autore è a noi noto appunto solo dal poema stesso. Appartenente a una famiglia aristocratica di origine gallica, Rutilio fece una lunga carriera politica a Roma: fu dapprima magister officiorum e in seguito praefectus Urbi (nel 413 o 414). Rutilio era forse legato a circoli culturali pagani e conservatori, di cui facevano parte anche numerosi esponenti dell’aristocrazia senatoria romana. Alcuni di questi personaggi sono citati nell’opera.
Il clima del periodo, seppur filtrato dalla visione dell’autore, è restituito dai versi del De Reditu. Il motivo del viaggio di ritorno di Rutilio Namaziano verso la terra natìa (probabilmente era originario di Tolosa o comunque di una cittadina nella Gallia Narbonense. La meta del viaggio non viene esplicitamente citata nel testo) è causato dall’arrivo dei Goti e dalle distruzioni da essi causate, che costringono l’autore ad abbandonare Roma per curare i suoi possedimenti devastati in Gallia. L’invasione gota investì infatti fra il 412 e il 414 i territori della Gallia, sotto la guida del re Ataulfo.
In base a tali dati e a poche sporadiche indicazioni fornite dai versi del poemetto è possibile stabile due probabili date del viaggio: la prima datazione proposta è quella di metà novembre – dicembre del 415; mentre la seconda cade negli ultimi giorni di ottobre del 417.
In entrambi i casi, il viaggio è effettuato durante il periodo del mare clausum, periodo che va da ottobre a marzo, in cui la navigazione è quasi del tutto ferma o sottocosta. L’imbarcazione utilizzata da Rutilio è una nave di piccole dimensioni, detta cymba.
Sicuramente, un viaggio via terra, attraverso la via Aurelia, sarebbe stato economicamente più dispendioso e faticoso (I, 37 – 38). Inoltre, a seguito del passaggio dei Goti alcune infrastrutture e stazioni di posta erano state danneggiate.
Materia del De Reditu sono propri i luoghi che Rutilio vede costeggiando le sponde del Tirreno e le tappe sulla terraferma, ma non mancano riflessioni e incontri con amici, mescolati da frequenti e raffinati richiami letterari e mitologici. L’autore infatti aveva ricevuto un istruzione elevata e colta, studiando letteratura, retorica, e diritto. Il suo bagaglio culturale riaffiora proprio dai versi, in cui vi sono richiami a Ovidio, Orazio, e Virgilio, ma anche nella scelta stessa del distico elegiaco, che rimanda ai toni e ai motivi delle elegie dell’esilio ovidiano. Per Rutilio la partenza da Roma è vissuta con nostalgia e rimpianto, tutta l’ammirazione e l’amore per l’Urbe sono espressi nel cosiddetto “inno a Roma”, che si colloca nel momento in cui Rutilio con un piccolo seguito lascia la città per giungere a Portus, punto di partenza del suo viaggio.
Nel poemetto non si fa mai riferimento al sacco subito dall’Urbe nel 410, ma Roma appare ancora gloriosa e come unica e vera capitale dell’Impero. Semmai, le preoccupazioni dell’autore sono incentrate su quella che lui percepisce come una decadenza dei costumi.
La lettura dell’opera doveva essere forse destinata a una cerchia ristretta e fidata di persone, probabilmente amici.
Il viaggio
Il De Reditu costituisce un importante documento per capire come doveva apparire la costa del Tirreno e le sue città nel V secolo d.C.
Dopo aver atteso per quindici giorni i venti favorevoli, Rutilio si imbarca da Portus e inizia finalmente il suo viaggio. Portus era un’installazione artificiale realizzata nel 46 d.C. per volontà dell’imperatore Claudio, e inaugurata da Nerone nel 64 d.C. Venne poi, per volontà di Traiano, costruito il bacino esagonale, collegato al mare e al Tevere, attraverso un sistema di canali. Portus venne costruito con l’intento di affiancare lo scalo di Ostia, ma proprio agli inizi del V secolo, il porto di Ostia declinò fino al suo totale blocco. Al contrario, Portus rimase in attività ancora fino al VI secolo e oltre.
Il territorio visto da Rutilio appare chiaramente diviso in due: a sud prevalgono le città abbandonate, con un intenso calo demografico, e le attività economiche ridotte al minimo; mentre a nord, da Falesia (Piombino) fino al Valdarno, fatta eccezione per Populonia, il tessuto urbano e rurale appare ancora solido. Il paesaggio costiero è ancora costellato di villae, dotate di infrastrutture, che però non dureranno ancora per molto, vedendo il loro definitivo tracollo già nella seconda metà del secolo successivo.
Agli inizi del V secolo d.C. inoltre vi sono alcuni sconvolgimenti ambientali e climatici, che portano all’insabbiamento delle foci dei fiumi e dei fondali dei porti.
La prima tappa del viaggio di Rutilio Namaziano è Centumcellae, l’attuale Civitavecchia, e unico centro con funzioni urbane, costruito come Portus per volontà di Traiano. Sulla costa laziale a nord di Portus, la maggior parte dei centri costieri (Alsium, Pyrgi, Castrum Novum) sono abbandonati e semidistrutti o occupati da “gran ville” (I, 224), le quali sorgono nelle vicinanze dell’Aurelia, o lungo assi viari che si ricongiungono a quel tracciato.
Nella seconda giornata, l’autore parla di Graviscae (Tarquinia) e Cosa (Ansedonia). Cosa in particolare appare deserta, e Rutilio (I, 285 – 292) riporta che la causa dell’abbandono della città è stata un’invasione di topi.
La terza giornata del viaggio conduce l”autore da Portus Herculis (Porto Ercole) fino a un approdo di fortuna poco più a nord della foce dell’Ombrone. Lungo questo tratto di costa, ancora nel V e in qualche caso fino al secolo successivo, si affacciano ville marittime sul mare. Ma l’attenzione di Rutilio è catturata dal paesaggio che si apre davanti ai suoi occhi con la vista del Monte Argentario e l’Isola del Giglio, lodata con parole di gratitudine in quanto aveva fornito rifugio a molti Romani “fuggiti dall’Urbe straziata” (I, 331). Alla fine della giornata, Rutilio e il suo equipaggio sono costretti a fermarsi su una spiaggia deserta. Infatti, i marinai “avidi di avanzare” non si erano voluti fermare nel porto fluviale alla foce dell’Ombrone.
La quarta e breve giornata, si apre con la descrizione dell’Isola d’Elba, e l’arrivo a Falesia (Piombino). La velocità dello spostamento è dovuta al fatto che Rutilio ha intenzione di presenziare alla festa in onore del dio Osiride, che non può essere svolta dopo il tramonto.
Sempre nella stessa giornata, troviamo nei versi una forte invettiva dell’autore contro il comportamento del locandiere ebreo. Più avanti nel testo, un’altra critica verrà mossa ai dei monaci cristiani, stanziati sull’isola di Capraia (I, 439 – 446). Non va dimentico infatti che il De Reditu è pregno di un’ideologia che rimanda al paganesimo più tradizionalista. La comunità cristiana dell’isola potrebbe addirittura risalire al 303 d.C., ed è ricordata da fonti scritte già nel IV secolo, in accordo anche con evidenze archeologiche.
I versi che l’autore dedica a Populonia (I, 409 – 414) hanno un precedente letterario in Strabone (5.2.6), che già all’epoca del Principato descriveva una città in pieno stato di abbandono, fatta eccezione per i luoghi di culto e l’area del porto.
Nel sesto giorno di navigazione, Rutilio giunge nel porto di Vada Volaterrana. Qui il tono della narrazione sembra cambiare. I territori di Volterra e Pisa conservano ancora la loro vivacità. La volontà di rincontrare l’amico Protadio, porta l’autore nel cuore della città di Pisa, dove all’interno del foro ritrova commosso la statua del padre Lacanio, governatore di Tuscia e Umbria.
I pochi versi superstiti del secondo libro, ci conducono all’ “ultima” tappa del viaggio di Rutilio Namaziano, ossia Luna (Luni). La città si sta risollevando da un evento traumatico, probabilmente un terremoto, che alla fine del IV secolo l’aveva lasciata semidistrutta.

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