Il cibo dei prigionieri

Secondo la Convenzione dell’Aia firmata nel 1907, il prigioniero doveva ricevere una razione simile a quella che il soldato del paese che lo aveva catturato riceveva in tempo di pace. Più o meno corrispondeva a 250 grammi di pane, 100 di pasta, 80 di carne, oltre frutta, verdura e caffè. Il rispetto di questa norma non fu sempre ottemperato, non sempre in maniera totale. Tra i soldati catturati, i più penalizzati furono quelli italiani perché solo con difficoltà riuscirono a integrare il rancio di prigionia con gli aiuti provenienti dalle famiglie, almeno quelle che se lo potevano permette. Esemplare di questa situazione è la corrispondenza tra Iginio Marioni e la moglie Elisa Fiorin. Catturato nel 1916, Iginio trascorse la sua prigionia nel campo di Mauthausen in Austria (tristemente famoso per l’uso fatto dai nazisti per attuare lo sterminio degli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale). Elisa, appena poté, spedì pacchi con alimenti utilizzando i Comitati di Assistenza ai Prigionieri della Croce Rossa Italiana che spedivano alla Croce Rossa Svizzera che a sua volta li girava alla Croce Rossa Austriaca, che avrebbe dovuto consegnarli integri ai soldati prigionieri. Soprattutto dal 1917 in poi i pacchi furono aperti e razziati dagli austriaci, che sempre di più soffrivano le ristrettezze del blocco navale. Elisa aveva un bel daffare a elencare nelle lettere al marito il contenuto dei pacchi (pane, formaggio, gallette, riso, addirittura dado Maggi, cioccolata, salami, ma anche sigari), le risposte del marito tardavano o non arrivavano, oppure non corrispondevano all’elenco. Per disperazione la moglie spedì “un po’ di farina che tu possa farti la polenta”. Iginio tornò dalla prigionia a guerra finita, Elisa, profuga in Basilicata, poche settimane prima del ritorno del marito morì di spagnola (un’epidemia influenzale che fece milioni di morti in tutto il mondo).
Laboratorio di storia – Università degli studi Cà Foscari Venezia -

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