Quel generalissimo con il cuore di ferro

Generalissimo? Mentre i suoi soldati sentivano la cancrena che entrava loro nei piedi e saliva per le gambe, lui scriveva ai familiari di aver scalato il Matajur, “con Lello”, da dove “si gode una magnifica vista su tutto il campo di battaglia. Escursionista di guerra. Gli uomini dei reparti, affondati nel fango, anche fino alle ascelle, non avevano il diritto di muoversi ma lui andava ad Aquileia per “ pasciarsi delle bellezze architettoniche della città”: “Pranzo con Mambretti e, dopo colazione, l'ho battuto a bigliardo”. In gita anche a Feltre, a Venezia, “nella simpatica villa del senatore Facheris, in posizione incantevole”. Turista d'assalto
Alla viglia di Caporetto, in previsione di un'offensiva degli austriaci, ai reparti italiani vennero ritirate le licenze, sospesi i permessi e raddoppiati i turni di servizio. Lui, dopo aver dato disposizioni ferree perchè nessuno si muovesse dal suo posto, partì per Vicenza in vacanza. Vacanza “breve”, s'intende, dalla quale tornò giusto in tempo per assistere al disastro del suo esercito ma solo perchè il tempo si era gustato: pioveva e non si poteva godere appieno del tempo libero. Che ferie sarebbero state quelle che obbligavano a rimanere al chiuso di un hotel...?
Generalissimo? Non conosceva il valore della fatica (degli altri). Riteneva che il sacrificio non fosse mai sufficiente (quello degli altri). E non s'impressionava del sangue che colorava l'Isonzo e delle cataste di morti che si ammassavano nelle retrovie (perchè i cadaveri erano degli altri). Il 28 agosto 1916 lasciò che un'offensiva terminasse per sfinimento. Era costata 36 mila morti, 96 mila feriti e 25 mila dispersi. Per avanzare di quattro chilometri e conquistare qualche ettaro di pietraia erano stati messi fuori combattimento 150 mila poveri diavoli.
Con largo abuso di ipocrisia, per decenni, la maggior parte degli storici l'ha trattato con i guanti bianchi, dicendo e non dicendo – come è suo costume ., alludendo, dove non era proprio possibile farne a meno, ma in modo che i resoconti non risultassero troppo comprensibili, se non per chi, davvero, addetto ai lavori. Nelle pagine dei libri, Luigi Cadorna risultava un uomo tutto d'un pezzo, ligio al dovere e allo spirito di sacrificio. Esagerazioni retoriche. La verità stava nei racconti dei reduci e nei loro diari dove appariva, piuttosto, come un forsennato con poche idee in testa, per lo più sbagliate e proprio a quelle cocciutamente affezionato.
Cadorna fù il vero e il principale responsabile di quell'immensa carneficina di “abili e arruolati”, fino ai “ragazzi del 99”. Un algido con tante stellette di latta al posto dei sentimenti.
Cadorna, nelle sue memorie, dichiarò di aver rimosso 170 generali. In realtà furono 217. Le sostituzioni procedettero a ritmi industriali. Il “90° fanteria” dal maggio 1915 all'ottobre 1917, cambiò 17 comandanti – record – ma, in questa speciale classifica dei trombati, anche il “114°” fece la sua parte con tredici sostituzioni al vertice in poco più di due anni, quasi un cambio ogni due mesi.
Le grandi e le medie unità furono dirette da 407 comandanti che vennero mandati a sostituirsi a vicenda in una girandola di spostamenti e di punizioni. Nelle sede dello Stato Maggiore, a Udine, la tabella con gli organici dei reparti portava i nomi dei comandanti scritti a matita in modo che fosse facile cancellarli con la gomma a scrivere il nome del sostituto, sempre a matita, in previsione di cancellarlo.
Proprio per evitare l'umiliazione del trasferimento che diventava una macchia negativa nel curriculum professionale, gli ufficiali presero a comportarsi con untuosa sudditanza. Cadorna ordinava l'attacco? E i comandanti eseguivano, anche se il piano appariva lacunoso, disorganico e insufficiente. Qualcuno sapeva che l'assalto non avrebbe portato risultati ma, prima della vita dei suoi uomini, contava la propria personale carriera. Dunque: avanti...pretendendo che i soldati si facessero ammazzare, con la noncuranza che si riservava alle questioni di secondaria importanza. I cadaveri si accatastavano in pile di corpi informi e di facce sfigurate. Più cresceva il grado gerarchico nell'esercito e meno avvenivano i rispetto per chi stava alle loro dipendenze.
Bersaglieri e fantaccini, “l'attacco frontale”, dovevano personalmente realizzarlo. Anche se il nemico non si appiattiva e non tirava alto, come stava scritto sul manuale d'istruzione. In quella gente, il coraggio venne iniettato artificialmente con massicce dosi di alcol. Quando arrivavano i rifornimenti di grappa e di cognac significava che l'attacco era imminente. E quando i fiaschi non bastarono più, entrarono in azione i plotoni di esecuzione che, in fretta e, spesso, senza processo, mandavano al muro che appariva titubante nel correre e farsi ammazzare. Dovevano essere esecuzioni “esemplari”, in modo che servissero ad esempio e da deterrente. A eseguire la sentenza venivano chiamati i militari del paese della vittima. Era obbligatorio trasmettere al sindaco il nome del fucilato, in modo che anche la famiglia, nella vita civile, fosse colpita da un marchio d'infamia.
Cadorna si comportò come un dittatore, persino indispettito che il regime di autorità che era riuscito ad instaurare al fronte non trovasse corrispondenza nel governo, per le questioni di politica interna. Sconfitto sull'Isonzo, contro nemici veri, Cadorna pensava di rifarsi distruggendo quelli presunti che, secondo lui – sobillando le piazze e sobillando con le sue scelte militari -, compromettevano la solidità morale della nazione. Il governo, gli sembrava tintinnante, troppo democratico e, in ultima analisi, debole. Un governicchio persino un po' molle... Cadorna ne avrebbe auspicato uno più ringhioso. Il generalissimo seguiva gli sviluppi della politica nazionale attraverso un ufficio alle sue dipendenze la cui direzione stava, a Roma, in via Nazionale 75. A dirigerlo il colonnello Giovanni Garruccio. In teoria avrebbe dovuto organizzare lo spionaggio e il controspionaggio militare. “In realtà – denunciò il deputato socialista Carlo Treves – estende i suoi controlli alle opinioni politiche e alla condotta dei cittadini. Costruisce le sue fiches, agendo in piena indipendenza da ogni potere governativo.
Si trattava di una vera e propria polizia parallela che disponeva di più fondi di quella normale e che, per qualunque necessità, poteva contare sulle strutture dell'esercito, pronte a fornire mezzi e personale. L'ufficio si avvaleva dei canali più torbidi per carpire notizie e indiscrezioni, senza fermarsi davanti a nulla. Il comando di Udine doveva essere informato dettagliatamente su tutto. Per esempio, Garruccio segnalò la pericolosità di Vittorio Emanuele Orlando. “Bisognerebbe avere qualcuno – suggerì – che potesse sorvegliarlo nel suo ministero”. A proposito di servizi segreti “deviati”, paradossale che il capo di Stato Maggiore dell'esercito, impegnato in guerra, sentisse il bisogno di spiare il ministro degli Interni del suo Paese.
A questo zuccone, con la testa “nel più duro granito del Verbano tagliata e scalpellata”, vennero consegnati il destino e la fortuna dell'Italia.
Una cronaca feroce della Prima guerra mondiale – Grande Guerra, piccoli generali di Lorenzo Del Boca – UTET OTTOBRE 2020 -

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