Piave. 24 maggio 1915.

Il fiume scorre lento, come se non sapesse. O meglio, come se fingesse di non sapere che oggi comincia una guerra.
La sua voce è la stessa di ieri, placida, sommessa, ma stamattina pare che anche l’acqua trattenga il fiato.
Sono qui, con il fucile in spalla e le gambe che tremano. Non so se per la notte umida o per tutto ciò che sento salire da dentro.
Il tenente ha detto che siamo il confine, che da oggi il Piave non è più solo un fiume: è una linea viva e che deve resistere. Ma io vedo solo nebbia e sagome lontane tra i salici.
Abbiamo marciato a lungo. Il cielo era ancora nero quando siamo arrivati. Ora si schiarisce piano, come se anche il sole temesse di sorgere.
Ho vent’anni, compiuti da poco. Fino a ieri lavoravo la terra con mio padre. Adesso tengo stretto un fucile e mi hanno detto che, se serve, devo sparare.
C’è un compagno accanto a me. Ha in tasca un biglietto per la sorella e una medaglietta di sant’Antonio che bacia ogni volta che il vento si alza. Mi chiede se ho paura. Gli rispondo che no, ma è una bugia grossa come il Monte Grappa.
Il Piave ci guarda, scorre impassibile, testimone antico di troppe storie. Oggi ne comincia un’altra, la nostra.
Nessuno sa quanto durerà. Ma dentro di me qualcosa è già cambiato. È come se la giovinezza fosse rimasta dall’altra parte del fiume, e ora fossimo già vecchi di un giorno, un giorno che peserà per sempre.


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