La grande guerra in alta montagna

Alle ventidue il freddo era aumentato di molto. 
Il vento s’era fatto teso, costante, spirava da nord ed ostacolava il cammino. 
Gli uomini avevano alzato i baveri dei cappotti e abbassato tutta l’ala dei cappelli alpini, ma le dita di vento passavano sotto i passamontagna e graffiavano ogni centimetro di pelle del viso e del collo.
Sai che temperatura abbiamo? Chiese Serri al preciso Perbellini che camminava col termometro appeso a un bottone del cappotto.
Un quarto d’ora fa, trentotto sottozero – rispose l’adolescente a labbra strette. 
Sopra ogni cosa, la prolungata esposizione agli estremi rigori del freddo moltiplicava le sofferenze, riunendole in una sola sensazione che sussurrava agli orecchi dei soldati allucinati presagi di prossima, inevitabile fine. 
Avevano camminato e vegliato, s’erano affidati follemente alla notte. Questa aveva impresso il suo sigillo, li aveva resti irriconoscibili: sopra un basamento di ghiaccio che si era accumulato sulle spalle e sul petto, dal pertugio del passamontagna s’intravvedevano occhi gonfi e arrossati, sporgevano sconosciuti nasi gialli e cerei o lividi, ricoperti di croste rossigne;  s’affacciavano tumefatte e orrende labbra spaccate e barbe e baffi da cui si dipartivano numerosi pendagli mobili, o congiunti all’estremo con il ghiaccio che inspessiva il cappotto: in questo caso l’alpino incapsulato in una rigida impalcatura che gli saliva dal petto al mento non poteva articolare il capo e rimaneva impastoiato in una tormentosa barbuta di ghiaccio”. 
Testo di Giulio Bedeschi

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