Il sacro suolo violato IV lezione

Per chi rimase nei territori invasi si aprì un periodo di privazioni e violenze. L’anno dell’occupazione si rivelò durissimo: la popolazione friulana e veneta dovette convivere con un occupante affamato e con un territorio trasformato in retrovia. I civili subirono deportazioni, rappresaglie, depredazioni, violenze sommarie e stupri. Il momento più drammatico fu vissuto nel novembre 1917. Il saccheggio ebbe inizio con il passaggio degli sbandati italiani in rotta verso il Piave, affamati e desiderosi di rompere l’opprimente disciplina cadorniana. Furti vennero commessi anche dai civili rimasti a danno dei beni incustoditi degli esuli. Giunsero, poi, le armate nemiche, inaugurando la prima e più cruenta fase dell’occupazione, non per nulla definita dalla Reale commissione «i giorni del terrore». Gli austro-tedeschi, che già nel corso del 1917 soffrivano la penuria di approvvigionamenti, ricevettero l’ordine di rifornirsi sul posto. I soldati perquisivano le case coi fucili spianati, saccheggiando e stuprando. Gli abusi sessuali sulle donne vennero solitamente compiuti da gruppi di soldati, composti da 15-20 soldati spesso ubriachi, nei casolari più isolati di campagne: vittime ne furono giovani e anziane. Si verificarono uccisioni som
marie di civili come a San Vito del Tagliamento dove, stando alla testimonianza di un’anziana, i tedeschi impiccarono sommariamente tre contadini, colpevoli di aver ubbidito all’ordine del padrone, scappato nei primi giorni dell’invasione, di distruggere tutte le botti della cantina per non farle cadere in mano nemica. I comandanti austro-tedeschi ebbero difficoltà a trattenere gli uomini da «simili orge» dove il vino scorreva a fiumi: Troppo a lungo centinaia di migliaia di uomini hanno sofferto sul Carso la fame e la sete. Adesso siamo giunti in un paese che offre pane e vino in quantità e che deve ripagarci di ogni pena. Infatti, In una cittadina, credo Cervignano, due soldati sono annegati nel vino. Erano penetrati in una cantina e avevano bucato a fucilate parecchie botti. Il vino era sgorgato abbondantemente e i due uomini, che erano caduti a terra ubriachi, erano morti nel rosso liquido.
Nella fase successiva all’invasione si instaurò una calma apparente, dettata dal terrore della popolazione e dalla disciplina militare imposta dagli occupanti. Le regioni invase vennero divise in distretti dove, salvo la zona del fronte, sorsero numerose amministrazioni civili nominate dagli occupanti e tacciate dagli esuli di collaborazionismo.81 In questi governi locali, assieme ai pochi membri rimasti delle burocrazie civili, ebbero un ruolo cardine i parroci, quasi ovunque assurti a guida delle piccole comunità venete e friulane. Non pochi di questi sacerdoti, per la loro scelta di non opporsi in maniera netta all’occupante, vennero accusati di essere “austricanti”, anche in virtù del loro astio per lo Stato laico-liberale. Alcuni episodi, come a Pradamano dove il parroco suonò la campana per avvisare gli austro-tedeschi che gli italiani si erano ritirati, farebbero ritenere un’effettiva austrofilia di alcuni curati. Il passaggio del controllo militare dal Comando germanico a quello austro-ungarico fece mutare la situazione. Lo Stato maggiore asburgico si preoccupò di rinsaldare la fiducia dei civili negli occupanti, invitando soprattutto gli ufficiali a tenere un comportamento “illuminato”: normalizzare l’area invasa era necessario ad assicurare la continuità dei lavori agricoli. Si doveva limitare le rappresaglie contro i civili, intervenendo solamente nei confronti di persone sorprese in atteggiamenti sovversivi. Nelle popolazioni venete e friulane rimasero contrastanti percezioni dei tedeschi e degli austro-ungarici. Seppur entrambi invasori, ai primi era riconosciuto un primato di brutalità e autoritarismo. Di contro, i civili provavano sentimenti più pietosi nei confronti dei soldati asburgici che apparivano laceri, stanchi e miserabili. Effettivamente, gli storici ritengono che col passaggio del controllo dei territori occupati dal Comando tedesco a quello austriaco, gli atti di violenza e soprusi diminuirono. Il fatto è testimoniato anche nelle memorie degli abitanti: I primi arrivati furono i germanici, esseri superbi, crudeli, devastatori, facevano ogni sorta di male, si diedero subito con pazza gioia al saccheggio di guerra, compiuto in un modo sì scandaloso e crudele, che credo i demoni dell’inferno, non avrebbero fatto di più».
Le direttive dello Stato maggiore asburgico furono parzialmente rispettate dagli ufficiali e dai soldati, che in molte occasioni tennero un comportamento violento e provocatorio nei confronti dei civili inermi.
Le razzie, così come gli stupri, continuarono a verificarsi. L’instaurazione del regime di occupazione austro-ungarico non arrestò il saccheggio, rendendo la spoliazione delle terre invase intensiva e legalizzata. Incessanti furono le requisizioni dei prodotti agricoli, attrezzi e abiti. Le materie prime e i macchinari industriali vennero trasferiti verso l’entroterra dell’impero. Le donne e i minori furono reimpiegati in lavori militari, mentre gli uomini vennero deportati per lavorare all’interno dell’impero. Neppure le campane delle chiese furono risparmiate: tirate giù dai campanili, furono fuse per realizzare cannoni. Agli occupanti, le comunità del Veneto e del Friuli risposero, grazie anche alla rassicurante presenza dei parroci, con una resistenza fatta non di tangibili segni di ribellione, ma strisciante e ostinata, che si risolveva soprattutto nel nascondere e ridistribuire le risorse alimentari. Le comunità subirono un netto impoverimento visto che il Veneto e il Friuli si trovarono a dover foraggiare circa un milione di soldati dell’Imperial-regio esercito. Le regioni invase vennero coinvolte nell’emergenza alimentare che riguardò le terre dell’Impero. Venne a mancare persino la farina di granoturco, tanto che la polenta veniva confezionata con surrogati come bucce di patate e sorgo rosso. I civili dovettero consumare per sopravvivere ortaggi, erbe selvatiche, foglie d’alberi e farine ricavate dai gusci secchi di fagioli. La situazione era anche più grave nelle zone montane. Il controllo militare fu sì più blando ma l’emergenza alimentare assunse le caratteristiche della carestia. Drammatica era la situazione dei centri urbani. Le città occupate, spopolate e trasformate in retrovia – essendo snodi vitali delle vie di comunicazioni –, furono flagellate da continue epidemie infettive, anche a causa delle precarie situazioni igienico sanitarie. Le difficoltà di rifornimento fecero fiorire il commercio abusivo dei generi di prima necessità. Al termine del conflitto, la Reale commissione accertò 24.597 morti per cause variamente connesse all’occupazione (insufficienza di di cure sanitarie, fame, ecc.), mentre furono accertate 553 vittime per atti crudeltà. Nei territori invasi, i tassi di mortalità toccarono il 45 per mille, contro una media prebellica del 18 per mille.
Il 9 novembre 1917, Diaz assunse il comando del Regio Esercito. Lo stesso giorno, la ritirata al di là del Piave, era stata completata: tutti i ponti furono fatti saltare. Il nuovo capo di Stato maggiore, tuttavia, doveva immediatamente fronteggiare la nuova offensiva austro-tedesca diretta contro il Piave. Diaz, appena nominato, aveva rassicurato i comandi dell’Intesa che l’esercito italiano avrebbe continuato a combattere anche sino alla Sicilia: vi era la consapevolezza che un’ulteriore ritirata e la possibile invasione della pianura padana avrebbe rappresentato il collasso del Paese. Per arginare il nemico, venne deciso di inviare al fronte un’armata composta da reclute diciottenni, la classe del 1899. Lo Stato maggiore italiano poteva anche contare su un contingente Alleato, forte di undici divisioni, da tenere come riserva. Infatti, gli anglofrancesi avevano chiesto che queste unità non fossero poste sul fronte per paura che i soldati italiani “caporettisti” infettassero gli uomini col loro disfattismo. Gli Imperi centrali attaccarono la linea del Piave il 13 novembre, ma la piena del fiume si oppose come barriera naturale, obbligandoli a concentrare il grosso degli sforzi più a nord, nel massiccio del Grappa, spostando uomini e artiglierie. Le truppe austrotedesche erano però logorate da tre settimane di intensi combattimenti e mostravano i segni della stanchezza. I fanti italiani, poi, opposero una strenua resistenza e una ritrovata combattività che sorprese gli stessi comandanti italiani. Gli scontri furono furenti ma il 26 novembre gli austro-tedeschi dovettero sospendere l’offensiva sul Grappa. Si tornava alla guerra di posizione, con gli italiani che adesso dovevano difendere la nazione dall’invasione. In dicembre, ulteriori tentativi di creare una testa di ponte sulla riva sinistra del Piave fallirono. Nell’anno successivo, l’Italia poté sostituire gli ingenti materiali perduti, grazie al supporto economico dell’Intesa, e ricostituire moralmente l’esercito. Per la Germania e l’Austria-Ungheria, Caporetto si rivelò una vittoria “estetica” – riprendendo una definizione dello storico Holger H. Herwig. Una vittoria spettacolare, una delle più nette dell’intera guerra, con un’avanzata di più di cento chilometri in due settimane. Un bottino straordinario andò ad alleviare la penuria di cibo e materiali dell’Impero. Ma si rivelò una gioia momentanea. La mancata vittoria risolutiva sul Piave, nel novembre 1917, rimandò di un anno la risoluzione della guerra. Caporetto occultò i crescenti problemi della Duplice monarchia, che iniziava a risentire delle tensioni etniche, della crisi socioeconomica e della domanda di pace dei popoli asburgici. Nella prima metà del 1918, l’Impero tentò di spezzare la resistenza italiana, esaurendo le ultime forze militari e morali rimaste.
Università popolare di Venezia, 1917 Da Caporetto al Piave: soldati, profughi, invasi


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