L' acquedotto Appio

L’acquedotto Appio fu il primo degli undici acquedotti costruiti durante la storia di Roma, e venne realizzato  nel 312 a.C., per mano del Censore, Gaio Plauzio Venoce, il quale individuò la sorgente nei pressi di una via secondaria della via Prenestina, tuttavia il suo collega di magistratura, Appio Claudio Cieco, riuscendo a rimanere in carica oltre la scadenza del suo collaboratore di pari grado, si attribuì il merito e il nome dell’infrastruttura.  L’acquedotto Appio venne restaurato per ben tre volte nel corso della storia,  la prima nel 144 a.C., in occasione della costruzione dell’acquedotto dell’Aqua Marcia, la seconda volta nel 33 a.C., quando Marco Vipsanio Agrippa concentrò sotto il suo controllo l’intero apparato idrico della città, mentre l’ultima fra l’11 e il 4 a.C., per opera di Ottaviano Augusto. Proprio durante quest’ultimo intervento, venne costruito in parallelo un canale sotterraneo al condotto principale che riceveva le acque da sorgenti secondarie, poste verso il sesto miglio della via Prenestina, unendosi poi all’acquedotto principale dopo poco più di nove chilometri, in una zona denominata “ad gemellos”, nei pressi dell’attuale viale Manzoni. aumentandone notevolmente la portata che in tal modo raggiungeva quasi 76.000 metri cubi, pari a circa 876 litri d’acqua al secondo. 
L’esatta posizione della sorgente d’origine è ancora oggi fonte di dibattito, e probabilmente risulta prosciugata dal passare del tempo, tuttavia, lo storico e archeologo italiano, Antonio Nibby, vissuto fra la fine del 700 e gli inizi dell’800, affermava di averne seguito il percorso da Tor Tre Teste e di aver trovato un campo pieno di sorgenti nei pressi del Casale della Rustica. L’intero percorso, che correva sottoterra a 15 metri di profondità, misurava circa 16,5 chilometri, avendo una portata giornaliera di circa 34.000 metri cubi di acqua, anche del percorso che correva fuori città, non è ancora stato possibile rinvenire alcun reperto. Presumibilmente il percorso dell’acquedotto Appio correva parallelo alla via Prenestina, entrando a Roma in una zona conosciuta come “ad spem veterem”, nei pressi di Porta Maggiore, dopo di che, sempre per vie sotterranee, attraversava tutto il colle Celio, per poi trovare la luce nei pressi dell’attuale piazza di Porta Capena, superando l’avvallamento  di circa 90 metri che separa il Celio dall’Aventino. Proprio questo tratto, l’unico ad essere allo scoperto, si serviva delle strutture di Porta Capena, per poi tornare sotterraneo per l’ultimo settore che terminava presso Porta Trigemina, nell’area attuale della chiesa di S.Maria in Cosmedin. In questo luogo, circa venti strutture, chiamate castelli, provvedevano ad una prima suddivisione delle acque, prima della successiva erogazione idrica delle utenze pubbliche e dell’area portuale. Purtroppo dai pochi resti che sono giunti fino ai giorni nostri si evince che nonostante i grandi sforzi fatti per ottimizzarne le forniture, l’acquedotto Appio non garantisse una buona tenuta stagna, a causa della lunga serie di blocchi di tufo traforati, (circa 30cm di diametro), e interconnessi fra loro e alloggiati in un cunicolo a sezione cuadrata con tre lati in muratura e una copertura a volta.
L’acquedotto Appio forniva acqua alle zone del Foro Romano, al Circo Massimo, alle Terme di Caracalla, alla zona di Trastevere, al teatro di Pompeo e al Pantheon, venendo nella tradizione letteraria, più volte confuso con l’Anio Novus o con l’Aqua Claudia. Il suo percorso nelle profondità della terra non permise, specialmente nei primi anni della sua costruzione, durante le guerre sannitiche, che i nemici potessero colpire la città sabotandolo, ignorando invece come secoli dopo potesse essere stato bloccato dai Goti, visto che il suo percorso non era noto, probabilmente i barbari riempirono involontariamente di terra uno dei suoi pozzi di ricezione.

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