In quell’autunno nero - Lezione I
All’inizio
di settembre 1917, a Vienna serpeggiava il pessimismo, nonostante
l’esercito avesse retto all’ennesima spallata italiana
sull’Isonzo. Il generale austro-ungarico Svetozar Borojević von
Bojna, comandante della zona carsica, era convinto che i soldati
asburgici non avrebbero resistito ulteriormente. L’Austria-Ungheria
domandò all’alleato tedesco rinforzi per scagliare un’offensiva
volta a alleggerire la pressione nemica. Lo Stato maggiore germanico,
consapevole dei rischi di un crollo dell’Impero asburgico, inviò
sul fronte meridionale la neocostituita XIV Armata, comandata dal
generale Otto von Below: sette divisioni tedesche e otto austriache,
composte in larga parte da corpi di élite. L’offensiva fu prevista
nella zona della Conca di Plezzo e di Tolmino, presidiata dalla II
Armata italiana, con l’obbiettivo di respingere gli italiani al di
là dell’altopiano della Bainsizza. Gli austro-tedeschi intendevano
usare una tattica sperimentale, basata sull’effetto sorpresa: il
bombardamento delle artiglierie sarebbe stato breve ma intenso,
mentre colonne d’assalto si sarebbero infiltrate nelle retrovie
italiane, attraverso i punti deboli delle prime linee. La
preparazione dell’attacco avvenne nel massimo segreto, spostando
mezzi e uomini di notte, facendo persino indossare ai militari
tedeschi le divise austro-ungariche: i soldati germanici infondevano
ovunque un grande timore. Di contro, il comandante del Regio
Esercito, Luigi Cadorna, riteneva improbabile un’offensiva
austro-tedesca e non aveva approntato adeguate contromisure
difensive. L’offensiva scattò alle ore 2 del 24 ottobre 1917. Gli
austro-tedeschi iniziarono l’intenso bombardamento delle linee
italiane. Un giovane Erwin Rommel, vicecomandante
di un battaglione di Alpenjäger, raccontò nelle sue memorie
Fanteria all’attacco: Ben
presto guizzano le fiammate di oltre mille bocche da fuoco ai due
lati di Tolmino. Nel terreno nemico rintronano in continuazione gli
scoppi dei proiettili. Le montagne rimandano moltiplicato il fragore
del fuoco tambureggiante, simile a una spaventosa tempesta. Pieni di
meraviglia assistiamo all’incredibile attacco.
Il
cannoneggiamento fu breve, ma danneggiò le batterie di cannoni
italiane e distrusse le linee di comunicazione. Il gas fosgene
sgombrò d’ogni resistenza il fondovalle, uccidendo silenziosamente
i difensori italiani. Non pochi fanti, colti nel sonno, furono uccisi
dal fosgene senza neanche riuscire indossare la maschera, come
raccontò l’ufficiale austriaco Fritz Weber: Laggiù,
in ampi e muniti ricoveri e in caverne, giacciono circa ottocento
uomini. Tutti morti. Alcuni pochi, raggiunti nella fuga, sono caduti
al suolo, con la faccia verso terra. Ma i più sono raggomitolati
vicino alle pareti dei ricoveri, il fucile tra le ginocchia, la
divisa e l’armamento intatti. […] Non hanno neppure tentato di
usare la maschera. Devono essere morti, senza neppure rendersi conto
di quanto stava succedendo.
Indisturbati,
i corpi d’élite tedeschi, sfruttando la fitta nebbia e la
confusione italiana, si infiltrarono in profondità nel fondovalle –
fino a 25 km –, raggiungendo le retrovie del Regio Esercito e
isolando gli avamposti sulle alture. Diversi reparti italiani –
sorpresi dall’attacco, isolati nelle comunicazioni e non addestrati
per affrontare situazioni impreviste – caddero nel panico e furono
circondati dal nemico:
«Tutti sono come paralizzati dalla nostra improvvisa comparsa».
Trincee
di prima linea furono occupate prima che i fanti fossero schierati a
difenderle.7 Scrisse Remo Salomoni, nelle sue memorie:
Lo stupore fu gelido, generale, doloroso. Il nemico aveva schierato
in maniera irridente una linea di cavalleggeri: eleganti e spavaldi
lancieri d’altri tempi, i quali però precedevano ben altra
fanteria tedesca, terribilmente e modernamente attrezzata.
L’accerchiamento
obbligò molti soldati italiani alla resa:
Improvvisamente, giungono alle nostre spalle dalle retrovie i reparti
nemici che riuscirono dopo una cruenta lotta a passare a Col di
Bainsizza e ci troviamo in trappola, accerchiati! Da truppe
rifugiatesi in trincea dalla seconda linea, apprendiamo che tutti i
nostri comandi sono già prigionieri del nemico. Siamo chiusi in un
cerchio di ferro che va sempre più stringendosi attorno a noi.
Reparti furono fatti prigionieri mentre erano ancora nei ricoveri:
giungono due Tedeschi nella bocca della galleria col fucile spianato
intimandoci la resa. Alcuni
soldati italianini
vennero catturati «durante le loro abluzioni mattutine».11 La
risposta italiana, anche dove riuscì a opporre una tenace
resistenza, fu disorganizzata e non coordinata. I posti di comando,
isolati per la distruzione delle linee di comunicazione, non
compresero la gravità della situazione. Il generale Capello,
comandante della II Armata, non era in servizio perché ricoverato a
causa di una nefrite. L’artiglieria italiana, rimasta senza ordini,
tacque e molti cannoni furono catturati senza neanche sparare un
colpo. Alle ore 16, Caporetto, fulcro dell’offensiva, era stata
occupata da unità austro-tedesche. Le alture lungo l’Isonzo, a
prezzo di una dura battaglia, erano state espugnate. I soldati
italiani, scampati all’avanzata nemica, sbandarono verso le
retrovie.12 La nuova tattica austrotedesca conseguì in due giorni
gli obbiettivi prefissati e minacciava l’alto Tagliamento. Al
termine della mattina del 24, l’alto comando italiano era ignaro di
quanto stesse avvenendo. Il colonnello Angelo Gatti, stretto
collaboratore di Cadorna, scrisse: Nella
giornata, nulla di nuovo.
Solo
alle ore 22 giunsero a Cadorna le notizie del disastro militare. Il
generalissimo reagì inviando alcune brigate per imbastire una
battaglia d’arresto ma queste truppe di rincalzo vennero investite
dalla fiumana di uomini e mezzi in ritirata, andando perdute. Cadorna
soltanto nella notte tra il 26 e il 27 ottobre proclamò la ritirata
sul Tagliamento, con il subitaneo sgombero della Carnia e del
Cadore.14 Di contro, Capello aveva proposto di ritirarsi sul Piave
per avere più tempo per riorganizzare le difese. L’avanzata
austro-tedesca era, infatti, eccezionale: il 27 le avanguardie
germaniche entravano a Cividale e, il giorno successivo, a Udine,
fino allora sede del Comando italiano che, intanto, aveva riparato a
Treviso. L’evacuazione dell’area carsica-isontina prevedeva il
mantenimento di tre ponti sul Tagliamento, per permettere alla II e
alla III Armata di ripiegare. Il piano di Cadorna, però, dava la
priorità alla III Armata, cui furono assegnati due ponti, mentre la
II Armata – la più numerosa, 20 divisioni per circa 670.000 uomini
– fu ritenuta colpevole della sconfitta e in disfacimento, quindi
sacrificabile. Sulle strade disponibili per il Tagliamento, si
ammassarono circa un milione di militari, uomini della II Armata e
unità delle retrovie, e 400.000 profughi con carri, masserizie e
animali. Fu una feroce lotta per sopravanzare l’altro e sfuggire
alla guerra. Una rotta disordinata, su strade ricoperte di fango
grosso, pesante, che ci faceva camminare a gran fatica. L’immagine
della rotta evoca sporcizia e morte. Nei fossi ai bordi del selciato,
imputridivano i cavalli e le bestie morte, che spesso gli uomini
avevano abbattuto per magari
levarne solo una fetta di carne, cucinata con una porta scardinata
dalla casa più vicina.
Le colonne di fuggiaschi rimasero ferme per ore negli ingorghi. La
necessità di sopravvivere, però, non permetteva di fermarsi. I
fanti marciarono giorno e notte; erano come “cavalli che dormono in
piedi”. Ogni
tanto, pur seguitando e camminando automaticamente, mi addormentavo,
facevo qualche passo barcollando, perdevo l’equilibrio e mi
svegliano appena in tempo a riprendermi in piedi. E come me, tutti!
Sbattevamo col petto, colla testa nelle carrette, nei muli, nei
camion, senza vedere niente, per il buio e per gli occhi chiusi.
L’esercito, nei giorni successivi Caporetto, perse un terzo degli
effettivi: 280.000 prigionieri, 350.000 sbandati e 40.000 tra morti e
feriti. Per le migliaia di prigionieri iniziò una marcia in
direzione opposta verso il cuore dell’Impero asburgico e della
Germania, in terre afflitte dalla fame e dalla miseria. La vita nei
lager austro-tedeschi si rivelò un calvario di fame, malattie e
violenze (circa 100.000 morti in prigionia, pari al16% del totale
degli internati italiani), abbandonati dal governo italiano e dai
generali che li considerarono alla stregua di disertori.19 Molti
soldati, convinti che la guerra fosse ormai finita, disertarono o si
consegnarono al nemico. Nella rotta, gli autocarri, sprovvisti di
benzina, e i grossi calibri, spesso intrasportabili, furono gettati
nei burroni per non farli cadere in mano austro-tedesca.20 Le perdite
di mezzi e armi furono immense: 3.000 cannoni, 1.700 obici, 3.000
mitragliatrici, viveri e munizionamento. Lo sfascio era evidente
anche ai soldati: Tutti
questi veicoli rovesciati o spezzati o sfasciati, ribaltati con tutti
i carichi sparsi per terra, casse sventrate, fogli per tutto, interi
archivi di comandi sparpagliati. I carreggi della sanità che avevano
profuso per ogni dove quantità di medicinali, di fasce, di strumenti
chirurgici, tutti alla rinfusa nel fango, nei fossati a lato della
strada. Carreggi della sussistenza che avevano sparso per tutto
scatolette di carne, di salmone, pagnotte, farina, grano, carne,
olio. Carri con le casette degli ufficiali sventrate, spaccate, con
tutte le biancherie, abiti, utensili di ogni genere disseminati. E
per ogni carro il relativo mulo o cavallo morto ancora attaccato alle
stanghe. Si camminava in fretta calpestando uniformi, biancheria,
medicinali, carte. Tutti i rifornimenti necessari ad un’armata per
potersi muovere, poter vivere, poter combattere: e gli uomini
continuavano a sentire necessità di tutto.
Le
immense perdite, la rotta e la rapidità dell’avanzata nemica
resero evidente l’impossibilità di imbastire una resistenza sul
Tagliamento: Cadorna dispose la ritirata sul Piave, attraverso un
territorio in parte già invaso dal nemico. Il 1 novembre, tutti i
ponti sul Tagliamento furono fatti saltare, lasciando intere
divisioni, quasi tutte appartenenti alla II Armata, e i civili in
fuga in balia del nemico avanzante.22 Le truppe che, tuttavia, erano
riuscite a ritirarsi oltre al Tagliamento potevano adesso raggiungere
il Piave con maggiore facilità. Gli austro-tedeschi, infatti, non
avevano gli uomini né i mezzi per poter dare l’affondo decisivo:
neppure loro avevano preventivato un simile successo.
Università
popolare di Venezia, 1917 Da Caporetto al Piave: soldati,
profughi, invasi
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