Cima Bos (m 2559), Cima Falzarego (m.2563), gli alpini Giovanni Mezzacasa e Fabio Leone
È
difficile distinguere e dividere due cime così simili fra di loro
per un insolito ripetersi della Natura e così unite dalla storia e
dalle vicende di guerra. Bimsstein e Taubenkofel: Pietra Pomice e
Cima del Colombo, così venivano chiamate dagli Austriaci mentre per
gli Italiani erano semplicemente il Col dei Bos (m 2559), nome che
univa ed indicava la cima e la forcella omonima. Le due sommità,
morbide e tondeggianti, hanno le stesse caratteristiche del Piccolo
Lagazuoi: precipitose e ripide verso la Val Costeana; docili e
variopinte, coperte di verde ad addolcire le angosce della Val
Travenànzes. Il loro ricordo è sicuramente legato alle prime
settimane di guerra, una guerra che si stabilì lassù facilmente
quasi avesse trovato il luogo adatto a mettere radici. E se guardo
Col dei Bos da lontano, pare che la rabbia della terra lo abbia
graffiato, morso, slabbrato: un altopiano nudo, un cranio spelato,
fumante sotto i raggi del sole, infido per i passi che affondano
nelle terre viscide e rossastre su cui non riesce a crescere neppure
un filo d’erba perché ogni goccia d’acqua viene risucchiata dal
cuore arso del monte. Profondità carsiche che nascondono insolite
magie di inafferrabili silenzi, di speranze che si spengono nel buio
e poi riaffiorano alla luce per dilagare nel verde mantello che
riveste i fianchi del monte. Ma la sommità era ed è un deserto,
concepito da un Dio che sembrava essersi dimenticato dell’uomo e
della misericordia. Pare fatto apposta per essere rivestito dal
groviglio dei reticolati e poi martoriato dai colpi dei cannoni e
dalle granate e poi bagnato dal sangue e dalle lacrime. Il Col dei
Bos e la vicina Cima Falzarego, in quella estate uggiosa del 1915 in
cui la montagna sembrava inghiottire ogni vittoria, attendevano la
loro ora. Aspettavano, nella loro solitudine senza vita, una vita che
già non c’era più, ancora prima che molti soldati lasciassero
lassù la loro. Le prime settimane di guerra furono decisive per
entrambi gli schieramenti mentre i giorni trascorrevano frenetici nei
preparativi e negli spostamenti organizzativi. Ma questo attendere ed
organizzarsi fu tuttavia favorevole agli Austro/Tedeschi che
riuscirono ad attestarsi fortemente sulla fortezza naturale del
Castelletto e su alcuni punti strategici nei dintorni del Col dei
Bos.
I
generali italiani rimasero fermi e tardi, troppo tardi, decisero di
attaccare la calva nudità, convinti com’erano di sfondare
rapidamente in Val Travenànzes per raggiungere - a nord di Cortina -
la strada per Dobbiaco e la Val Pusteria.
Il
13 e 14 giugno, gli Italiani ebbero i più violenti contatti con gli
avversari e l’impatto con la guerra, quella vera, quella in cui si
erano spenti gli echi irredentistici e patriottici della città, fu
veramente difficile. Ideali e speranze si infransero in un deserto di
pietra che era diventato il cuore in fiamme delle Dolomiti. Erano
assalti snervanti, scontri di artiglierie e di nervi, di astuzie e di
attese, di resistenza al gelo, alla paura.
Cominciarono
ad arrivare i primi feriti nelle retrovie. Ma non c’era tempo per
pensare. C’era troppo da fare. Infatti i soldati che ancora non
avevano avuto il battesimo di fuoco, lavoravano come schiavi a
costruire strade, trasportare cannoni, scavare grotte, cunicoli,
gallerie. Ogni soldato in prima linea ne impegnava sette nelle
retrovie. Fra questi, sicuramente, un ricordo agli uomini del
“Genio”. Sopra tutto questo lavoro e questo affannarsi, si ergeva
la sagoma del Castelletto le cui viscere cominciavano a scottare,
pronte a rivoltare la loro rabbia al cielo. Il Col dei Bos, immoto,
sicuro dietro le inespugnabili muraglie, celava pochi cecchini
austriaci che - ben sistemati - bloccavano, inesorabili, l’avanzata
del Btg. “Belluno”. Con determinazione, dal 6 al 10 luglio 1915,
gli Alpini si accanirono contro le importanti posizioni. 10 Luglio
1915, ore 18: una pattuglia di Alpini del Btg. “Belluno”, guidata
dal Caporale Angelo Schiocchet, detto il “Diavolo delle Tofane” e
reparti del 45° Reggimento di Fanteria, scavarono un sentiero
defilato che arrivava alla vetta. Gli Austriaci erano lassù già dal
23 maggio, ma Schiocchet con passi furtivi sorprese il debole
presidio austriaco. Insieme a due suoi compagni aveva strisciato nel
fango inghiottendo la paura, soffocando respiri e parole,
moltiplicando le forze che sorpresero gli avversari i quali pensarono
di trovarsi di fronte ad un nemico molto più numeroso. Per gli
Austriaci la perdita del Col dei Bos fu veramente un danno gravissimo
ed irreparabile.
L’Alta
Val Travenànzes, con i suoi colossali massi erratici, con l’emergere
fra le onde di pietra del “Gespaltener Fels”, del “Sasso
Spaccato”, era ormai vicina, ma forse non si sarebbe mai concessa
ai nostri soldati. Quell’agguato costò molte ferite e molti morti.
Schiocchet, solo, scese ad avvertire la sua compagnia, la 79ª, che
non c’erano più ostacoli e che poteva salire ad occupare Col dei
Bos. Nella notte, salì lassù anche il resto del battaglione mentre,
nei giorni successivi, alcune pattuglie guidate dall’inesauribile
caporale, vennero mandate ad esplorare i massi di Forcella Bos.
L’azione era rischiosa e si cercavano volontari. “Andémo
Schiocchet!” disse semplicemente un Alpino di nome Giovanni
Mezzacasa offrendosi di seguirlo. Era il 12 luglio: i due si
buttarono nel buio, allo sbaraglio. I cecchini erano all’erta:
furono colpiti da pericolose fucilate. Schiocchet sentiva l’odore
del suo passamontagna bruciato da un colpo radente … Ebbe salva la
vita, ma non fu così per il generoso Giovanni, colpito alla testa.
L’avventura che aveva galvanizzato quei ragazzi, in realtà, era un
tragedia. Schiocchet corse a recuperare il corpo del compagno mentre,
agonizzante, fra le nostre linee rientrava l’Alpino abruzzese Leone
Fabio gettatosi nell’impresa con un tascapane pieno di bombe a
mano. Spirò sorridente fra le braccia di quei soldati che ormai
erano tutti fratelli. Spirò riconquistandosi la dignità che aveva
perso commettendo - forse involontariamente in gioventù - un
omicidio. Giovanni e Fabio furono sepolti insieme nel cuore di roccia
del Col dei Bos, in una piccola grotta che poco discostava dai
ricoveri in cui avevano dormito in quelle prime, poche settimane di
guerra. Un abruzzese e un bellunese, uniti, vicini in un simbolo di
pace e di rispetto espresso nelle bella lapide scolpita dai compagni
rimasti. A volte, quando salgo sola al Col dei Bos - da allora
rimasto in mano italiana - il vento mi inganna e là, in quel
groviglio di reticolati, camminamenti, muri sgretolati, là dove
spesso fu chiesto agli uomini di combattere contro i propri
sentimenti, mi pare di vedere Giovanni e Fabio seduti su un masso,
con lo sguardo perso nella bellezza assoluta delle Tofane e del Fànis
a raccontarsi le piccole cose che sanno e che fanno la saggezza dei
semplici …
Università
popolare di Mestre, conferenze La Grande Guerra in montagna
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